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Capitolo 1. INTRODUZIONE

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Capitolo 1 - Introduzione

Capitolo 1. INTRODUZIONE

La conservazione della biodiversità sta assumendo sempre maggior importanza, anche in seguito alla crescente pressione antropica che viene esercitata su di essa (Erhlich, 2004). Oltre al problema della perdita della diversità di specie, che è quello più evidente e facilmente individuabile, sta acquisendo sempre maggior rilevanza il problema della perdita di diversità a livello intraspecifico. Nel campo della biologia della conservazione, al concetto di salvaguardia delle specie è stato aggiunto quello relativo alla preservazione delle popolazioni, in quanto questo livello di variabilità è di fondamentale importanza per la sopravvivenza e l’evoluzione della specie e può contribuire grandemente al corretto funzionamento di un ecosistema. Malgrado ciò, fino ad oggi, la maggior parte degli sforzi nella gestione degli ecosistemi marini è stata focalizzata sulla protezione delle specie e degli habitat e molto meno sulla salvaguardia delle popolazioni nell’ambito di una specie. Questo è in parte dovuto alla visione ormai superata che considerava le specie marine sprovviste di strutturazione genetica, in quanto la presunta assenza di barriere favorirebbe flusso genico mediante lo scambio di larve e/o adulti anche tra popolazioni molto distanti. In generale, la capacità di dispersione larvale delle specie, ha un effetto essenziale sulla strutturazione genetica delle stesse: specie a bassa dispersione larvale, attraverso un flusso genico minore, favoriscono il differenziamento genetico tra le popolazioni. Per contro, specie ad elevata dispersione larvale, attraverso l’azione omogeneizzante del flusso genico, possiedono bassi livelli di strutturazione genetica, sebbene persino in queste

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Capitolo 1 - Introduzione specie possono esistere importanti strutturazioni genetiche dovute a condizioni ambientali locali.

Un’importante minaccia nei confronti della biodiversità è la frammentazione dell’habitat che, come verrà in seguito approfondito, la influenza anche al suo livello più basso, la biodiversità intraspecifica, provocando una diminuzione del flusso genico. La riduzione del flusso genico comporta, a sua volta, una diminuzione della variabilità esistente nel patrimonio genetico della specie e ciò minaccia la sopravvivenza della specie stessa e la sua capacità di adattamento ai cambiamenti ambientali.

La presente tesi si inserisce in questo contesto con l’obiettivo di indagare gli effetti della frammentazione naturale dell’habitat sulla diversità genetica, intraspecifica ed interspecifica, di due specie di cirripedi a differente dispersione larvale. L’analisi della variabilità genetica è stata condotta su media e su larga scala spaziale. Quale esempio di habitat naturalmente frammentato è stato considerato l’Arcipelago delle Azzorre, dove i frammenti sono costituiti dalle isole. L’Arcipelago delle Azzorre, situato in posizione remota nel Nord Atlantico, comprende nove isole di giovane formazione che possiedono un biota marino e costiero di origine recente. Queste caratteristiche rendono le isole azzorriche un esempio di laboratorio evolutivo naturale (Morton & Britton, 2000) particolarmente adatto allo studio degli effetti a lungo termine della frammentazione dell’habitat sulla diversità genetica.

Le specie bersaglio di questa tesi sono due crostacei cirripedi toracici a differente dispersione larvale: Tesseropora atlantica (Newman & Ross, 1977), a bassa dispersione e Chthamalus stellatus (Poli, 1794), ad ampia dispersione. T.

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Capitolo 1 - Introduzione atlantica ha una distribuzione limitata a poche isole oceaniche (Azzorre, Bermuda, Capo Verde, Canarie, Madeira e St. Paul rocks), mentre C. stellatus è presente sulle coste rocciose dell’Atlantico orientale, del Mediterraneo e del Mar Nero.

L’analisi della variabilità genetica delle due specie in questione è stata condotta utilizzando, come marcatori molecolari, gli ISSR (Inter Simple Sequence Repeat) (Zietkiewicz et al., 1994). Questi marcatori molecolari non necessitano di conoscenze pregresse del DNA bersaglio, sono caratterizzati da una distribuzione nel genoma ampia ed uniforme e da un elevato grado di polimorfismo. Tali caratteristiche rendono gli ISSR strumenti efficacemente utilizzati per il monitoraggio genetico delle popolazioni (Wolfe et al., 1998; Bornet & Branchard, 2004; Casu et al., 2004; Cossu et al., 2004; Lai et al., 2004; Cossu, 2005; Maltagliati et al., 2006).

1.1. Biodiversità genetica

Con il termine biodiversità si intende la varietà di tutte le forme di vita presenti sulla terra, l’informazione genetica totale contenuta nei loro geni e l’insieme degli ecosistemi di cui fanno parte (ISCBD, 1992). Tale variabilità, quindi, è definita a tre livelli principali di organizzazione (Redford & Richter, 1999; Féral, 2002).

1. DIVERSITÀ INTRA-SPECIFICA (GENETICA): è la variabilità genetica tra individui e tra popolazioni di una stessa specie. Essa rappresenta il

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Capitolo 1 - Introduzione substrato per l’adattamento e l’evoluzione delle popolazioni e, quindi, delle specie. La diversità genetica può essere definita come il “materiale grezzo” per i cambiamenti evolutivi, di cui l’adattamento e la speciazione sono un esempio (Templeton et al., 2001).

2. DIVERSITÀ SPECIFICA: si riferisce al numero totale e all’abbondanza delle specie esistenti in un ecosistema ed alle relazioni esistenti tra le specie stesse.

3. DIVERSITÀ ECOSISTEMICA: è la diversità tra gli ecosistemi e tra le differenti tipologie di interazioni che si possono instaurare tra le componenti biotiche ed abiotiche degli ecosistemi.

La sopravvivenza delle specie e delle comunità biologiche richiede la conservazione della biodiversità a tutti questi livelli.

La diversità genetica, pur essendo il livello più basso nella gerarchia della biodiversità, è di fondamentale importanza, in quanto determina il potenziale ecologico ed evolutivo delle specie (Féral, 2002) ed esercita un forte impatto sui livelli gerarchici superiori (Templeton et al., 2001).

Essa non è un concetto statico bensì dinamico, regolato principalmente da forze microevolutive che concorrono, per esempio, a modificare nel tempo le frequenze geniche di una popolazione:

• deriva genetica (cambiamenti casuali delle frequenze geniche di una popolazione. L’effetto è tanto maggiore quanto minore è la dimensione della popolazione);

• mutazione (variazione casuale ereditaria del DNA di un organismo, tale variazione introduce nel pool genico nuovi alleli);

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Capitolo 1 - Introduzione • selezione naturale (trasmissione differenziata, influenzata

dall’ambiente, di genotipi da una generazione all’altra);

• migrazione (processo responsabile dell’introduzione in una popolazione, di individui provenienti da un’altra popolazione. La migrazione di geni che ne deriva è detta flusso genico).

Se da un lato la mutazione, la deriva genetica, la selezione naturale inducono differenziazione, dall’altro, il flusso genico tende a diminuire la variabilità in quanto tende ad omogeneizzare le frequenze geniche a livello di popolazioni differenti.

La diminuzione di variabilità genetica nelle popolazioni naturali e la conseguente perdita di biodiversità, è dovuta ad alterazioni sia naturali che antropiche, che comportano effetti genetici quali:

• modificazioni del flusso genico;

• depressione da inbreeding (diminuzione della fitness a causa

dell’accoppiamento tra consanguinei) e da outbreedding (diminuzione della fitness dovuta ad accoppiamento tra individui di popolazioni geneticamente distinte);

• introgressione genica (diminuzione della fitness a causa

dell’accoppiamento con specie differenti);

• collo di bottiglia (drastica riduzione del numero di individui di una

popolazione in seguito ad un evento catastrofico, durante tale riduzione gli alleli rari possono scomparire dal pool genico per motivi stocastici). Tutti questi fenomeni possono portare, attraverso un impoverimento del pool genico, ad una diminuzione del potenziale evolutivo di una specie o anche

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Capitolo 1 - Introduzione all’estinzione di intere popolazioni. Pertanto il mantenimento dell’integrità genetica a livello di popolazioni e di specie è essenziale per la sopravvivenza delle stesse.

In ambiente marino la diversità genetica è distribuita su scale spaziali diverse, che vanno da pochi millimetri a migliaia di chilometri. I pattern di diversità genetica variano in rapporto ai cicli vitali ed alla capacità di dispersione delle specie: specie con elevate capacità dispersive tendono ad essere meno strutturate geneticamente (grazie all’azione omogeneizzante del flusso genico), mentre le specie con capacità dispersive ridotte sono maggiormente strutturate. Recentemente sono state trovate eccezioni a questa regola generale: per esempio, in due studi condotti su Elacatinus evelynae (un pesce caraibico) (Luttikhuizen et al., 2003) e sul bivalve Macoma balthica (Taylor & Hellberg, 2003) è stato messo in evidenza come, malgrado la loro ampia dispersione larvale, le sopradette specie presentino strutturazione genetica relativamente marcata. Quindi, anche in specie dotate di un elevato potenziale dispersivo possono esistere importanti strutturazioni (Arnaud et al., 2000; Zane et al., 2000). Per esempio, popolazioni localizzate su frammenti di habitat separati e dotate di larve ad ampia dispersione, si possono trovare parzialmente o totalmente isolate l’una dall’altra a causa di correnti locali, che tendono a ritenere le larve in una zona specifica, o a causa di correnti superficiali che comportano dispersione direzionale (Wares et al., 2001).

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Capitolo 1 - Introduzione

1.2. Frammentazione dell’habitat

Nell’ambito degli studi sulla conservazione della biodiversità è essenziale considerare la frammentazione e la perdita dell’habitat essendo, questi, tra i fenomeni più importanti che minacciano la biodiversità stessa (Saunders et al., 1991; Dobson, 1996).

Per frammentazione dell’habitat in senso classico si intende la suddivisione di un habitat continuo in frammenti di dimensioni ridotte (Saunders et al., 1991). La frammentazione dell’habitat può avere due tipi di origine: antropico e naturale. È da rilevare che la scala temporale dei due tipi è diversa: mentre in habitat la cui frammentazione è frutto dell’attività antropica, gli effetti sul pattern genetico avvengono in tempi che possono essere anche molto brevi, nella frammentazione naturale dell’habitat possono essere implicate scale temporali evolutive (es. le isole di un arcipelago che costituiscono un habitat naturalmente frammentato in cui i frammenti sono costituiti dalle isole).

La frammentazione è dovuta sia alla perdita di porzioni dell’habitat originario, che alla formazione di barriere che impediscono il libero movimento. Le cause possono essere sia naturali (barriere fisiche quali: mari, fiumi, ecc..; eventi naturali quali: inondazioni, eruzioni vulcaniche, ecc..), che antropiche (inquinamento, agricoltura, urbanizzazione, costruzione di strade, dighe, ecc..).

Le principali conseguenze della frammentazione dell’habitat sono:

• perdita di una porzione dell’habitat; • dimensioni ridotte dei singoli frammenti;

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Capitolo 1 - Introduzione

• diminuzione della connettività tra le popolazioni e conseguente

aumento dell’isolamento;

• aumento dell’effetto margine e conseguente aumento della

periferia (buffer zone) tra l’habitat e la matrice esterna al sistema;

• modificazione della qualità degli habitat originali (ambienti

naturali di per sé non alterati, ma circondati da ambienti resi ostili dall’intervento antropico, per esempio, possono risultare non più adatti per certe specie).

Ai fini della conservazione biologica è importante poter predire i tassi di sopravvivenza ed evoluzione delle popolazioni in base alle dimensioni ed al grado di isolamento del frammento in cui esse sono localizzate (Fahring & Merriam, 1994). Bisogna, infatti, considerare che la sopravvivenza a lungo termine di popolazioni localizzate in un habitat frammentato dipende da fattori quali: dimensioni dell’habitat (Dunstan & Fox, 1996), tipo di habitat (Bentley et al., 2000; Knight & Fox, 2000), connettività tra le popolazioni (Stacey & Taper, 1992). In particolare, i frammenti possono non essere sufficientemente ampi per garantire la sopravvivenza minima di una popolazione, mancando, per esempio, di rifugi e di risorse per l’alimentazione e la riproduzione (Loehle, 1999). Frammenti eccessivamente distanti tra loro possono presentare un basso tasso di migrazione, ciò li rende particolarmente soggetti a fenomeni di estinzione (Williamson, 1983). C’è da considerare il fatto che la presenza di corridoi biologici (Mech & Hallett, 2001) e le capacità dispersive delle specie in

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Capitolo 1 - Introduzione questione (Brouat et al., 2003) possono influenzare i pattern di migrazione in habitat frammentati.

Nel considerare gli effetti della dimensione e del grado di isolamento dei frammenti sulla sopravvivenza delle popolazioni in essi presenti, si fa riferimento alla teoria delle isole di MacArthur & Wilson (1967). Secondo tale teoria la ricchezza di specie e l’abbondanza di individui decresce al diminuire delle dimensioni delle isole (cui si paragona il frammento) ed all’aumentare della distanza delle isole dalla terra ferma. Nell’applicare la teoria della biogeografia delle isole allo studio di ambienti frammentati, però, bisogna tener conto di un’importante differenza tra le due situazioni. Infatti, mentre la teoria di MacArthur & Wilson (1967) prevede l’esistenza di un serbatoio di specie esterno al sistema (la terraferma), da cui vi è una costante migrazione di specie verso le isole, nel caso di habitat frammentato l’apporto di organismi da sorgenti esterne al sistema è solitamente molto limitato o nullo ed i fenomeni di dispersione riguardano quindi solo le specie presenti nei diversi frammenti.

La maggior parte degli studi riguardanti la frammentazione dell’habitat è stata condotta in ambiente terrestre, ove i confini che separano le popolazioni naturali sono generalmente ben definiti e visibili, rispetto a quelli presenti in ambiente marino. Per esempio, nel caso degli oceani è difficile pensare a confini specifici, essendo gli oceani collegati tra loro e caratterizzati da correnti in grado di facilitare la migrazione e la dispersione degli organismi. Anche in ambiente marino, comunque, esistono barriere che possono limitare la dispersione larvale tra frammenti diversi (Palumbi et al., 1997). Queste barriere possono essere di diverso tipo:

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Capitolo 1 - Introduzione

• barriere di natura chimica: ad esempio gradienti di abbondanza

trofica e di salinità;

• barriere di natura fisica: correnti, gradienti di temperatura e di

luce, elevata distanza tra le popolazioni di diversi frammenti;

• barriere comportamentali, come nel caso dell’homing.

Numerosi, comunque, sono gli esempi di habitat marini naturalmente frammentati, quali le sorgenti termali profonde (“thermal vents”), le pozze di scogliera, gli ambienti salmastri e le praterie di fanerogame marine. Questi ecosistemi possono essere considerati al pari di isole, a causa della loro distribuzione a macchia (Roberts & Hawkins, 2000). Inoltre, anche se in misura minore rispetto all’ambiente terrestre, le attività umane generano un forte impatto sulla biodiversità marina, soprattutto nella zona costiera. Le pressioni antropiche maggiori a carico della biodiversità marina derivano dalla frammentazione e perdita dell’habitat, dall’inquinamento, dai cambiamenti climatici, dall’eutrofizzazione, dall’alterazione fisica delle coste, dal turismo, dalla pesca, ecc.

La frammentazione dell’habitat determina, in specie che non disperdono, un aumento dell’isolamento e, quindi, una diminuzione del flusso genico. Tutto ciò conduce ad un aumento nel grado di divergenza tra le popolazioni (Brown et al., 2001). La diminuzione del flusso genico in seguito alla frammentazione dell’habitat, a sua volta, conduce ad un decremento della dimensione della popolazione e ad una conseguente diminuzione del grado di variabilità genetica all’interno della popolazione (Hooftman et al., 2004). La diminuzione nella dimensione della popolazione, infatti, può condurre:

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Capitolo 1 - Introduzione • alla riduzione del numero di alleli all’interno della popolazione per deriva genetica. In particolare, gli alleli che vengono persi per primi sono quelli rari;

• alla diminuzione della variabilità genetica come risultato di un aumento di inbreeding e conseguente aumento del livello di omozigosità.

Tale perdita di variabilità rende le popolazioni più vulnerabili nei confronti di eventi stocastici e di variazioni ambientali, abbassando il loro potenziale evolutivo. Ciò conduce ad un aumento della probabilità di estinzione dell’intera popolazione (Hartl et al., 1992).

Gli effetti della frammentazione dell’habitat, inoltre, possono essere divisi in effetti a breve termine ed a lungo termine. In tempi brevi la riduzione della variabilità genetica può condurre all’aumento dell’espressione e dell’accumulo di alleli parzialmente dannosi che conducono ad una diminuzione nella fitness degli individui e ad una diminuzione della vitalità e della dimensione della popolazione e, quindi, un aumento del tasso di inbreeding (Ellstrand & Elam, 1993; Young et al., 1996; Keller & Waller, 2002). In tempi lunghi (scala evolutiva) un decremento della variabilità genetica comporta una diminuzione della capacità di rispondere alle diverse pressioni selettive (Barrett & Kohn, 1991; Young et al., 1996). La diminuzione di variabilità genetica, infatti, limita la capacità di andare incontro ad evoluzione adattativa (Keller & Waller, 2002) aumentando il rischio di estinzione. Gli effetti della frammentazione dell’habitat sulle diverse specie dipendono dalle caratteristiche morfologiche, fisiologiche e comportamentali delle specie stesse, caratteristiche

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Capitolo 1 - Introduzione che influenzano il modo in cui i diversi individui percepiscono l’ambiente (Eggleston et al., 1998). Tale percezione dipende anche dalle dimensioni degli individui (dimensioni minori implicano una maggiore sensibilità) e della popolazione e dalle caratteristiche dell’habitat in cui vive la specie (Eggleston et al., 1999). Pertanto, per prevedere gli effetti della frammentazione dell’habitat sulle diverse specie è assai importante tener conto delle loro caratteristiche ecologiche.

1.3. Inquadramento sistematico e morfologia dei cirripedi

Le linee della sistematica dei cirripedi (Fig. 1.1) sono quelle stabilite da Darwin (1851-1854), successivamente revisionate ed ampliate da Pilsbry (1916) e, per quanto riguarda i Balanomorpha, da Newman e Ross (1976).

Fig. 1.1 Classificazione dei cirripedi.

La presente tesi riguarda due specie appartenenti all’ordine Thoracica, sub-ordine Balanomorpha.

I cirripedi sono una classe di crostacei marini muniti di sei paia di appendici toraciche bifide, i cirri, da cui deriva il nome. La classe comprende

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Capitolo 1 - Introduzione circa 1445 specie, di cui i due terzi conducono vita libera (con stadio adulto generalmente sessile), mentre il terzo restante è costituito da specie parassite (ecto- o endo-parassiti) o epizoi commensali.

I cirripedi conducenti vita libera (Thoracica) si presentano in due forme: peduncolati (Lepadomorpha), attaccati al substrato per mezzo di un peduncolo, e non peduncolati (Balanomorpha e Verrucomorpha) che aderiscono al substrato tramite la superficie inferiore del guscio (base) che può essere di natura calcarea o membranosa (Relini 1980).

I cirripedi sono l’unico gruppo di crostacei sessili dotati di un guscio calcareo, insolito tra i crostacei; tale caratteristica indusse a classificarli un tempo come molluschi e, solo quando gli stadi larvali furono identificati, vennero pienamente riconosciuti i rapporti tra cirripedi e crostacei. Il guscio dei cirripedi è, in realtà, un esoscheletro altamente modificato.

I cirripedi sono gli organismi dominanti della zona eulittorale (compresa tra il livello massimo della marea e i 50 mt), in ambienti con moderata o elevata esposizione alle onde (Lewis, 1964; Stephenson & Stephenson, 1972), e hanno dimensioni che variano da pochi millimetri ad una ventina di centimetri (Relini, 1980); sono diffusi in tutto il mondo e si fissano ovunque esista un substrato adatto disponibile. La maggior parte delle specie vive sommersa, alcune ad elevate profondità, altre specie colonizzano la zona intertidale e possono tollerare una temporanea esposizione all’aria durante la bassa marea, altre ancora possono vivere nella zona degli spruzzi su spiagge battute dalle onde.

La loro importanza ecologica è legata, soprattutto, al fenomeno del “fouling” ed alla loro capacità di comportarsi come bioindicatori. Il termine

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Capitolo 1 - Introduzione “fouling” indica l’insieme degli organismi insediati su substrati sommersi artificiali e non (carene delle navi, oggetti in pietra, legno o plastica, cordami, conchiglie, tegumento di grandi mammiferi). Questi organismi rappresentano un problema, ad esempio nel settore navale (Champ & Lowenstein, 1992) poiché, incrostando le chiglie delle navi, possono causare una riduzione della velocità e della manovrabilità delle stesse; al contempo costituiscono anche un evento biologico interessante per studiare il fenomeno della colonizzazione (Apte et al., 2000; Godwin, 2003). Come bioindicatori, invece, i cirripedi possono essere usati per lo studio dei cambiamenti climatici a lungo termine: si analizzano le fluttuazioni nell’abbondanza e nella distribuzione delle specie, e la variazione della composizione in specie di una zona, variazioni che possono essere correlate, ad esempio all’aumento delle temperature (Southward, 1967; 1980; 1991). Oltre che per rilevare cambiamenti climatici, questi bioindicatori possono essere usati anche per evidenziare la presenza di un elevato disturbo antropico o di un ambiente marino particolarmente modificato, per esempio per verificare la biodisponibilità di metalli pesanti nelle acque costiere (Rainbow, 1993).

Per quanto riguarda la morfologia esterna dei Balanomorpha, il guscio è costituito da tre parti principali: base, muraglia e opercolo, di cui solo le placche opercolari sono movibili, il resto è saldato a formare un complesso rigido che, nell’insieme, costituisce la conchiglia.

1. MURAGLIA: rappresenta la parete verticale che circonda l’animale; le piastre che compongono la muraglia si sovrappongono l’una all’altra e possono essere tenute insieme semplicemente da tessuto vivente, da denti che si

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Capitolo 1 - Introduzione incastrano o da vere e proprie fusioni. La muraglia è costituita generalmente da sei (massimo otto) piastre calcaree: il rostro, la carena, due piastre laterali e due careno-laterali (Fig. 1.2); ognuna delle piastre è costituita da una parte centrale, detta parete, e da due prolungamenti laterali, detti ali o radi, con cui i diversi pezzi s’incastrano tra loro per formare la struttura della muraglia (Relini, 1980).

Fig. 1.2 Schema delle piastre. S=scuto, T=tergo, C=carena, R=rostro, L=laterali, CL=careno-laterali (Relini, 1980).

Le piastre calcaree sono secrete dal mantello e si accrescono per continua aggiunta di materiale ai margini ed alla superficie interna, aumentandone così lo spessore ed il diametro; l’accrescimento del guscio è più o meno continuo ed indipendente dall’accrescimento del corpo e dalle mute. 2. BASE: parte inferiore del guscio, membranosa o calcarea, collegata alla

muraglia attraverso una particolare articolazione che conferisce solidità e consente l’accrescimento sia della base che della muraglia. Tramite la base il cirripede aderisce al substrato;

3. OPERCOLO: composto da quattro piastre mobili (Fig. 1.3): due scuta verso il rostro e due terga verso la carena. Entrambi sono di forma triangolare ma di dimensioni differenti: lo scutum è la valva opercolare più grande. La

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Capitolo 1 - Introduzione muraglia, generalmente, si eleva oltre i terga e gli scuta facendoli apparire sul fondo di una sorta di vestibolo.

Fig. 1.3 Schema dell’opercolo e del guscio.

Per quanto riguarda la morfologia interna (Fig. 1.4), il corpo dei cirripedi è racchiuso in un carapace o mantello, all’interno del quale l’animale è ripiegato all’indietro, in modo che l’asse lungo del corpo formi un angolo retto con la muraglia e le appendici toraciche siano rivolte in alto verso l’apertura opercolare.

Fig. 1.4 Rappresentazione schematica della struttura interna di un balanomorfo (Relini, 1980).

Il corpo consta di una regione cefalica e di una regione toracica (l’addome è scomparso), sebbene talvolta sia presente una furca caudale. La segmentazione è poco distinta. Le prime antenne sono vestigiali, eccetto che

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Capitolo 1 - Introduzione per le ghiandole del cemento, mentre le seconde antenne sono presenti solo nelle larve. Vi sono sei paia di appendici toraciche bifide con funzione alimentare, i cirri. Ogni cirro (Fig. 1.5) è formato da due segmenti basali (pedicelli) e due lunghi rami (interno ed esterno) formati da numerosi segmenti, a loro volta muniti di setole.

Fig. 1.5 Cirro, primo e secondo segmento del pedicello (ped1, ped2), ramo anteriore o esterno (ar), ramo posteriore o interno (pr) del cirro.

I cirripedi sono animali sospensivori, durante l’alimentazione gli scuta ed i terga dell’apertura opercolare si aprono, i cirri si srotolano e si estendono attraverso l’apertura stessa; quando i cirri sono distesi formano una struttura simile alla metà di un cestello. Tale struttura agisce come una sorta di setaccio, in grado di trattenere le particelle in sospensione. La struttura si muove dall’alto verso il basso con un ritmo di circa 140 battiti al minuto; durante la battuta di chiusura, le particelle alimentari sospese nell’acqua vengono trattenute dalle setole, ed il primo paio di cirri (o le prime tre paia) viene usato per raccogliere le particelle e portarle alle parti boccali. La bocca è situata sul cono orale, una protuberanza posta davanti al primo paio di cirri. I cirripedi si nutrono soprattutto in primavera e in autunno quando i livelli di plancton sono elevati, mentre durante l’inverno la nutrizione è scarsa e questi organismi fanno affidamento soprattutto sulle riserve accumulate (Anderson, 1994). Essi sono in

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Capitolo 1 - Introduzione grado di consumare una gran varietà di cibo in sospensione che include particelle di dimensioni diverse dal fitoplancton allo zooplancton, dai detriti di alghe alle diatomee (Barnes, 1959).

Per quanto riguarda la muscolatura dei cirripedi, assumono fondamentale importanza i muscoli opercolari, gli adduttori e i depressori degli scuta e dei terga che assicurano il movimento di tali piastre.

Consideriamo ora la riproduzione e lo sviluppo dei cirripedi toracici. I cirripedi toracici sono l’unico grande gruppo di crostacei ermafroditi che presentano fecondazione incrociata, grazie all’insediamento gregario di conspecifici su substrati idonei: questo comportamento è conseguenza della vita sessile, che comporta una difficoltà d’incontro per l’accoppiamento. Alcune eccezioni si ritrovano nei peduncolati in cui, accanto agli individui ermafroditi esistono i maschi complemento o maschi nani, che mostrano diversi gradi di modificazione per perdita o degenerazione di varie strutture e che si attaccano ad altri individui ermafroditi.

I testicoli, ramificati, sono localizzati nella regione cefalica da cui si estendono in quella toracica. I dotti spermatici terminano in un lungo pene situato all’estremità posteriore del corpo, che viene estroflesso e introdotto nella cavità del mantello di un altro individuo per la deposizione dello sperma. Gli spermi sono depositati in una masserella vicino ai primi cirri e devono attraversare l’ovisacco per raggiungere le uova.

Gli ovari, in numero pari, sono situati in prossimità della base, nella parete del mantello; gli ovidotti, anch’essi pari, si aprono alla base del primo paio di cirri; subito prima di raggiungere il gonoporo gli ovidotti si allargano in

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Capitolo 1 - Introduzione una ghiandola oviducale che secerne un ovisacco elastico e sottile in cui vengono deposte le uova. Mentre riceve le uova, l’ovisacco si rigonfia e si distende fuoriuscendo dal gonoporo e situandosi nella cavità del mantello. All’interno dell’ovisacco le uova vengono fecondate, ed incubate nella cavità del mantello, mentre l’ovisacco gradualmente degenera. Lo stadio di schiusura delle uova della maggior parte dei cirripedi è una larva nauplius (Fig. 1.6), facilmente riconoscibile per il carapace triangolare a forma di scudo, che viene poi rilasciata nel plancton.

Fig. 1.6 Larva nauplius di cirripede.

Il rilascio della larva nel plancton occorre durante uno dei sei stadi naupliari, a seconda della specie, determinando il tempo che la larva permane nel plancton e, quindi, la sua capacità dispersiva. Una peculiarità dei cirripedi è la capacità di controllare il periodo di rilascio delle larve, sincronizzando i diversi individui di una popolazione (Crisp, 1956): nel periodo idoneo i tessuti degli adulti producono una particolare prostaglandina (Clare et al., 1982; 1985), responsabile di tale sincronizzazione. Quando la larva è rilasciata al primo o secondo stadio naupilare, per cui passa lunghi periodi nel plancton, è detta

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Capitolo 1 - Introduzione planctotrofica, mentre se viene rilasciata all’ultimo stadio è detta lecitotrofica, non in grado di nutrirsi (Strathmann, 1986).

Il nauplius attraversa sei stadi naupliari ed è seguito dallo stadio di cypris (Fig. 1.7), caratterizzato da un corpo racchiuso in un carapace bivalve (che fa somigliare la larva ad un ostracode), da un paio di occhi composti sessili e da sei paia di appendici toraciche.

Fig. 1.7 Larva cypris liberamente natante di cirripede.

Lo stadio cypris non assume cibo, il suo unico compito è la ricerca di un substrato adatto all’insediamento (Lagersson & Hoeg 2002) tramite un paio di antennule che costituiscono il principale apparato locomotore e sensoriale della cypris; esse sono estremamente manovrabili e fornite di numerosi organi chemio e meccanorecettori. Le larve cypris, inoltre, possiedono il più completo sistema nervoso di tutto il ciclo vitale del cirripede. Quando trova il substrato idoneo la larva aderisce alla superficie cui si fissa grazie al secreto prodotto dalle ghiandole del cemento, poste alla base del primo paio di antenne. La selezione del punto di attacco è influenzata da numerosi parametri ambientali, fisici, chimici e biologici, come la luce, la disponibilità di cibo, la presenza di adulti conspecifici (Faimali et al., 2004). Anche fattori abiotici, come la natura

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Capitolo 1 - Introduzione fisica del substrato (in termini di ruvidità, colore, composizione mineralogica) e fattori biotici (come il biofilm che riveste il substrato) giocano un ruolo importante nell’insediamento larvale. La composizione microbica del biofilm, in particolare quella batterica, varia a seconda delle condizioni ambientali e della natura del substrato. Le larve degli invertebrati marini sessili sono in grado di distinguere tra biofilm di varia composizione, ciò suggerisce che i microrganismi possano servire come indicatori per le larve in cerca di un substrato adatto. Si pensa, per esempio, che i cirripedi intertidali possano identificare l’altezza della marea esplorando la variazione nella composizione del biofilm lungo la fascia intertidale. L’alta capacità adsorbente del biofilm può inoltre guidare le larve attraverso i fattori di insediamento rilasciati dagli individui adulti precedentemente insediati. Altri fattori che influenzano l’insediamento larvale sono l’età della larva e le sue riserve energetiche che sono necessarie per la metamorfosi e per la crescita dei giovani balani (Satuito et al., 1996).

Dopo l’insediamento (Fig. 1.8) si verifica la metamorfosi nello stadio di adulto sessile, durante la quale i cirri si allungano, il corpo si flette e si circonda del carapace o mantello dell’adulto che secerne le piastre calcaree da cui sarà, poi, ricoperto.

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Capitolo 1 - Introduzione

Fig. 1.8 Rappresentazione schematica del ciclo riproduttivo di un balanomorpho: a) adulto, b) primo e c) secondo stadio naupliare, d) stadio di cypris, e) attacco al

substrato e metamorfosi.

I fattori che influenzano il tasso di crescita dei cirripedi possono essere divisi in fattori locali (come il flusso di corrente e la densità della popolazione) e in fattori regionali (come la temperatura e l’abbondanza di nutrienti) (Crisp, 1960). La crescita è rapida in aree attraversate da forti correnti, dove risulta maggiore la quantità di nutrienti trasportata; inoltre, tutti i cirripedi mostrano un accrescimento più veloce durante le prime fasi di vita e più lento durante le fasi successive (Anderson, 1994). L’accrescimento è influenzato positivamente dalla temperatura, in relazione al fatto che l’alta temperatura promuove l’attività dei cirri, la cattura del cibo e la sua assimilazione (Crisp & Bourget, 1985; Anderson, 1994). Esso, inoltre, è influenzato anche dalla densità della popolazione: ad una densità inferiore ad un individuo per cm2 i cirripedi

competono per lo spazio e, appena si toccano, la crescita del diametro si arresta ed è sostituita dalla crescita in altezza; mentre ad una densità maggiore, il tasso di accrescimento diminuisce complessivamente in relazione alla densità (Crisp & Bourget, 1985).

(23)

Capitolo 1 - Introduzione

1.4.

Tesseropora atlantica

(Newman & Ross, 1977)

ORDINE Thoracica SOTTORDINE Balanomorpha SUPERFAMIGLIA Tetraclitoidea FAMIGLIA Tetraclitidae SOTTOFAMIGLIA Tetraclitinae GENERE Tesseropora

SPECIE Tesseropora atlantica

Il genere Tesseropora compare per la prima volta nell’Oligocene ed attualmente comprende tre specie: Tesseropora rosea (Pacifico Meridionale, Africa, Australia, Isole Karmadec e Nuova Caledonia), Tesseropora wireni Pacifico Settentrionale) (Costa & Jones, 2000) e Tesseropora atlantica (isole Bermuda, Arcipelago delle Azzorre, Capo Verde, Madeira) (Newman & Ross, 1977; Southward, 1998). Per quanto riguarda le differenze che contraddistinguono T. atlantica (Fig. 1.9) dalle altre specie, c’è da considerare l’allineamento tra la linea di confine dell’adduttore scutale e quella articolare (Costa & Jones, 2000): nella T. atlantica le due linee hanno una disposizione più o meno parallela e continua, mentre nelle altre specie l’estremità dell’adduttore è in parte sovrapposta alla linea articolare. Un’altra differenza si ritrova nella distribuzione dei canali parietali, localizzati tra le due lamine calcificate che formano le placche della muraglia: nella T. atlantica i canali sono disposti su un’unica fila (Newman & Ross, 1977; Young, 1998), caratteristica presente anche in T. rosea, ma le due specie sono distinguibili per la marcata differenza di distribuzione geografica, mentre nella T. wireni sono disposti anche su file

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Capitolo 1 - Introduzione secondarie e terziarie, formando diramazioni di tipo dicotomico. La T. atlantica si differenzia dalle due specie del Pacifico anche per il colore della guaina, per lo sviluppo dei radii e per la struttura dei cirri.

Fig. 1.9 Tesseropora atlantica.

La T. atlantica è una specie identificata di recente, i cui rappresentanti inizialmente furono erroneamente classificati come membri della specie Tetraclita squamosa var. elegans (Southward, 1998). Quando si confrontò, mediante analisi morfologica, la conchiglia di un campione di Tetraclita squamosa con la conchiglia di alcuni campioni di Tesseropora atlantica campionati alle Bermuda, l’errore divenne evidente e gli individui analizzati furono classificati come rappresentanti del genere Tesseropora, per la loro somiglianza con la Tesseropora wireni, ma appartenenti ad una nuova specie (Southward, 1998).

La caratteristica peculiare della T. atlantica riguarda il ciclo riproduttivo (Fig. 1.10), in cui manca lo stadio naupliare pelagico (Southward, 1998; Young, 1998) in quanto i nauplii sono incubati nella cavità del mantello. Come adattamento a questo fenomeno i nauplii non sono capaci di alimentarsi, ma sono ricchi di riserve lipidiche (larva lecitotrofica).

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Capitolo 1 - Introduzione

Fig. 1.10 Ciclo vitale di Tesseropora atlantica.

All’interno della cavità del mantello le piccole larve attraversano i sei stadi naupliari ed, infine, metamorfosano nella larva ciprys che viene rilasciata in acqua. Affinchè sia possibile la ritenzione delle larve, ogni individuo necessita di uno spazio sufficiente all’interno della cavità del mantello, per cui i giovani reclutati possono riprodursi solo dopo aver raggiunto una lunghezza minima della conchiglia di 4 mm.

La cypris non è in grado di nutrirsi, ha un carapace lungo in media 0.63 mm, è liberamente natante e ricerca un substrato idoneo cui aderire. L’insediamento avviene entro 24 ore dal rilascio (Southward, 1998) ed è seguito dalla metamorfosi nell’adulto. Questa modalità di sviluppo rende la T. atlantica uno dei cirripedi dotati del minor grado di dispersione larvale e, probabilmente, è un adattamento finalizzato, attraverso la riduzione al minimo del rischio di perdita delle larve, al mantenimento delle popolazioni insulari.

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Capitolo 1 - Introduzione La T. atlantica è presente esclusivamente nelle isole dell’Oceano Atlantico (Fig. 1.11): Arcipelago delle Azzorre, Bermuda, Capo Verde, Madeira e St. Paul Rocks nell’Atlantico Meridionale.

Fig. 1.11 Distribuzione di Tesseropora atlantica.

L’habitat ideale di T. atlantica è rappresentato dai luoghi riparati ed ombreggiati, per cui i rappresentanti della specie si localizzano all’interno delle insenature, sotto le rocce e negli anfratti, nella parte inferiore della zona intertidale o a livello dei tappeti algali (Costa & Jones, 2000). Questo habitat si trova più in basso rispetto all’habitat ottimale di Chthamalus stellatus, anche se, talvolta, la distribuzione delle due specie si sovrappone. Man mano che si sale verso il limite verticale superiore della distribuzione di questa specie, si registra una diminuzione nelle dimensioni degli individui, contenute, generalmente, tra gli 1.5 mm ed i 6.5 mm; diversi esemplari di piccole dimensioni, inoltre, si possono aggregare, formando dei cluster.

La T. atlantica, a differenza di C. stellatus, nonostante possieda una base calcarea è intollerante alla perdita di acqua (Newman & Ross, 1977) (probabilmente è una forma di adattamento volta a limitare gli stress). Tale

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Capitolo 1 - Introduzione caratteristica ne influenza il limite superiore della distribuzione nella zona intertidale, mentre il limite inferiore arriva ad una profondità massima di 25 m; ove si trova attaccata al Megabalanus azoricus o al guscio dei molluschi (Young, 1998).

1.5.

Chthamalus stellatus

(Poli, 1794)

ORDINE Thoracica SOTTORDINE Balanomorpha SUPERFAMIGLIA Chthamaloidea

FAMIGLIA Chthamalidae

SOTTOFAMIGLIA Chthamalinae

GENERE Chthamalus (Ranzoni 1818)

SPECIE Chthamalus stellatus

Nome Comune Dente di cane

Il genere Chthamalus è di origine più antica rispetto al genere Tesseropora, essendosi differenziato a partire dall’Eocene.

Il guscio di C. stellatus (Fig. 1.12), generalmente di forma conica, può assumere anche forma tubulare a colonna in ambienti con elevata densità di individui. La muraglia è caratterizzata da sei piastre calcaree, di dimensioni simili, e da un diametro rostro-carenale che può raggiungere i 14 mm, ed è in media di 6-8 mm. La piastra rostrale è stretta e manca la fusione con le piastre laterali. L’apertura opercolare, ovale o subcircolare negli adulti e più appuntita nei giovani, è formata da due terga e due scuta, e il tessuto al suo interno è di colore azzurro con bandeggi marroni ed arancioni.

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Capitolo 1 - Introduzione

Fig. 1.12 Chthamalus stellatus

La grandezza della conchiglia dipende dall’età, dall’habitat, dallo spazio disponibile, dalla disponibilità di cibo e dal tipo di esposizione alla marea o al moto ondoso.

La nutrizione avviene grazie al movimento dei cirri che, fuoriuscendo dall’opercolo, catturano il plancton ed il materiale organico sospeso nella colonna d’acqua. Il numero di battiti dei cirri diminuisce con l’aumentare dell’età e della taglia dell’animale, ma aumenta con la temperatura. I cirri sono usati anche per la respirazione (Anderson & Southward, 1987).

La riproduzione avviene durante il periodo primaverile-estivo, da maggio a settembre (Burrows et al., 1992), e comprende solitamente più di un evento riproduttivo. La durata dell’evento, così come la velocità di sviluppo dell’embrione, dipende dalla disponibilità di cibo e dalla temperatura, che non deve essere inferiore ai 15 °C (Patel & Crisp, 1960). Pur essendo la fecondazione solitamente di tipo incrociato, in C. stellatus si può anche verificare autofecondazione, nei casi in cui non sia presente un conspecifico

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Capitolo 1 - Introduzione nelle vicinanze, o, se presente, non sia sufficientemente vicino per permettere la copulazione (Barnes & Crisp, 1956).

Le uova sono prodotte in numero variabile secondo una relazione inversamente proporzionale all’altezza sulla scogliera in cui l’organismo è insediato, alla disponibilità di cibo e all’età dell’individuo. Dopo la fecondazione, le uova sono trattenute nella cavità del mantello (O'Riordan et al., 1992) fino alla maturazione nel primo degli stadi naupliari (Fig. 1.13): è stato stimato che, in condizioni di cibo abbondante e ad una temperatura di 19 °C, il periodo di sviluppo larvale per C. stellatus sia di 22 giorni (Burrows, 1988).

Fig. 1.13 Ciclo vitale di Chthamalus stellatus.

Dopo la metamorfosi nel primo stadio naupliare si verifica il rilascio della larva nel plancton. Le larve si muovono in modo passivo nello strato superficiale delle acque costiere spinte dal vento e dalle correnti marine. Durante questa fase, che dura circa 22 giorni, la larva si nutre di plancton, passa attraverso i sei stadi naupliari ed infine metamorfosa nella cypris. La fase

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Capitolo 1 - Introduzione planctonica è il periodo del ciclo vitale con maggior probabilità di mortalità, dovuta prevalentemente alla predazione ed alla possibilità che la larva non riesca a trovare il substrato idoneo su cui insediarsi.

Nella fase di cypris, quando la larva trova il substrato adatto, si verifica l’insediamento e successivamente la metamorfosi nello stadio adulto. Non tutti gli individui sopravvivono all’insediamento, poiché in questa fase la probabilità di mortalità è elevata, principalmente a causa dell’azione delle onde, della predazione, dell’essiccamento e del sovraffollamento. L’adesione al substrato è permessa dalla presenza di una base membranosa, che aderisce permanentemente al substrato (Crisp, 1956). Il superamento della fase di attacco indica l’avvenuto reclutamento.

La crescita di un individuo adulto si verifica mediante mute successive, la cui frequenza dipende dal tasso di alimentazione e dalla temperatura: la muta non avviene durante l’inverno, quando le condizioni ambientali sono sfavorevoli, dato che i livelli di fitoplancton e le temperature sono bassi (Crisp & Patel, 1961). La velocità di crescita è maggiore negli stadi giovanili, rallentando in quelli successivi (Southward & Crisp, 1956), con un aumento medio di dimensioni di 10-55 µm al giorno (Crisp & Bourget, 1985). In generale la velocità di accrescimento varia in relazione a fattori biologico-ambientali, come il flusso e l’orientazione della corrente, la disponibilità di cibo, l'esposizione alle onde, l'altezza di marea, la competizione intra e inter-specifica.

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Capitolo 1 - Introduzione C. stellatus è presente (Fig. 1.14.) nel Mar Mediterraneo, nel Mar Nero e nell’Atlantico Orientale: a nord fino alle isole Britanniche, a sud fino alle isole di Capo Verde, ma quest’ultimo limite è ancora oggetto di discussione (Relini, 1980).

Fig. 1.14 Distribuzione di Chthamalus stellatus.

Localizzato soprattutto in ambienti rocciosi aperti con esposizione al moto ondoso medio-alta (Southward, 1976; Crisp et al., 1981), C. stellatus segna il confine tra la fascia del mesolitorale (la zona di marea) e la fascia sopralitorale (la zona degli spruzzi): il limite superiore della sua distribuzione sulla scogliera è determinato da fattori fisici e biologici (Connell, 1961), come il livello massimo della marea, l’esposizione agli spruzzi e l’abbondanza di cibo. Il limite inferiore, invece, è determinato soprattutto dalla competizione per il substrato con gli altri organismi, dalla predazione e dalla forza delle onde (Pannacciulli & Relini, 2000; Applebaum et al., 2002). Una tale preferenza di habitat è possibile grazie alla particolare resistenza all’essiccamento, che consente a questo organismo di vivere anche alcuni giorni fuori dell’acqua. Tale

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Capitolo 1 - Introduzione resistenza è legata alla capacità di chiudere l’apertura della conchiglia mediante un opercolo, trattenendo così gocce d’acqua che gli garantiscono la sopravvivenza durante il mancato apporto di acqua, fornendo anche una protezione contro le variazioni di salinità, a cui questa specie si mostra molto sensibile, così come all'aumento della torbidità.

1.6. Arcipelago delle Azzorre

L’arcipelago delle Azzorre (Fig. 1.15) comprende nove isole di origine vulcanica, localizzate nel Nord Atlantico, tra i 37°40’ Nord ed i 25°32’ Ovest, che si estendono per una distanza di 400 km in direzione nord-ovest, sud-est, occupando un’area di 650 km di lunghezza e 200 km di larghezza. L’isola dell’Arcipelago più vicina alle coste continentali europee è São Miguel che dista circa 1300 km dal Portogallo, mentre l’isola più vicina alle coste orientali del Nord America è Flores che da esse dista circa 3900 km. Questa localizzazione rende questo arcipelago il gruppo di isole in posizione più remota nel Nord Atlantico. Le nove isole dell’arcipelago sono suddivise in tre gruppi: il gruppo est (Santa Maria, São Miguel), il gruppo centrale (Terceira, Graciosa, São Jorge, Pico, Fajal), il gruppo ovest (Flores, Corvo). Le Azzorre sono un distretto amministrativo del Portogallo ed insieme alle isole di Capo Verde, Canarie e Madeira, formano la Macaronesia.

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Capitolo 1 - Introduzione

Fig. 1.15 Arcipelago delle Azzorre

Dal punto di vista geologico sono isole giovani con un’età compresa tra 8 (Santa Maria) ed 1 (Pico) milione di anni (Azevedo et al., 1991; Serralheiro & Madiera, 1993; Morton et al., 1998; Morton & Britton, 2000). Le isole sono sismicamente attive: l’ultima eruzione risale al 1957 a Capelinhos, Fajal, mentre l’ultimo evento sismico occorse nel 1998 nelle isole del gruppo centrale.

La geologia delle Azzorre è complessa e regolata da movimenti profondi della crosta terrestre e da intensa attività vulcanica, causata sia da fenomeni intraplacca (hot spot o punti caldi che consistono in punti di risalita di materiali caldi provenienti dal mantello), che dai movimenti di divergenza tra le placche, dovuti alla localizzazione dell’arcipelago nel punto di contatto tra le tre principali placche terrestri (Azoricus triple junction): Nord-Americana, Euroasiatica e Africana. Le isole di Flores e Corvo (appartenenti al gruppo ovest) si trovano sulla placca Americana, mentre le isole dei gruppi centrale ed orientale sono localizzate ad est della Dorsale Medio Atlantica, su quella che è definita Microplacca Azzorrica (Fig. 1.16)

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Capitolo 1 - Introduzione

Fig. 1.16 Mappa geologica delle Azzorre, che mostra la Dorsale Medio Atlantica, la Microplacca Azzorrica, la “Azoricus triple junction” (Morton et al., 2000).

Per quanto concerne il clima, le Azzorre sono localizzate nella zona temperata dell’emisfero settentrionale e godono di un clima mite grazie alla posizione che occupano. Esse, infatti, subiscono solo marginalmente l’influsso dei fronti polari, mentre risentono dell’influsso mitigatore del ramo orientale della Corrente del Golfo. Il clima è, inoltre, caratterizzato da una piovosità che aumenta con la latitudine e l’altitudine, S. Maria è la meno piovosa di tutte le isole dell’arcipelago. La temperatura dell’acqua nell’arcipelago è piuttosto omogenea durante tutto l’anno; essa varia dai 13°C-16°C invernali, ai 17°C-19°C estivi (Morton et al., 1998).

Consideriamo ora la circolazione oceanica che interessa la regione delle Azzorre. La Corrente del Golfo è una corrente originatasi in seguito alla formazione dell’istmo di Panama (3 milioni di anni fa), ha origine nel Golfo del Messico ed è in grado di trasportare le calde acque tropicali verso la zona

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Capitolo 1 - Introduzione boreale. Dalla Corrente del Golfo originano la maggior parte delle correnti superficiali del Nord Atlantico, caratterizzate da un andamento orario.

Dopo aver superato le Bermuda la Corrente del Golfo si suddivide in due rami (Fig. 1.17): la Corrente Nord Atlantica che piega verso nord e la Corrente Azzorrica che si dirige verso sud (40°N).

Fig. 1.17 Andamento delle correnti superficiali in vicinanza delle Azzorre in a) estate e b) inverno (Morton et al., 2000).

La Corrente Nord Atlantica si dirige verso l’Europa e, in prossimità di essa, si divide in due rami: settentrionale e meridionale. Il ramo settentrionale si dirige verso nord temperando il clima delle isole britanniche; quello meridionale si dirige verso sud ed è caratterizzato da intensità e direzione del flusso diversi a seconda delle stagioni. Ciò ha un importante ruolo sulla dispersione larvale di numerose specie presenti nelle Azzorre. Durante l’estate (Fig. a) il ramo meridionale scorre più spostato verso est ad una considerevole distanza dall’arcipelago azzorrico, mentre in inverno (Fig. b) esso devia verso sud passando vicino all’arcipelago stesso.

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Capitolo 1 - Introduzione Anche la Corrente Azzorrica si divide in due rami distinti: meridionale e settentrionale. Il primo scorre in direzione sud-ovest ad una distanza considerevole rispetto all’arcipelago, mentre il secondo piega verso nord, attraversando le Azzorre. Questo secondo ramo presenta delle diversità stagionali. Durante l’estate (Fig. a) prosegue verso est fino all’isola di Madeira, dove piega verso sud generando la Corrente di Madeira che, a sua volta, genera la Corrente delle Canarie, diretta verso la costa Africana. Durante l’inverno (Fig. b), invece, il ramo nord della Corrente Azzorrica si divide a sua volta in due rami: uno piega verso sud con un percorso simile a quello estivo, mentre l’altro entra in contatto con il ramo sud della Corrente Nord Atlantica, formando la Corrente Europea di Sud-ovest, che scorre verso Nord attraverso lo Stretto della Manica.

Oltre alle correnti atlantiche superficiali finora descritte, esistono anche correnti profonde che, generalmente, hanno flusso contrario a quello delle correnti superficiali. La maggior parte di queste correnti origina nel mare di Norvegia e scorre verso sud, passando tra la Scozia e l’Irlanda, con un andamento dipendente dalla topografia del fondale. Queste correnti si mescolano con le acque della zona centrale del Nord Atlantico, generandone le acque profonde, che si propagano attraverso l’Atlantico stesso e poi negli oceani Indiano e Pacifico. Altre correnti profonde si formano a causa di fenomeni di downwelling, dovuti all’incontro di acque superficiali, che scorrono a est dell’Arcipelago delle Azzorre (Kaese & Siedler, 1982; Pollard & Pu, 1985). Un terzo contributo di correnti profonde proviene dalla corrente stazionaria che trasferisce le acque del Mediterraneo fuori dallo stretto di Gibilterra verso le

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Capitolo 1 - Introduzione Azzorre ad una profondità di 900 m; questa corrente rimane separata dalle acque superficiali da un gradiente salino (Gofas, 1990); quando queste acque incontrano la Dorsale Medio Atlantica una parte di esse viene spinta verso la superficie. L’andamento della circolazione delle masse d’acqua contribuisce a creare nell’arcipelago un clima abbastanza costante, con temperature medie dell’aria di 21°C in estate e 14°C in inverno.

Per concludere questa visione d’insieme dell’arcipelago delle Azzorre consideriamo ora il biota (insieme di specie presenti in una determinata area geografica) azzorrico.

A causa della giovane età (la formazione risale a 8-1 milione di anni fa) e dell’isolamento, le Azzorre hanno subito solo relativamente l’influsso dei maggiori eventi biogeografici, come la chiusura dell’Istmo di Panama, che hanno determinato la tipologia del biota delle coste atlantiche continentali.

L’isolamento di queste isole deriva da fattori quali:

• la posizione remota delle isole;

• l’inizio della formazione dell’arcipelago, occorso quando

l’Oceano Atlantico aveva già assunto l’attuale conformazione;

• l’effetto tamponante della grande massa d’acqua che

circonda le isole azzorriche, nei confronti delle variazioni di temperatura verificatesi in conseguenza dell’alternarsi di periodi glaciali e interglaciali.

Il biota marino e costiero delle Azzorre è rappresentato, in parte, da comunità relitte. Tesseropora atlantica, per esempio, è considerata una specie relitta risalente al Mare della Tetide (Newman & Ross, 1977). Con il termine

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Capitolo 1 - Introduzione relitto s’intende una specie il cui isolamento tassonomico è dovuto ad un’estinzione ex situ (dei taxa ancestrali e dei discendenti presenti sul continente), piuttosto che ad un’evoluzione in situ (evoluzione rapida di caratteristiche associate alla vita sulle isole) (Cronk, 1997). Sulla base della giovane età delle isole, si ritiene, però, che la maggior parte del biota marino e costiero dell’Arcipelago delle Azzorre si sia formato nel tempo attraverso un processo di colonizzazione graduale (Morton & Britton, 1999).

Le odierne specie di flora e fauna presenti nell’arcipelago delle Azzorre possono aver raggiunto le isole mediante i comuni meccanismi di dispersione: dispersione naturale e dispersione antropica (mediata dall’uomo).

Alla prima tipologia appartengono:

• il nuoto attivo dei pesci;

• il trasporto passivo ad opera delle correnti (in organismi che

prevedono, all’interno del loro ciclo vitale, una fase planctonica più o meno lunga);

• la foresìa, ovvero il trasporto mediante uccelli ed insetti; • il “rafting”, ovvero il trasporto mediante attacco ad oggetti

galleggianti (rafting e foresia sono le uniche fonti di dispersione per organismi sessili a sviluppo diretto, ossia organismi che non presentano uno stadio larvale all’interno del loro ciclo vitale (Johannesson, 1988).

Per quanto riguarda la dispersione per cause antropiche, essa può essere intenzionale (per esempio itticoltura, acquacoltura) o accidentale (per esempio, il trasporto accidentale di organismi attaccati alla chiglia delle navi o

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Capitolo 1 - Introduzione presenti nelle acque di sentina delle stesse). Esempi di organismi introdotti accidentalmente dall’uomo nelle isole azzorriche sono due specie di cirripedi: il Balanus trigonus (proveniente dal Sud Africa) e il Balanus eburneus (Baker, 1967).

Il maggior contributo, come sorgente di reclutamento, sembra attribuibile alle coste continentali dell’Atlantico orientale (in particolare all’Europa meridionale, al Mediterraneo e all’Africa settentrionale), ciò in virtù della minor distanza che intercorre tra le isole azzorriche e la costa atlantica orientale rispetto a quella occidentale. Seppure in minima parte, comunque, anche quest’ultima ha contribuito alla formazione del biota azzorrico, soprattutto nel caso di specie che possiedono larve capaci di trascorrere nel plancton lunghi periodi di tempo.

Il biota azzorrico presenta un basso livello di diversità specifica (sia a livello di flora che di fauna) ed un basso livello di endemismo (Morton & Britton, 1999). Mentre il basso livello di diversità di specie è una caratteristica attesa, il basso livello di endemismo è in disaccordo con quanto atteso. Bisogna, infatti, considerare che la composizione del biota delle isole oceaniche dipende dall’età, dalle dimensioni e dall’isolamento geografico delle isole stesse (Cronk, 1997); in generale ci si aspetta di trovare bassi livelli di diversità associati ad un certo grado di endemismo. I bassi livelli di diversità di specie riscontrabile nelle Azzorre sono dovuti a fattori quali: 1) un basso tasso d’immigrazione che riduce la probabilità di invasione da parte di specie provenienti dal continente (caratteristica, questa, messa in pericolo dall’intervento antropico), 2) un

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Capitolo 1 - Introduzione ambiente stabile dovuto alla rarità di eventi estremi ed all’effetto tamponante delle masse acquatiche oceaniche.

Per quanto riguarda la scarsità di endemismi esso è imputabile alla giovane età dell’arcipelago. La maggior parte delle specie endemiche si annovera tra le angiosperme (es. Azrina vidalii, Euphorbia azorica, Erica scoparia azorica). Per quanto riguarda le alghe, su 300 specie identificate solo 7 sono ritenute endemiche, mentre tra i pesci solo 1 specie (Centrolabrus caeruleus) su 116 viene ritenuta tale. La stessa penuria di endemismi si riscontra tra gli invertebrati. C’è, inoltre, da considerare il fatto che le specie azzorriche ritenute endemiche non siano in realtà tali; esse potrebbero essere specie rare presenti anche al di fuori dell’arcipelago stesso. Il motivo per cui non si sarebbe ancora verificata un’identificazione all’esterno delle isole azzorriche, è attribuibile al fatto che in un ambiente ricco di specie a larga diffusione (come nel caso delle coste continentali) la presenza di specie rare è più difficile da riscontrare. Nelle Azzorre, invece, l’identificazione di queste specie rare è più facile, essendo queste isole caratterizzate da una scarsa diversità di specie. A causa del suo isolamento, l’arcipelago azzorrico è considerato fragile e richiede particolari attenzioni, soprattutto per quanto concerne l’introduzione di specie alloctone, che potrebbero divenire infestanti, mettendo in pericolo l’habitat di numerose specie e, nel peggiore dei casi, conducendole all’estinzione. Grazie alle sue peculiarità ed alla posizione isolata, l’arcipelago è considerato un esempio di laboratorio evolutivo naturale (Morton & Britton, 2000): ciò lo rende particolarmente adatto a studi di genetica di popolazione.

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Capitolo 1 - Introduzione

1.7. Marcatori molecolari e metodi di indagine

Il termine marcatore genetico si riferisce a qualsiasi carattere mendeliano in grado di mostrare differenze tra individui. L’indagine per evidenziare tali differenze può avvenire utilizzando diversi marcatori: morfologici, proteici (per esempio, alloenzimi), molecolari.

L’applicazione di tecniche molecolari per lo studio dei modelli e dei meccanismi microevolutivi e di altri aspetti ecologici, tramite l’utilizzo di marcatori molecolari, delimita il campo di una disciplina recente: l’ecologia molecolare. Quest’ultima ha come scopo quello di indagare problematiche ecologiche attraverso lo studio della struttura genetica delle popolazioni.

I marcatori molecolari vanno a rilevare differenze (polimorfismi) nella sequenza nucleotidica del DNA che costituisce il genoma di ogni individuo (polimorfismi dovuti ad inserzioni, delezioni, traslocazioni, mutazioni puntiformi, ecc.). Rispetto al genoma studiato i marcatori si distinguono in nucleari, mitocondriali, cloroplastici.

Un marcatore ideale deve avere le seguenti caratteristiche: ™ essere polimorfico;

™ essere ereditato geneticamente e non influenzato dall’ambiente; ™ essere ereditabile in modo semplice (mendeliano o

uniparentale);

™ essere di facile determinazione o facile osservazione (basso costo in termini di denaro, tempo, energie);

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Capitolo 1 - Introduzione

™ essere riproducibile entro e fra diversi laboratori;

™ essere determinabile con metodologia applicabile a molte specie diverse.

In realtà non esistono ancora marcatori aventi tutte queste caratteristiche. La scelta del tipo di marcatore da utilizzare viene, allora, fatta in base agli scopi della ricerca ed ai mezzi a disposizione, tenendo presente che:

a) il numero di mutazioni che differenzia due genomi è proporzionale al tempo trascorso da quando essi si sono separati;

b) il DNA è formato da regioni codificanti e non codificanti che, comunque, possono avere un ruolo funzionale (nell’organizzazione della struttura tridimensionale degli organelli, nella regolazione della trascrizione ecc.). Le regioni non funzionali sono le più idonee per studi di genetica di popolazione perché, teoricamente, non sono soggette alla selezione naturale ed accumulano più facilmente mutazioni;

c) nella cellula esiste più di un tipo di DNA: nucleare, mitocondriale, cloroplastico, plastidico. In generale negli animali il DNA mitocondriale (mtDNA) ha un tasso di mutazione maggiore di quello nucleare (nDNA) (Wolfe et al., 1987).

Di seguito sono riportate alcuni dei marcatori più utilizzati.

ALLOENZIMI. Gli alloenzimi sono enzimi presenti negli organismi in forme

diverse (con una diversa composizione in amminoacidi), ma aventi la stessa funzione. L’analisi del polimorfismo degli alloenzimi è stata utilizzata sin dagli anni ‘60 (Harris, 1966; Lewontin e Hubby, 1966). Essi consentono di analizzare

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Capitolo 1 - Introduzione le variazioni nella espressione di regioni del DNA codificanti per tratti funzionali specifici. Se da una parte presentano i vantaggi di essere marcatori codominanti e di avere una procedura metodologica veloce ed a basso costo, dall’altra presentano, di solito, livelli di polimorfismo non molto elevati ed un basso numero di loci analizzabili. Essi, inoltre, non prendono in considerazione mutazioni silenti, ovvero quelle che avvengono in terza posizione dei codoni del DNA codificante e non codificante, pertanto possono solo sottostimare la variabilità genetica esistente (Procaccini & Maltagliati, 2003).

SEQUENZIAMENTO. E’ una tecnica di biologia molecolare che consiste nella

determinazione esatta delle sequenze di basi nucleotidiche di una determinata regione di DNA. L’analisi delle sequenze nucleotidiche permette di rilevare mutazioni e polimorfismi con la massima precisione. Esistono due metodi per ricavare informazioni sulla sequenza nucleotidica: uno (il più usato) è quello enzimatico detto sequenziamento di Sanger (Sanger et al., 1977), l’altro è un metodo chimico detto sequenziamento di Maxam e Gilbert (Maxam & Gilbert, 1977).

RFLP (Restriction Fragment Length Polymorphism). Tale tecnica

permette l’analisi del polimorfismo delle sequenze di DNA tramite il confronto delle dimensioni dei frammenti ottenuti per mezzo della digestione del DNA attraverso endonucleasi di restrizione (RE) e tramite la loro presenza/assenza nei profili elettroforetici (Lessa & Applebaum, 1993). Le differenze di dimensione tra i frammenti sono dovute ad inserzioni e delezioni di una o più basi; la presenza/assenza dei frammenti è, invece, determinata da mutazioni avvenute nei siti di riconoscimento degli RE.

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Capitolo 1 - Introduzione

VNTR (Variable Number of Tandem Repeat). Sono specifiche sequenze

altamente polimorfiche che si trovano sparse nel genoma degli eucarioti, sono costituite da gruppi di basi ripetute (doppiette, triplette, ecc.). Queste regioni hanno un elevato tasso di mutazione dovuto ad inserzione e/o delezione del motivo ripetuto, ciò consente l’individuazione di numerosi polimorfismi (Balloux & Lugon-Moulin, 2002). Comprendono i microsatelliti (SSR, Simple Sequence Repeat) ed i minisatelliti; mentre nei primi la sequenza di base ripetuta è lunga 2-10 basi, nei secondi può raggiungere una lunghezza di centinaia di basi.

AFLP (Amplified Fragments Length Polymorphism). Si basa

sull’amplificazione selettiva di frammenti di restrizione ottenuti mediante digestione dell’intero genoma (Lin & Kuo, 1995; Vos et al., 1995). Il vantaggio di questa tecnica è rappresentato dall’elevato numero di polimorfismi che si possono analizzare rapidamente ed in maniera riproducibile, essendo essa basata sulla presenza/assenza di frammenti di restrizione più che sulle differenze di dimensione degli stessi (Fèral, 2002).

RAPD (Randomly Amplified Polymorphic DNA). Si tratta di una tecnica

che prevede l’amplificazione di frammenti di DNA casuali, amplificati usando un solo primer di dimensioni ridotte (circa 10 basi), formato da sequenze nucleotidiche casuali. Il polimorfismo è di tipo dominante, ovvero determinato dalla assenza o presenza della banda, legate rispettivamente alla presenza o meno di una mutazione nel sito di riconoscimento del primer (Williams et al., 1990).

ISSR (Inter Simple Sequence Repeat). Si basa sull’amplificazione di

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Capitolo 1 - Introduzione invertite, tramite l’utilizzo di un unico primer contenente una sequenza microsatellitare ed un’”ancora” costituita da 1-4 basi (Wolfe & Liston, 1998). Una trattazione più completa verrà affrontata nel paragrafo successivo, essendo gli ISSR i marcatori utilizzati nel presente studio.

Le tecniche viste finora (ad eccezione degli allo enzimi, che permettono un’analisi della variabilità dell’espressione genica, e del sequenziamento) indagano la variabilità del DNA tramite la presenza/assenza di frammenti amplificati con la PCR o confrontando le loro dimensioni. Esistono altre tecniche che permettono di evidenziare differenze tra sequenze di DNA, basandosi sulla variazione di conformazione e stabilità dei frammenti amplificati. Tali tecniche consentono un rapido confronto tra sequenze nucleotidiche di specifiche regioni del DNA (Procaccini & Maltagliati, 2003). Esse sono:

o SSCP (Single Strand Conformation Polymorphism). Si basa sul principio che variazioni nella sequenza del DNA modificano il tipo di ripiegatura del DNA a singola elica, influenzandone la mobilità elettroforetica (Orita et al., 1989a, 1989b).

o DGGE (Denaturing Gradient Gel Electrophoresis). Si basa sull'individuazione delle variazioni (piccole delezioni ed inserzioni, mutazioni puntiformi) nei duplex di DNA, dovuti a variazioni delle sequenze nucleotidiche (Fisher & Lerman, 1979, 1983).

o TGGE (Temperature Gradient Gel Electrophoresis). Si basa sulle differenze nella temperatura di dissociazione fra sequenze di DNA e di RNA (Henco et al., 1994). L’idea è quella di utilizzare calore come fonte di energia per rompere i legami idrogeno e denaturare, quindi, la doppia

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Capitolo 1 - Introduzione elica. Frammenti di DNA o RNA con mutazioni puntiformi mostreranno un diverso comportamento di dissociazione dovute alle diverse temperature di melting (Tm). Applicando un gradiente di temperatura durante la separazione elettroforetica possono essere separati frammenti di lunghezza identica, ma differente sequenza.

Nei tre casi la variabilità può essere visualizzata, per esempio, mediante gel di agarosio e gel di poliacrilammide.

1.8. I marcatori ISSR (Inter Simple Sequence Repeat)

Nel presente lavoro sono stati utilizzati i marcatori ISSR (Inter Simple Sequence Repeat). Essi sfruttano la presenza nel genoma di sequenze di DNA microsatellitari ravvicinate, ripetute ed invertite, per amplificare le regioni comprese tra di esse (Zietkiewicz et al., 1994) (Fig. 1.18).

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Capitolo 1 - Introduzione Tale tecnica è un utile strumento per studiare la variabilità genetica a più livelli: è utilizzata per studi tassonomici, in quanto riflette la variabilità nelle frequenze dei motivi microsatellitari riscontrabile nelle diverse specie (Wolfe & Liston, 1998) ma è anche utile per indagare la variabilità genetica inter- ed intra- popolazione. Questi marcatori sono stati utilizzati inizialmente in specie vegetali (Wolfe & Liston, 1998), per poi essere applicati a specie animali (Kostia et al., 2000; Abbot 2001; Hassan et al., 2003) e solo recentemente ad invertebrati marini (Casu et al., 2004; Maltagliati et al., 2005).

L’amplificazione avviene tramite l’utilizzo di un singolo primer avente le seguenti caratteristiche:

• il primer è costituito da 18/20 bp ed include una sequenza

microsatellitare;

• La sequenza microsatellitare è formata da ripetizioni di di-,

tri-nucleotidi, quali, per esempio, (GC)n, (CA)n, (AGC)n, ecc. I mononucleotidi sono evitati per assicurare una maggior specificità d’appaiamento;

• la sequenza del primer può presentare da uno a quattro

nucleotidi degenerati (preferibilmente G o C) all’estremità 5’ o 3’; ciò al fine di facilitare il corretto appaiamento del primer al templato durante la fase di annealing. Alcuni studi hanno anche dimostrato la validità di utilizzo di primer ISSR privi di tali estremità ancoranti (Bornet et al., 2002; Bornet & Branchard, 2004);

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Capitolo 1 - Introduzione

• la maggior parte dei primer ISSR contengono almeno una base

G o C nella loro sequenza.

Gli ISSR sono marcatori multilocus (basati, cioè, sull’analisi simultanea di molti loci genomici) e dominanti (Gupta et al., 1994). I marcatori dominanti (per esempio ISSR, RAPD; AFLP) si distinguono dai codominanti (per esempio alloenzimi, microsatelliti, RFLP) per il fatto che i pattern di bandeggio degli omozigoti sono identici ed indistinguibili da quelli degli eterozigoti. Ad ogni locus si può evidenziare la presenza/assenza della banda ma non è possibile distinguere la situazione eterozigote da quella omozigote (Fèral, 2002). I loci ISSR vengono trattati come diallelici, in cui l’allele dominante determina la presenza della banda. Pertanto, gli individui aventi genotipo AA oppure Aa, producono il fenotipo 1 (presenza di banda), mentre quelli aventi genotipo aa producono il fenotipo 0 (assenza di banda).

Mentre i marcatori codominanti consentono la stima delle frequenze alleliche in una popolazione, i marcatori dominanti permettono la stima solo delle frequenze genotipiche. Ciò in funzione della procedura di calcolo delle stesse: la frequenza dell’allele i-esimo è data dal numero di individui che presentano l’allele “i” diviso il numero totale di individui analizzati moltiplicato per due, mentre la frequenza genetica del genotipo i-esimo è data semplicemente dal numero di genotipi “i” sul numero totale degli individui analizzati.

Gli ISSR sono caratterizzati da una maggior affidabilità e riproducibilità di risultati rispetto ai RAPD; ciò è dovuto alle seguenti caratteristiche:

Riferimenti

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