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BECKETT: UN’ANALISI COMPARATIVA AZIONE E LINGUAGGIO NELLE DRAMMATURGIE DI JEAN RACINE E SAMUEL

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Academic year: 2021

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Università degli studi di Modena e Reggio Emilia

DIPARTIMENTO DI STUDI LINGUISTICI E CULTURALI

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN

LINGUE CULTURE E COMUNICAZIONE

AZIONE E LINGUAGGIO NELLE

DRAMMATURGIE DI JEAN RACINE E SAMUEL BECKETT: UN’ANALISI COMPARATIVA

Prova finale di:

Jessica Poli Relatore:

Giovanna Bellati Correlatore:

Chiara Preite

Anno accademico: 2014/2015

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ABSTRACT

La presente dissertazione vuole analizzare le principali affinità e divergenze nel teatro classico di Jean Racine (1639-1699) e in quello dell’assurdo di Samuel Beckett (1906-1989).

Partendo dalle teorizzazioni classiciste si è cercato di indagare in che modo queste potrebbero essere applicabili al teatro di Beckett, così come quanto le peculiarità della drammaturgia beckettiana siano riconducibili a Racine. Il raffronto tra i teatri, evidentemente differenti e appartenenti a periodi storici lontani tra loro, si sviluppa a partire dall’analisi di due elementi fondamentali: l’azione e la parola. La mancanza d’azione on-stage permette, infatti, al linguaggio drammatico di acquisire un’importanza rilevante all’interno delle rappresentazioni.

Mettendo a confronto come azione e linguaggio vengano proposti nelle principali opere dei due drammaturghi è emerso che, se da una parte l’inazione è una peculiarità effettivamente condivisa sia in relazione alla suddivisione dello spazio scenico, sia in relazione alle tematiche di predestinazione e attesa, dall’altra l’uso del linguaggio è un elemento che differenzia i due teatri. Racine, infatti, ne fa un uso formale, ma perfettamente comprensibile che aiuta a sviluppare l’azione stessa non solo attraverso i racconti relativi agli avvenimenti che accadono all’esterno dello spazio scenico, ma anche – e soprattutto – grazie al valore performativo che acquisisce l’atto linguistico all’interno dello scambio verbale.

Beckett, invece, mette in scena un fallimento della comunicazione che rende il suo linguaggio oscuro e talvolta inintelligibile.

Eppure, se questa analisi è valida per uno studio generale sulle opere dei due autori, l’analisi ed il confronto tra due drammi specifici come Bérénice e Oh les beaux jours, che presentano peculiarità differenti rispetto agli altri drammi degli stessi autori, permette di far emergere talune affinità che avvicinano notevolmente l’opera di Racine a quella di Beckett. In Bérénice, infatti, l’autore seicentesco rinuncia a quell’uso del linguaggio quasi performativo per evidenziare, invece, una certa incomunicabilità tra i personaggi che richiama quel fallimento dell’atto linguistico come comunicazione, tipico del teatro novecentesco e, nella fattispecie, beckettiano.

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ABSTRACT

Cette dissertation vise à analyser, à partir de l’action et de l’utilisation du langage, les principales affinités et différences entre le théâtre classique de Jean Racine (1639-1699) et le Nouveau théâtre de Samuel Beckett (1906- 1989). On a cherché à explorer comment les théories classicistes peuvent être appliquées au théâtre de Beckett et comment les particularités de la dramaturgie beckettienne peuvent être reconductibles au théâtre de Racine.

La comparaison entre les deux théâtres, de toute évidence différents entre eux et appartenant à des périodes historiques lointaines, se développe à partir de deux éléments fondamentaux du théâtre: l’action et la parole. En effet, la manque d’action sur scène charge le langage dramatique d’une importance considérable dans les représentations.

En confrontant, donc, comment action et langage ont été proposés dans les œuvres principales écrites par les deux dramaturges est résulté que, si d’une part l’inaction est en fait une caractéristique partagée tant par rapport à la subdivision de l’espace scénique, que par rapport aux thématiques de prédestination et attente, de l’autre le langage dramatique est un élément qui diversifie les deux théâtres. Racine utilise un langage formel, mais parfaitement intelligible qui développe l’action non seulement à travers les récits des événements qui se passent à l’extérieur de l’espace scénique, mais aussi – et surtout – grâce à la valeur performative que l’acte linguistique acquiert dans l’échange verbal.

Cependant, si cette analyse s’accorde bien à une étude générale sur les œuvres de deux auteurs, la confrontation entre deux œuvres particulières telles que Bérénice et Oh les beaux jours, qui présentent des spécificités différentes par rapport aux drames écrits par les mêmes auteures, permet de démontrer la présence de plusieurs affinités qui approchent considérablement l’œuvre de Racine à celle de Beckett. Si l’on considère que la divergence principale avait été soulignée par rapport au langage, en effet, dans Bérénice, l’auteur du dix- septième siècle renonce à l’utilisation d’un langage performatif et, par contre, souligne une certaine incommunicabilité parmi les personnages qui rappelle l’échec de l’acte linguistique dans la communication typique du théâtre du vingtième siècle et, en l’espèce, beckettien.

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Toute l’invention consiste à faire quelque chose de rien, et que tout ce grand nombre d’incidents a toujours été le refuge des poètes qui ne sentaient dans leur génie ni assez d’abondance ni assez de force pour attacher […]

leurs spectateurs par une action simple.

(J. Racine, prefazione di Bérénice, Larousse, Paris, 2006, p.26)

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INDICE

Introduzione ……… 1

1. Cenni sulla storia del teatro francese ………. 4

2. La tragedia seicentesca e Jean Racine ……… 20

2.1 Le origini della tragedia seicentesca ………. 21

2.2 Jean Racine: vita e opere ……….. 26

3. Le Nouveau théâtre del Novecento e Samuel Beckett ...……… 40

3.1 Il teatro dell’assurdo ………. 41

3.2 Samuel Beckett: vita e opere ……… 46

4. Azione e inazione nelle drammaturgie di Racine e di Beckett ……….. 62

4.1 Azione come intreccio ……….. 66

4.2 Azione come gesto scenico ……….. 70

4.3 Inazione ……… 76

4.3.1 Inazione e attesa ..……….. 77

4.3.2 Inazione e spazio scenico ……….. 78

4.3.3 Inazione, divinità e destino ……… 82

5. La parola nel linguaggio drammatico di Racine e di Beckett ……… 87

5.1 La parola come atto performativo ……… 92

5.2 Il dialogo ……….. 99

5.3 La parola come racconto e come commento ……… 107

5.3.1 Il récit ………. 108

5.3.2 Il monologo, la tirade, l’a-parte ………. 113

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6. Inazione e linguaggio: il caso di Bérénice di Racine e Oh les beaux jours di Beckett .. 122

6.1 Le opere ……… 123

6.2 Semplicità d’azione o inazione? ……….. 127

6.2.1 Inazione nell’antichambre ……… 133

6.2.2 Inazione e predestinazione nel rapporto con Dio ………. 134

6.2.3 L’inazione e il tempo dell’attesa ……… 138

6.3 Il dialogo tra passato, presente e futuro ……… 142

6.4 Il rapporto con il passato nei récits ………... 144

6.5 Il fallimento della comunicazione ……… 148

Conclusione ……… 161

Bibliografia ………. 170

Appendice 1 ……… 177

Appendice 2 ……… 181

Appendice 3 ……… 183

Appendice 4 ……… 184

Appendice 5 ……… 186

Appendice 6 ……… 187

Appendice 7 ……… 188

Appendice 8 ……… 189

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INTRODUZIONE

Se il teatro classico si identifica per il rispetto delle regole e dei precetti classicisti, teorizzati da Aristotele nella sua Poetica e riportati in auge dagli intellettuali e dai letterati seicenteschi, la drammaturgia del Novecento, che fa riferimento al Nouveau théâtre, si distingue per il suo distaccarsi completamente dalla concezione tradizionale che si ha del teatro: ne sovverte le convenzioni, proponendo un teatro al limite della credibilità e categorizzato, per questo, come teatro dell’assurdo. La presente dissertazione vuole indagare quali siano le affinità e le divergenze tra queste due drammaturgie, attraverso lo studio dei suoi maggiori esponenti: Jean Racine (1639-1699) e Samuel Beckett (1906-1989). In effetti, nonostante questi teatri potrebbero essere collocati agli antipodi, presentano talune corrispondenze che meritano di essere prese in esame; tant’è che diversi studi su Samuel Beckett hanno rilevato un grande interesse dell’autore nei confronti del teatro raciniano.

Eppure non si trova nessuna analisi approfondita di comparazione tra questi due autori. La peculiarità principale e più evidente – e quella dalla quale prende spunto il mio studio – è la mancanza di azione sulla scena: i personaggi appaiono sempre intenti a conversare, immersi nei loro dialoghi; mentre le azioni – quando presenti – non sono mostrate al pubblico, ma avvengono all’esterno. Per questo l’attenzione dello spettatore si concentra sui dialoghi tra i protagonisti, su cosa viene detto e sul come la parola scenica venga utilizzata dagli autori per produrre determinati effetti.

La scelta dell’argomento, infatti, nasce da un’osservazione fatta dal Dr Thomas Wynn dell’Università di Durham il quale, durante un corso su Jean Racine, trattando di come i personaggi siano di fatto messi in pericolo ogni qualvolta abbandonino lo spazio scenico e impotenti all’interno di esso, li ha definiti “stuck on stage”, paragonando esplicitamente la loro condizione con quella dei protagonisti beckettiani. Trovando la correlazione particolarmente audace, ma altrettanto interessante ho deciso, quindi, di cimentarmi in questa comparazione. In particolare mi sono concentrata sulle due principali componenti del teatro:

azione e linguaggio e su come queste vengano sviluppate nelle diverse drammaturgie prese in considerazione. Come afferma Foucré, infatti, il teatro “est indissolublement geste et parole”1. Nel primo capitolo, Cenni sulla storia del teatro francese, si è cercato di ripercorrere brevemente la storia del teatro francese per dare un’idea complessiva di come questo si sia

1 M. Foucré, Le geste et la parole dans le théâtre de Samuel Beckett, Nizet, Paris 1970, p. 9.

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sviluppato nel periodo che va dal 1600 – epoca del classicismo raciniano – al 1900, il secolo di grandi innovazioni letterarie e teatrali.

Nel secondo capitolo, La tragedia seicentesca e Jean Racine, si è voluto approfondire maggiormente i precetti del teatro classico ai quali si ispira tutta la drammaturgia raciniana, con particolare riferimento alla Poetica di Aristotele, alle teorizzazioni di Boileau ne L’art poétique e di D’Aubignac in La pratique du théâtre, per poi passare allo studio dell’autore. Si sono evidenziate le tappe principali della vita di Jean Racine, come la sua formazione giansenista, e ne sono state presentate le opere principali.

Parallelamente, nel terzo capitolo, Le Nouveau théâtre del novecento e Samuel Beckett, dopo aver tracciato un profilo di quello che è stato definito “teatro dell’assurdo”, sono stati indicati gli avvenimenti principali della vita del drammaturgo e ne sono state approfondite le opere di maggiore rilevanza. Si noti che, benché l’autore respinse questa categorizzazione, si è mantenuta comunque l’etichetta di “teatro dell’assurdo” per poter tracciare le linee guida e le peculiarità fondamentali del teatro novecentesco.

Con il quarto capitolo, Azione e inazione nelle drammaturgie di Racine e Beckett, si entra nella analisi vera e propria. In questa sezione si è trattato di cosa si può intendere per azione in entrambi i teatri con riferimento, quindi, all’azione come intreccio e all’azione come gesto, per poi passare all’esame dell’inazione. Si è evidenziato, in particolare, come sia possibile riferire questa peculiarità sia al tema dell’attesa dei personaggi che al loro rapporto con Dio e con la predestinazione, e come l’inazione sia dipendente da quella suddivisione degli spazi tragici teorizzata da Barthes in Sur Racine.

Il quinto capitolo, La parola nel linguaggio drammatico di Racine e Beckett, è incentrato sull’uso del linguaggio che, data l’inazione, viene ad occupare un ruolo centrale. In particolare si è fatto riferimento ai dialoghi che, benché fittizi, rivelano diverse peculiarità conversazionali. Non solo si è esaminato come i due autori propongano l’énchainement della conversazione, ma si è cercato di applicare le teorie sugli speech acts di Austin e Searle, ampliandole, ai dialoghi teatrali nei quali “dire, c’est faire”, come ammette D’Aubignac. In ultimo si sono prese in esame le forme del discorso tipiche del teatro classico – come il récit de mort, il monologo, la tirata, l’a-parte – per analizzare come siano state trattate e che funzione acquisiscano in Beckett.

Mentre nei due capitoli precedenti, l’analisi verteva genericamente sulle affinità e divergenze delle opere principali degli autori, nel sesto capitolo, Inazione e linguaggio: il

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caso di Bérénice e Oh les beaux jours, ci si è concentrati specificatamente su queste due opere. Entrambe, infatti, mostrano delle similarità evidenti nel loro sviluppo che non si trovano nelle altre opere degli stessi autori. Bérénice è la tragedia nella quale Racine ha raggiunto quella semplicità d’azione teorizzata da Aristotele, mentre Oh les beaux jours rappresenta uno sviluppo significativo nella drammaturgia di Beckett che, in questa tragicommedia, riduce al minimo azione e comunicazione.

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1. CENNI SULLA STORIA DEL TEATRO

FRANCESE

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Il teatro ha una valenza tanto intima quanto profondamente sociale. È dunque opportuno inquadrare le tendenze teatrali che si sono susseguite sia in relazione intertestuale con opere di altri autori, sia nel loro contesto storico di appartenenza. Questa osservazione risulta particolarmente fondata se si considera il teatro come una rappresentazione del mondo o di ciò che il mondo potrebbe essere2. Come nota anche Antoine Adam, infatti, “il est, en tous les temps, impossible de comprendre une littérature si l’on ignore entièrement la politique de l’époque”3.

Claudio Bernardi e Carlo Susa osservano che il modello occidentale del teatro nasce in Grecia intorno al V secolo a.C. quando, attraverso la rappresentazione dei miti, il teatro indaga il rapporto tra dèi e uomini, religione e politica, valori morali e leggi. Insomma, attraverso la rielaborazione dei miti, il teatro diviene “metafora dell’esperienza umana”4. In particolare, nella Grecia del V secolo a.C., il teatro diventa protagonista dei festeggiamenti delle Grandi Dionisie che si tenevano in onore di Dioniso: le celebrazioni erano dedicate ad attività che “educano, fortificano, rendono migliore l’individuo”5, e gli spettacoli erano tra queste. È quindi nel modello ellenico che si devono ricercare le origini della pratica teatrale.

I generi del teatro greco sono tre: la tragedia, il dramma satiresco e la commedia. La tragedia è il genere considerato più elevato tra le forme teatrali, poiché, escludendo ogni elemento comico, vuole provocare sentimenti di “terrore” e “pietà” a scopo educativo. Essa concentra, infatti, l’attenzione su antichi miti ed in particolare su quei “momenti di crisi”

relativi alle sorti avverse di una famiglia o alla caduta in rovina di un re6. Mentre il dramma satiresco, che veniva rappresentato insieme alla tragedia durante le Grandi Dionisie, può essere interpretato come una tragedia scherzosa, la commedia antica risulta più difficile da definire: generalizzando, si può dire che quest’ultima metteva in scena – deridendole e parodiandole – la vita della pòlis e le vicende quotidiane a lieto fine.

La grande tragedia classica è legata alle opere di tre principali drammaturghi ai quali si sono ispirati gli autori teatrali del XV, XVI e XVII secolo: Eschilo, Sofocle ed Euripide, il cui primato era già consolidato nell’antichità. Ad essi si attribuiscono importanti innovazioni nel mondo teatrale: Eschilo portò il numero degli attori da uno a due, aumentando l’importanza dell’azione e della parola in scena, Sofocle aggiunse il terzo personaggio conferendo maggior

2 C. Biet, C. Triau, Qu’est-ce que le théâtre, Editions Gallimard, Paris, 2006, p. 63.

3 A. Adam, Litérature française, Arthaud, Paris, 1968, p. 9.

4 C. Bernardi, C. Susa, Storia essenziale del teatro, Vita e pensiero, Milano 2005, p. 39.

5 Ibid, p. 41.

6 Ibid, p. 42.

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complessità all’azione ed è a lui che si fa risalire l’invenzione stessa della scenografia. I temi da loro trattati sono di diversa natura: mentre Eschilo e Sofocle indagano temi esistenziali come il rapporto tra l’ordine divino, il destino e l’agire umano, Euripide si concentra su temi più concreti, interrogandosi sul rapporto tra gli uomini e sulle norme del vivere all’interno di una società.

Fondamentale per il teatro occidentale fu la stesura della Poetica di Aristotele, che stabilisce gran parte delle regole riguardanti il teatro classico come lo conosciamo oggi e ne sancisce le teorie drammatiche. Di questa raccolta di lezioni ci è pervenuto solo il primo volume riguardante la tragedia, mentre il secondo volume, che avrebbe dovuto trattare la commedia, è andato perduto già in età bizantina7. Secondo Aristotele, la tragedia è la migliore tra le forme poetiche e si basa sulla mimesis delle azioni umane, che egli classifica in base a tre fattori: “i mezzi con cui imitano (ritmo, parole, note), gli oggetti che imitano (persone migliori, peggiori o uguali a noi) e il modo in cui imitano (dramma, epica, poesia)”.8 La tragedia consiste, quindi, nella riproduzione del vero. D’altronde il teatro si fonda su un paradosso: esso è un’illusione, ‘l’espace d’un simulacre.[…] Il donne à voir ce qui n’existe pas comme si cela existait. Il re-présente’9. A quest’opera si fanno risalire anche le famose tre unità di tempo, di luogo e di azione, codificate da interpreti del Cinquecento. Infatti, all’interno della Poetica, Aristotele enuncia esplicitamente solo la teoria sull’unità di azione e accenna a quella di tempo in relazione al principio di verosimiglianza caro ai classicisti, mentre ignora quella di luogo.10

Queste teorie divennero essenziali durante il Rinascimento. In seguito alle censure ecclesiastiche che colpirono il teatro pagano da parte della chiesa, intorno al XV secolo si assiste ad una riscoperta della cultura classica e del teatro greco che durerà fino al XVII secolo. Bernardi e Susa osservano in Storia essenziale del teatro:

L’invenzione del teatro moderno nel rinascimento poggia su quattro fondamentali: la riscoperta della commedia e della tragedia classiche, che dà origine alle più importanti drammaturgie nazionali di Inghilterra, Spagna e Francia; l’interpretazione critica della Poetica di Aristotele, che definisce il codice di composizione drammatica fondato sulle tre unità di tempo, luogo e azione, che durerà fino al romanticismo; lo studio e la

7 Ibid, p. 58.

8 Ivi.

9 A. Viala, Le théâtre en France, Presses Universitaires de France, Paris, 2009, p. 7.

10 Qui si vuol dare un breve accenno alla teoria aristotelica in relazione allo sviluppo storico del teatro. Per una riflessione più approfondita sulla Poetica si rimanda alla sezione successiva.

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reinvenzione dell’architettura romana, che promuove la prospettiva scenica, le sale teatrali al chiuso e la costruzione di veri e propri teatri.11

I secoli del Rinascimento e dell’Umanesimo furono segnati, infatti, da una rivisitazione del passato che vedeva i grandi autori e testi classici come modelli intellettuali ed etici. I letterati del tempo iniziarono a dedicarsi non solo allo studio di opere e autori, ma anche alla riscrittura o reinvenzione di opere teatrali. La rinascita del teatro interessò, perlomeno inizialmente, il genere comico, poiché l’imitazione dei classici si sviluppava sulle orme della tradizione medievale in cui dominavano la farsa e la commedia. La tragedia veniva considerata di ordine intellettuale, divenendo una sorta di mito culturale elitario. Ciò non impedì, però, la pubblicazione e la diffusione di opere tragiche come quelle di Seneca.

Lo studio critico attorno ai grandi temi del teatro classico non riguardò solo i testi ma anche il teatro come spazio scenico e, più generalmente, come edificio. Opera fondamentale a questo proposito è il De architectura di Marco Vitruvio (rinvenuto nel 1414) che diede l’avvio agli studi sull’edificio teatrale. Il teatro diventò non solo sede di spettacoli ma simbolo stesso della civitas. Le indagini sullo spazio scenico si concentrarono sul concetto di prospettiva e sull’illusione di uno spazio profondo, mentre la ricerca della tridimensionalità portò all’inserimento successivo di elementi architettonici plastici. L’introduzione della scena prospettica fu di grande importanza: mentre in passato il pubblico condivideva lo stesso spazio della rappresentazione in una scena simultanea, la prospettiva introdusse la fondamentale distinzione tra lo spazio reale del pubblico e quello illusorio della scena in cui la realtà ricreata è inaccessibile allo spettatore, che può solo osservarla senza esserne compreso. Per tutto il corso del Cinquecento, poi, queste tecniche vennero affinate e migliorate: all’ingegnere Buontalenti, per esempio, si devono invenzioni scenotecniche come le quinte scorrevoli che permettevano il cambiamento repentino dello sfondo.

È altresì importante notare come il prestigio politico andasse di pari passo con quello artistico: attraverso il mecenatismo, infatti, i principi erano molto attenti ad assicurarsi spettacoli che potessero dare prova del loro potere e favorivano le sperimentazioni per ottenere maggiore sfarzosità. Le feste dei principi divennero un pretesto per varie tipologie celebrative tra le quali spiccava il teatro, un “teatro del potere”12 basato su temi non più religiosi come nel Medioevo, ma laici. A poco a poco teatranti e drammaturghi si slegarono

11 C. Susa, C. Bernardi, op. cit., p. 121.

12 Ibid, p. 147.

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dalla dipendenza al servizio dei principi per dedicarsi ad un teatro visto in una prospettiva più moderna come bene di consumo alla portata di tutti i cittadini.

L’apprezzamento per la classicità, però, non si rivelò subito nella pratica scenica: in un primo periodo la scrittura teatrale e la recitazione venivano infatti affidate e circoscritte all’attività scolastica. Ai professori, in particolare, veniva assegnato il compito di comporre drammi in latino da fare interpretare agli studenti.13 Un esempio fu Jean Tissier de Ravisy o Ravisius Textor (1480-1524) che compose delle pièces originali che trattavano questioni morali o di attualità. Tuttavia, la figura più nota rimane quella del professore e letterato di origini scozzesi George Buchanan (1506-1582), che si dedicò all’adattamento di testi classici, nonché alla produzione di tragedie originali di argomento biblico. Questi drammi presentavano le principali caratteristiche della tragedia antica: erano drammi regolari in cinque atti e trattavano della caduta di principi sorpresi da destini avversi.

Nel XVI secolo si assistette ad un maggiore sviluppo di questa nuova cultura rinascimentale: in questo periodo, i drammaturghi iniziarono a sperimentare l’adattamento delle opere classiche in lingua francese. Uno tra tutti, Etienne Jodelle14 (1532-1573), rappresentò davanti al re tragedie in lingua francese seguendo le regole del teatro classico; si può affermare che la sua Cléopâtre captive (1553) segni proprio l’origine della tragedia francese. Egli riuscì a fondere elementi del teatro greco-latino con atmosfere e lingua francesi, adattando il riscoperto teatro ellenico ad un pubblico moderno. Insieme a Jodelle, anche Robert Garnier (1544-1590) contribuì all’uso della lingua nazionale come veicolo per l’espressione di grandi passioni e sentimenti tragici, come nota anche Vauquelin de la Fresnaye all’interno della sua opera critica Art Poétique nel 1605.15 La tragedia umanista favorì, quindi, l’affermazione della lingua francese come lingua letteraria.

Nella seconda metà del XVI secolo, invece, iniziarono ad emergere taluni saggi teorici proprio sulla tragedia classica, come De l’art de la tragédie (1562) di Jean de La Taille che criticava non solo generi diversi da questo, ma anche tutte quelle rappresentazioni che non si prestavano al rispetto delle norme classiche ed aristoteliche. Sebbene inizialmente legate ad

13 Ibid, p. 152.

14 Etienne Jodelle fu uno dei membri della Pléiade, termine con cui venne designato un gruppo di scrittori e poeti che, intorno alla metà del Cinquecento, si raccolse attorno alla figura di Pierre de Ronsard e promosse una nuova poetica che, distanziandosi da quella medievale, esaltasse la lingua francese e l’imitazione degli autori antichi.

15 D. Hollier, De la littérature française, Bordas, Paris, 1993, p. 202.

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ambienti scolastici e di corte, queste innovazioni riuscirono ad affermare quell’ideale classicista che ebbe grande fortuna e prosieguo in autori del calibro di Corneille o Racine.

L’atmosfera filoclassicista del XV e XVI secolo pose le fondamenta della letteratura del secolo seguente, volgendo lo sguardo al passato e al teatro antico in particolare come un traguardo di irraggiungibile perfezione: ‘le passé constitue une réserve d’exemples qu’il ne reste aux acteurs présents qu’à imiter’.16 In Francia, i grandi intellettuali cominciarono a confrontarsi con il teatro così detto des Anciens proponendo riflessioni attorno alla Poetica di Aristotele, benché più teoriche che pratiche. Si aprirono dibattiti critici che interessarono molti autori e letterati. Gli aspetti più discussi riguardarono le unità di azione, di tempo e di luogo, la materia trattata e la fabula in relazione ai concetti di mimesi e di verosimiglianza.

Anche il concetto di catarsi rientrava nel dibattito, non solo in quanto purificazione delle emozioni provocate dalla tragedia, ma anche come fine e scopo stesso del dramma. Il confronto, poi, non poteva esulare da questioni stilistiche relative soprattutto al linguaggio, che doveva essere di registro alto, lirico e retorico. Pertanto l’antichità costituiva un modello con il quale gli autori dovevano misurarsi ed al quale dovevano ispirarsi. In questo periodo il teatro assunse un ruolo di superiorità tra le arti, benché ancora subordinato al potere monarchico. In Francia, si assistette allo sviluppo di compagnie teatrali professionistiche come quella di Valleran-Lacomte, insignita successivamente del titolo di Troupe du Roi.

Valleran (1590-1615), personaggio chiave del teatro francese, mise in scena componimenti teatrali del drammaturgo professionista Alexandre Hardy (1570-1632) che rappresentò un teatro ricco di colpi di scena attraverso un linguaggio erudito e simbolico.

Per quanto riguarda la questione linguistica, l’inizio del Seicento è ancora teatro di dibattito tra i modernisti-barocchi e i più classicisti. A questo proposito, François Malherbe (1555-1628) pubblica nel 1627 una raccolta di poesie che valuta degne di passare alla posterità rendendosi il promotore di una poetica chiara e comprensibile. Boileau lo elogia così nella sua L’art poétique:

Enfin Malherbe vint, et, le premier en France, fit sentir dans les vers une juste cadence […] Aux auteurs de ce temps sert encore de modèle. Marchez donc sur ses pas; aimez sa pureté17.

16 Ibid., p. 133.

17 Boileau, L’art poétique, Bordas, Paris, 1972, p. 51.

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Ciò che privilegiava Malherbe non era più l’originalità, bensì il rigore e i concetti semplici esposti attraverso una forma metrica regolare. Se un’idea complessa richiedeva l’uso di un’espressione metaforica inusuale, egli vi rinunciava: “si une expression risque de déranger une belle rime, […] il choisit la rime”18. La poetica non era più giudicata in funzione della ricchezza metaforica dell’ispirazione individuale, ma in funzione della sua adesione “aux règles générales du discours clair et grammatical”19. La pubblicazione del suo recueil influenzerà scrittori e letterati della prima metà del secolo: autori come Molière o Racine tenderanno, infatti, ad una semplificazione del loro vocabolario.

Oltre ad impulsi provenienti dall’ambito letterario, il teatro del XVII secolo fu grandemente influenzato dalla politica. In particolare da Jean du Plessis de Richelieu (1585- 1642), il quale sotto Luigi XIII divenne prima cardinale, poi capo del consiglio del re e riuscì a condurre una strategia politica che promosse la pratica teatrale. Come già accennato, le arti ed il teatro in particolare venivano considerate veri e propri mezzi di comunicazione politica, per questo Richelieu fondò nel 1635 l’Académie française, che imponeva alle attività artistiche specifici modelli estetici di ispirazione classicista coerenti con il volere reale. Lo scopo dell’accademia era di “établir des règles certaines pour la langue française et de la rendre capable de traiter tous les arts et toutes les sciences”20 per diffondere un’ideologia culturale uniforme. Questa concezione bandiva dal teatro tutto ciò che non era riconosciuto classico, come la forma ibrida della tragicommedia o il burlesque. Eppure questa visione sembra essere per critici come Antoine Adam troppo semplicistica. È da notare che l’istituzione dell’Académie non era solo testimonianza dell’interesse dello stato in questioni intellettuali; anzi, le scelte del cardinale erano più politiche che letterarie. Si pensava che il prestigio delle arti andasse di pari passo con quello militare e politico. Pertanto l’idea era che, se la Francia fosse riuscita ad imporsi sulle altre nazioni a livello culturale, sarebbe seguita anche un’egemonia politica. Benché questa riflessione non sia di sostanziale importanza per il presente studio, è rilevante notare che tanto il regno di Luigi XIII quanto il successivo regno del Re Sole furono generalmente accoglienti nei riguardi di artisti e intellettuali. Racine, ad esempio, godette ampiamente della protezione e del favore di Luigi XIV.

Inoltre, è importante fare una piccola riflessione sulla tipologia di società nella quale autori e drammaturghi si trovarono ad operare. Il classicismo deriva, oltre che

18 Denis Hollier, op. cit., p.256.

19 Ibid., p. 257.

20 Denis Hollier, op. cit., p. 260.

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dall’ammirazione per gli Anciens, anche da una concezione aristocratica della società;

l’ordine politico e sociale veniva in qualche modo garantito con la subordinazione delle masse. Il gusto era quindi ancora determinato prevalentemente dalle classi aristocratiche e non dalla borghesia, come vedremo accadrà nei secoli successivi. Le rappresentazioni teatrali erano lungi dal ritrarre ceti più bassi o addirittura popolari. L’Abbé d’Aubignac (1604-1676), che Richelieu stesso incaricò di scrivere una Pratique du théâtre (1657), afferma

les personnes, ou de naissance, ou nourries parmi les Grands, ne s’entretiennent que des sentiments généreux et ne se portent qu’à de hauts desseins, ou par les mouvements de la vertu, ou par les emportements de l’ambition, de sorte que leur vie a beaucoup de rapport aux représentations du théâtre tragique.

Il dialogo tra politica ed arte si fece ancora più serrato in occasione della celebre querelle du Cid durante la quale l’Académie diede prova della sua autorità in campo artistico.

Georges de Scudéry (1601-1667) accusava Pierre Corneille (1606-1684), autore del Cid, di non avere rispettato né le unità aristoteliche, né le regole delle bienséances. Gli rimproverarono in particolare il comportamento scioccante dell’eroina che continua ad amare l’uomo responsabile della morte del padre. Il loro ricongiungimento finale rende, inoltre, l’opera una tragicommedia. L’intento di Corneille di riscrivere il dramma di Guillén de Castro apportandovi alcune modifiche nel rispetto dei precetti classicisti, non fu quindi apprezzato dalla critica che lo accusava di mancanza di ragionevolezza. L’acceso dibattito spinse l’Académie française ad intervenire con una sorta di verdetto finale sull’opera: a farsene carico in prima persona fu Jean Chapelain (1595-1674), uno dei suoi intellettuali di punta, che si schierò contro il Cid in quanto, a suo avviso, non adempiva appieno alle norme relative al teatro antico. La querelle si rivelò di grande importanza per il teatro occidentale, in quanto, nonostante l’opera fosse stata apprezzata dal pubblico, la critica si impose sul gusto di quest’ultimo, decretando cosa fosse da elogiare e cosa fosse da biasimare. Erano gli esperti a doversi far carico di guidare la sensibilità del pubblico e tutelare gli spettatori da rappresentazioni che potessero minarne la moralità. Fu proprio in queste circostanze che il cardinale di Richelieu in persona incaricò l’abate d’Aubignac di comporre la Pratique du théâtre.

Tuttavia, Corneille venne presto oscurato da altri autori: a minarne il primato furono prima Molière (1622-1673), che applicò le regole classiciste alla commedia, e poi Racine

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(1639-1699) destinato a divenire il più grande tragediografo del tempo. Al contrario di Corneille, Racine sviluppa trame meno complesse e più lineari, in cerca di quella semplicità d’azione della quale parlava già Aristotele.

Morto il cardinale di Richelieu, la Francia entrava in un periodo dall’atmosfera gioiosa e spensierata sotto la guida di Luigi XIV e Mazzarino. Ciò che ci si attendeva dalla nuova classe politica era un atteggiamento più accomodante rispetto al regno precedente. Lo scoppio delle fronde e delle battaglie civili arrivò a disilludere le speranze più vivaci. Scoppiate nel 1648, quando il parlamento si oppose alle misure annunciate da Mazzarino, le fronde termineranno solo nel 1653 con il rientro di quest’ultimo a Parigi. Intanto la classe borghese, nata e sviluppatasi durante il periodo medievale, cominciava a prendere sempre più piede all’interno della società. Nel corso del XVIII secolo la borghesia, che comprendeva artigiani e commercianti, o professionisti come medici e avvocati, cominciò ad essere favorita dalla monarchia che la preferiva ad una nobiltà ormai in decadenza e troppo pretenziosa, soprattutto in Francia.

Il XVIII fu anche il secolo dell’illuminismo, corrente filosofica che basava tutta la conoscenza sulla ragione. In questo periodo si assistette a grandi progressi nei campi non solo delle scienze e del commercio, ma anche della vita urbana e delle arti. Quelle credenze religiose o superstiziose non spiegabili attraverso la ragione vennero messe in discussione arrivando fino alla condanna dell’Ancien Régime. La borghesia acquisì maggiori poteri sociali ed economici, ma a determinare il suo ruolo come classe dominante, furono la rivoluzione industriale prima e la rivoluzione francese poi. Questo cambiamento negli equilibri sociali ebbe ripercussioni anche sulle arti ed in particolare sul teatro. Esso divenne “tempio della borghesia”21 sia come rito sociale attraverso il quale la classe borghese poteva esibire la propria autorità e la propria ricchezza, sia come occasione per riflettere sulla realtà contemporanea interpretata principalmente nella sua contraddittorietà: da una parte la corruzione esterna, dall’altra la virtù e i valori interni alla famiglia.

La borghesia, insomma, richiedeva un teatro che ne rispecchiasse i valori. Il Settecento così come l’Ottocento videro diverse ed innovative forme teatrali alternarsi sulla scena. Ad esempio furono sempre più apprezzati i generi intermedi tra tragedia e commedia, notoriamente icone di aristocrazia e popolo.

21 C. Susa, C. Bernardi, op. cit., p. 232.

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Se l’Inghilterra si aprì a nuovi generi come la ballad opera, il burlesque e soprattutto le sentimental comedies, anche in Francia non mancarono i rinnovamenti. Sebbene per certi aspetti – come la purezza dello stile e la regolarità della costruzione – mantennero la continuità con il modello classico del secolo precedente, i drammaturghi del Settecento apportarono grandi innovazioni alla tragedia preferendo trame complesse per sviluppare i rapporti conflittuali tra i personaggi. Voltaire (1694-1778) fu una figura di spicco tra gli innovatori: egli mise in scena trame più intricate nelle quali le forti passioni erano causa di ostilità tra i personaggi. Inoltre, dopo il suo soggiorno nell’Inghilterra riformista, stimolato dal precedente teatro shakespeariano, introdusse scene violente, fantasmi ed effetti spettacolari.

La commedia, forse a causa del minor prestigio, subì una trasformazione più radicale prendendo di mira la società avida e corrotta così come le mode del momento. Inoltre in Francia – come in Inghilterra – non mancarono rappresentazioni basate su temi sentimentali e amorosi nella comédie larmoyante, ben accolti dalla borghesia.

Tuttavia, colui che sviluppò maggiormente un teatro conforme alla sensibilità borghese fu il drammaturgo e filosofo Denis Diderot (1713-1784). Distanziandosi dalla tradizione classicista, considerata inverosimile per l’accumulazione di eventi finalizzata al rispetto delle unità aristoteliche e il linguaggio pomposo, Diderot sostenne la creazione di un genere intermedio tra tragedia e commedia. Questo nuovo genere del dramma borghese, voleva unire seriosità e realtà quotidiana. Il nuovo luogo scenografico era il salotto borghese in quanto punto d’incontro tra le virtù coltivate nella vita domestica e la corruzione del mondo esterno. In generale le innovazioni del Settecento, incentrate sulla ricerca di nuovi generi che prescindessero dal bipolarismo tragedia-commedia tipico dell’età classicista e già teorizzato nell’antichità, portarono al superamento tanto del rigorismo tragico, quanto della quasi grottesca farsa comica. La nuova funzione del teatro come strumento educativo e di critica sociale divenne fondamentale durante il periodo romantico.

Il movimento romantico nacque come una sorta di reazione agli ideali illuministici basati sul mito della ragione e razionalità umana. Gli effetti disastrosi e sanguinari che ebbe la rivoluzione francese del 1789 disillusero e disincantarono intellettuali e letterati del tempo riguardo alla ragionevolezza degli esseri umani, che dimostravano invece inclinazioni a comportamenti impetuosi e veementi. Le arti non furono ovviamente esenti dal cambiamento:

il teatro in particolare inserì sia tratti innovativi sia elementi riscoperti da un rivalutato periodo medioevale, rifiutando completamente il modello teatrale classicista. Anche il

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dramma borghese diderotiano, tanto apprezzato qualche anno prima, iniziò il suo declino in quanto considerato anti-estetico. Il teatro romantico, ispirandosi alle grandi tragedie shakespeariane, dirigeva la sua attenzione non più a realtà quotidiane, ma a situazioni eccezionali che facessero emergere conflitti e pulsioni individuali. Per questo si tornò ad apprezzare il teatro medievale, completamente trascurato durante il periodo illuminista, nei suoi aspetti gotici e di grandi ideali anche religiosi. Eppure, le opere del periodo romantico europeo non furono il prodotto di un’estetica chiara e definita. A determinare la nascita del romanticismo fu il movimento tedesco dello Sturm und Drang originatosi in Germania, ma diffusosi rapidamente in tutta Europa. Uno dei grandi ideali del movimento fu legato alla poetica del sublime che indagava un sentimento del piacere diverso da quello del bello.

L’intenzione non era più, come nel classicismo, di ricercare la bellezza inseguendo l’armonia e il rispetto delle regole, ma quella di generare turbamento e ricercare sensazioni che toccassero altri aspetti della natura umana.

In Francia, gli sconvolgimenti politici e sociali dovuti alla rivoluzione del 1789 mettono fine alla situazione privilegiata della Comédie française che esercitava, ad esempio, un monopolio sul repertorio teatrale francese, mentre favorirono l’ascesa dei teatri dei boulevards i quali, riflettendo aspirazioni, proteste e speranze della società francese ottocentesca, diventarono sempre più popolari. L’innovazione drammatica più interessante messa in scena in questi teatri è quella rappresentata dai mélodrames che, con i loro allestimenti spettacolari e i loro intrecci complessi, ricchi di colpi di scena e basati sull’eroe perseguitato da un cattivo, possono essere considerati i precursori del dramma romantico francese.

Le caratteristiche e le idee principali del nuovo dramma sono contenute nella prefazione del Cromwell (1827) di Victor Hugo (1802-1885), che può essere considerata il manifesto della poetica teatrale romantica. In questa prefazione Hugo sancì l’abbandono delle tre unità aristoteliche, favorì la mescolanza dei generi in contrapposizione alla loro netta distinzione, pose la necessità di ambientazioni storiche ed il superamento di realtà idealizzate tipiche del periodo classico. Hugo fu un innovatore anche per quanto riguarda la rappresentazione scenica: egli, volendo sfruttare l’intero spazio scenico, permise addirittura agli attori di recitare con le spalle rivolte al pubblico. Anche l’allestimento cambiò e divenne sempre più elaborato e spettacolare. Insieme ad Hugo, Stendhal sottolinea il cambiamento radicale del gusto letterario in Racine et Shakespeare (1823), riaprendo in parte quella

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querelle des Anciens et des Modernes che aveva caratterizzato i secoli precedenti. Inoltre, in molti paesi Europei, si aprì un dibattito tra quello che era il nascente teatro romantico e il teatro commerciale borghese che rispondeva appieno alle esigenze di questa ormai privilegiata classe sociale. Con il romanticismo nacque la distinzione tra il così detto “teatro d’arte” e il teatro commerciale.

Peraltro la Francia, dopo i movimenti rivoltosi del 1848, stava uscendo dalla crisi politico-sociale per affacciarsi ad un periodo artistico più florido e sereno. Durante la seconda metà dell’Ottocento, il teatro, divenuto ormai luogo di intrattenimento più che di riflessione, conobbe un grande sviluppo soprattutto per quanto riguarda le forme del teatro borghese. Fu Parigi in particolare a vivere questa belle époque e a diventare un modello per le altre città europee, ottenendo la fama di “capitale mondiale del divertimento”22. Una delle forme di intrattenimento più popolari è rappresentata dai vaudevilles, commedie leggere che alternavano prosa con arie cantate, incentrati sulla società contemporanea nella quale, ancora una volta, era la borghesia a farla da padrone. Un altro genere rappresentativo della belle époque fu l’operetta che aggiungeva ai vaudeville non solo l’elemento coreografico con danze e balletti, ma anche trame dal carattere sentimentale ambientate nella buona società del tempo che stimolarono l’immaginario borghese. I vaudeville appartengono al ‘teatro teatrante’ di cui parla Allegri in La drammaturgia da Diderot a Beckett come di un prodotto industriale creato non tanto per riflettere su grandi tematiche, quanto per piacere al pubblico.

Insomma lo scenario al quale si assiste è quello di una Francia leggera e spensierata, come testimonia la nascita del locale simbolo del periodo, il Moulin Rouge, inaugurato per ospitare gli eterogenei spettacoli del café-concert. Questo genere di spettacolo venne esportato ben presto in tutta Europa e non solo. In Italia ad esempio trovò fortuna soprattutto a Napoli, dove nacque il varietà, mentre in Inghilterra si iniziò a parlare di music-hall. A distinguersi parzialmente dal café-concert per la sua indole più intellettuale fu il cabaret, il più celebre dei quali fu il Chat noir, inaugurato nel 1881.

A controbilanciare l’aspetto più ludico e commerciale delle rappresentazioni sceniche, fu l’attenzione per la filosofia positivista che esaltava il progresso e il metodo scientifico, anche forte della recente rivoluzione industriale e dei movimenti letterari che la sostenevano. Simile all’illuminismo che esaltava la ragione, il positivismo vede nella scienza l’unico mezzo per indagare il reale. Erano gli anni de L’origine della specie (1859) di Darwin

22 Ibid, p. 263.

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(1809-1882), della nascita della sociologia come scienza di Comte (1798-1857), dell’invenzione fotografica. Questo movimento culturale influenzò ovviamente le arti e portò alla nascita del Naturalismo. L’arte non voleva più concentrarsi su una ricerca del bello che potesse obliare taluni aspetti della quotidianità, anzi si preoccupava proprio di rappresentare realtà non filtrate e, in particolare, le realtà più difficili, quelle delle periferie industriali, delle condizioni estreme. La realtà diviene il punto di partenza e il punto di arrivo della drammaturgia. A capitanare queste tendenze in ambito letterario fu Emile Zola (1840-1902) che, nel suo Le naturalisme au théâtre del 1881, definì le modalità di ricerca del vero sulla scena. Nel teatro naturalista, visto come approdo di una borghesia che deteneva ormai il potere, l’attenzione era sull’istituzione familiare. All’interno di questa tranche de vie, il dialogo e la parola acquistano un ruolo sempre più importante rispetto all’azione ed il motore drammatico dipenderà dal rapporto dialettico determinato dal ruolo sociale dei personaggi.

Con la fine del naturalismo, terminò anche quella concezione del teatro che vedeva nella rappresentazione una illusione di realtà.

Gli ultimi decenni dell’800 segnarono uno dei periodi più importanti per il teatro che cominciò a ribellarsi nei confronti degli ideali borghesi con la nascita del teatro simbolista in cerca di “una dimensione dell’arte che si sottrae al quotidiano per andare alla ricerca dell’assoluto”23. Il teatro simbolista, benché circoscritto nel tempo, fu un teatro molto importante in quanto introdusse l’elemento metaforico e simbolico-evocativo sulla scena.

Tutto sulla scena si fa simbolo: “les signes artistiques pourraient servir à exprimer les mystères d’une réalité idéale, surréelle ou spirituelle connut un nouvel essor à la faveur d’une vague de spiritisme”24. La parola poetica è anch’essa icona, evocazione di una realtà altra.

Con il simbolismo si trasformò anche la messa in scena che si fece sempre più minimale preannunciando il teatro dell’assurdo: “décor dépouillé, ramené à ses éléments essentiels, […]

acteurs transformés en pure silhouettes (ou symboles)”25. Il personaggio si sgretola e si apre al mito della marionetta.

Icona del movimento simbolista fu Maurice Maeterlinck (1862-1949) che rappresentò le sue opere proprio nel Théâtre d’Oeuvre fondato da Aurélien Lugné-Poe (1869- 1940) e punto di riferimento del simbolismo. La sua opera più celebre, che certamente può essere considerata come un’anticipazione prematura dei temi beckettiani è Les aveugles

23 Ibid, p. 274.

24 D. Hollier, op. cit., p. 670.

25 Ibid., p. 748.

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(1891) nella quale un gruppo di persone non vedenti aspetta invano il ritorno del parroco che li ha condotti in una foresta, non accorgendosi che questo giace morto a poca distanza da loro.

La figura del cieco diventa metafora dell’uomo come essere che non possiede strumenti di conoscenza ed è quindi in balia dell’attesa. Maeterlink ha in comune con il teatro dell’assurdo la distruzione dell’intreccio (come azione) e il tema dell’attente. Altri importanti letterati e drammaturghi come Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944) e Alfred Jarry (1873-1907) frequentarono il Théâtre de l’Oeuvre e vennero influenzati dal genio di Maeterlink e dal suo teatro simbolista. Il teatro si fa sempre più specchio critico della società contemporanea.

Il Novecento, infatti, è il secolo della crisi delle rappresentazioni come specchio del reale. Il teatro entra in crisi e ricerca una sua identità attraverso una moltitudine di movimenti artistici d’avanguardia. “Il vuoto di identità […] produce una terra di nessuno che, come sempre accade a chi smarrisce l’identità del proprio ruolo, diviene un territorio di conquista”26. Le avanguardie che si sviluppano manifestano un’attenzione particolare al linguaggio, al come dire le cose più che al cosa dire27. Benché il teatro rimanga un luogo dove

“la società rappresenta sé stessa”28, il cambiamento politico e sociale a cui è sottoposta porta ad una trasformazione radicale del dramma come lo si conosceva nei secoli precedenti. In Italia è il periodo del futurismo di Filippo Marinetti (1876-1944), mentre a Zurigo nasce l’estetica dada. Come molti dei movimenti novecenteschi, il dadaismo si schiera contro quegli ideali borghesi tanto amati nel secolo precedente ma che hanno condotto alla violenza e alla tragedia della guerra. È una corrente che mira a frantumare quel sistema di valori coltivato per secoli e ormai totalmente sorpassato. La Germania diviene la patria dell’espressionismo che, nato nei primi decenni del Novecento e diffusosi poi in tutta Europa, mirava a mostrare la soggettività della realtà: poiché il reale è sempre esperito da un soggetto, essa sarà mediata e interpretata da una sensibilità parziale. Per questo il teatro espressionista ripropone dei personaggi simbolici all’interno di un dramma che deriva proprio dal loro modo di concepire il mondo.

Queste innovazioni precorsero altre avanguardie come il movimento surrealista, che esaspera l’illogismo sulla scena attraverso l’uso della parola e la creazione di atmosfere oniriche che richiamino i meccanismi dell’inconscio. La ricerca di nuove tipologie teatrali, così come di un nuovo linguaggio, condusse alle sperimentazioni del drammaturgo russo

26 L. Allegri, La drammaturgia da Diderot a Beckett, Editori Laterza, Roma, 2003, p. 108.

27 Ibid., p. 106.

28 Ibid., p. 107.

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Vsevolod Emil’evič Mejerchol’d (1874-1940). Le sue ricerche puntavano ad uno spettacolo nel quale la parola fosse ridotta al minimo e la comunicazione dei personaggi si fondasse sulla gestualità.

Un’altra importante innovazione teatrale riguardante il linguaggio fu quella del francese Alfred Jarry (1873-1907) nel suo capolavoro Ubu Roi. “Jarry revient de fonder l’estéthique ascénique moderne”29 scrive Marie-Claude Hubert. In Francia, sarà la messa in scena di quest’opera nel 1896 a chiudere la fase teatrale simbolista e ad aprire alle avanguardie del ‘900. In Ubu roi si assiste ad un abbassamento del linguaggio che si fa quasi grottesco, come testimonia l’incipit dell’opera: merdre! Anche la messa in scena si distacca dalla rappresentazione realistica, basti pensare che la Pologne, luogo della vicenda, è definita dallo stesso autore come un “pays assez légendaire et démembré pour être Nulle Part”30 e che il protagonista Ubu viene rappresentato con “la tête en forme de poire, le corps massif à bedaine circulaire”31. La critica alla classe borghese arriva dal basso, attraverso un personaggio, quello del re, egoista e grossolano.

L’importanza di questo drammaturgo viene sottolineata dalla creazione nel 1926 del Théâtre Alfred Jarry, fondato insieme ad altri da Antonin Artaud (1896-1948). Quest’ultimo ebbe non poca influenza nella trasformazione della rappresentazione teatrale non solo come drammaturgo ma anche come critico con il suo testo teorico Le théâtre et son double pubblicato nel 1938, incentrato sul théâtre de la cruauté atto a risvegliare la rispondenza dello spettatore non attraverso la violenza, ma con mezzi linguistici, gestuali, rappresentativi che ne smuovano la sensibilità. Con Artaud il teatro diventa un luogo dove rapportarsi con le grandi tematiche esistenziali – come il mistero della vita e della morte – alle quali il pubblico si avvicinò con lo scoppio della prima guerra mondiale.

Come si può notare, la distanza presa nei riguardi di tradizioni letterarie e teatrali precedenti, conduce all’esplosione e all’affermazione di diverse avanguardie cosi come a sperimentazioni, innovazioni e distanziamento dal teatro tradizionale. La più celebre drammaturgia d’avanguardia fu il – così definito – ‘teatro dell’assurdo’. Questa etichetta vuole racchiudere al suo interno un gruppo di autori che hanno una caratteristica comune:

tentare di rappresentare l’assurdità della vita contemporanea espressa in modo particolare da un peculiare utilizzo del linguaggio.

29 M. Hubert, Les grandes théories du théâtre, Armand Colin, Paris, 1998, p. 212.

30 A. Jarry, Ubu Roi, Librairie Générale de France, Paris, 1962, p. 22.

31 Ibid., p. 2.

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È il caso del francese Eugène Ionesco (1912-1994) che attraverso la distruzione del linguaggio esprime la desolazione della vita dei personaggi. Ne La cantatrice chauve – il suo capolavoro – i dialoghi banali e la mancanza di logicità nelle azioni sono particolarità atte ad evidenziare la vacuità della vita. Il finale della pièce, poi, riproponendo la scena iniziale, suggerisce la circolarità e l’impossibilità di riscattarsi da questa esistenza. Tuttavia è Samuel Beckett (1906-1989) il vero emblema del teatro dell’assurdo. Benché di origini irlandesi, Beckett fu molto attivo non solo nel panorama inglese, ma anche in quello francese. Pubblicò, infatti, in lingua francese la sua opera più celebre, En attendant Godot (1952). Come vedremo più dettagliatamente nella dissertazione, continuando il lavoro di altri artisti come il già citato Ionesco, egli sovvertì completamente i meccanismi teatrali di tutti i secoli precedenti. Nei suoi drammi niente sembra succedere, i personaggi semplicemente trascorrono il tempo della rappresentazione intrappolati in scena compiendo azioni ripetitive e conducendo dialoghi banali. Anche Beckett, come il collega francese, fa uso di una certa ironia ma la utilizza non tanto con intento comico, quanto per sottolineare gli aspetti più patetici dell’esistenza attraverso l’aspetto simbolico del suo teatro. Beckett fu fondamentale anche per le seguenti generazioni di autori teatrali come l’inglese Harold Pinter (1930), soprattutto per l’uso scarno del linguaggio e per le atmosfere che si fanno sempre meno quotidiane e sempre più diradate e simboliche.

Il Novecento è il secolo delle guerre mondiali che costringono le generazioni al confronto con la brutalità e con sentimenti di disorientamento. La violenza “sembra non essere mai stata così universale, […] e plasma tutte le categorie di pensiero e di azione”32. Il teatro della seconda metà del secolo in particolare si fa emblema della crisi, una crisi di valori, ma anche di certezze.

32 A. Cascetta, La tragedia del Novecento: coscienza del tragico e rappresentazione di un secolo al limite, Editori Laterza, Bari, 2009, p. 16.

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2. LA TRAGEDIA SEICENTESCA E

JEAN RACINE

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2.1 LE ORIGINI DELLA TRAGEDIA SEICENTESCA

Il classicismo, identificato come una corrente artistica che si ispira all’antichità greco- latina, viene fatto risalire alla seconda metà del XVII secolo. Questo fenomeno artistico nacque a seguito di una disputa che vedeva contrapporsi da una parte teorie promotrici dell’estetica classica e dall’altra sostenitori di una sensibilità – quella barocca – alla ricerca di un’arte originale ed estrosa. Questa querelle des Anciens et des Modernes si concluse con il trionfo dell’armonia classicista favorito dall’Académie française: tutto ciò che non rientrava nei principi di quest’estetica era considerato “extravagant”33. Il classicismo, in effetti, era una corrente che obbediva a norme che gli autori individuavano come la ragion d’essere dell’estetica stessa.

Per quanto riguarda la tragedia, l’opera di riferimento fu la Poetica di Aristotele che venne riportata all’attenzione di intellettuali e letterati grazie alla traduzione latina di Giorgio Valla del XV secolo. La produzione letteraria dei secoli seguenti venne confrontata con questo testo che si proponeva di raccogliere le regole fondamentali del teatro classico. Tale raffronto determinò tanto la pubblicazione di drammi dedicati all’imitazione e alla riscrittura delle tragedie greche, quanto la fioritura di veri e propri testi critici e teorici sul classicismo.

Roubine parla di “foisonnement exégétique”34 per indicare questa esplosione di teorie indirizzate a una conoscenza quasi scientifica dell’arte teatrale. In effetti, furono le opere critiche, prima del successo di alcuni autori, a determinare l’apprezzamento e la diffusione di questa estetica.

Le opere più celebri e influenti furono L’art poétique di Boileau nel 1674 e La pratique du théâtre di D’Aubignac nel 1669, che fecero degli autori i maggiori interpreti delle tendenze del secolo. Boileau riafferma i valori classici stabilendo un uso della parola chiaro ma elegante che eviti la bassesse35, poiché “le vers le mieux rempli, la plus noble pensée/ ne peut plaire à l’esprit, quand l’oreille est blessée”36. L’opera di D’Aubignac, pubblicata qualche anno prima, dà un’immagine più precisa della tragedia così come la vedevano i critici: l’autore si mostra intransigente a proposito del rispetto delle tre unità aristoteliche e condanna tutto ciò che appesantisce l’intreccio e affievolisce la tensione elogiando la ricerca della semplicità d’azione. Entrambe le opere sono di ispirazione aristotelica; poiché la Poetica

33 A. Adam, op. cit., p. 108.

34 J. Roubine, Introduction aux grandes théories du théâtre, Nathan, Paris, 2000, p. 5.

35 Boileau, op. cit., p. 49.

36 Ibid., p. 50.

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era considerata come una sorta di manifesto della tragedia classica, ne vengono, infatti, riprese le idee principali come quella di mimesi, di vraisemblance o di catarsi.

Teorizzato inizialmente da Platone, il concetto di mimesi, che per Aristotele è alla base della tragedia, si riferisce sia a «quel che» dicono i poeti (piano del lógos e del mŷthos) che al «come» lo dicono (ambito del léxis, della forma espressiva e linguistica)37. Questa imitazione non riguarda tanto le cose della natura, quanto piuttosto il procedimento naturale.

Come si vedrà, infatti, la realtà proposta dalla tragedia è una realtà idealizzata. Così, l’oggetto della mimesi non è l’uomo, ma piuttosto l’azione dell’uomo: “la tragedia […] è dunque imitazione di un’azione e soltanto a motivo di questa lo è anche di persone che agiscono”38. Tra i sei elementi che compongono la tragedia – il racconto, i caratteri, l’elocuzione, il pensiero, lo spettacolo e la musica – “l’anima della tragedia”39 risiede proprio nel racconto, vale a dire nella composizione dell’azione che, come ripropone Boileau, deve svilupparsi in una successione lineare e cronologica con “un principio, (un) mezzo, (un) fine”40 e in modo da garantire ritmo e coesione. Inoltre le azioni riportate non riguardano soltanto ciò che è realmente accaduto, ma ciò che è possibile accada secondo i principi di verosimiglianza e necessità: “la Scène ne donne point les choses comme elles ont esté, mais comme elles devoient estre”41. In questa peculiarità risiede, secondo Aristotele, la differenza tra il lavoro dello storico e quello del poeta.

La vraisemblance non consiste nella rappresentazione del reale, ma in quella del possibile: ciò che ha più probabilità di accadere in conformità con le aspettative degli spettatori. Per questo motivo, il concetto è legato intimamente al gruppo sociale e all’epoca di riferimento, a ciò che oggi chiameremmo opinione comune. Come afferma Rapin: “le vraisemblable est tout ce qui est conforme à l’opinion publique”42. In effetti, vi sono alcuni elementi (come l’accumulazione di diversi eventi in poche ore) che per il pubblico dell’epoca non erano considerati inverosimili, ma che potrebbero essere ritenuti tali da altre correnti di pensiero. Sebbene – come accennato – il teatro in quanto ri-produzione mostri sempre qualcosa di fittizio – anche fosse una rappresentazione perfetta del reale –, il teatro classico aspira a creare l’illusione che finzione scenica e realtà coincidano:

37 Prefazione di Domenico Pesce in Aristotele, Poetica, Rusconi, Milano, 1981, p. 9.

38 Aristotele, op. cit., pp. 84-85.

39 Ivi.

40 Ibid., p. 87.

41 F. D’Aubignac, La pratique du théâtre, Slatkine Reprints, Génève, 1996, p. 68.

42 J. Scherer, La dramaturgie classique en France, Librairie Nizet, Paris, 1970, p. 372.

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Voir du théâtre est donc, littéralement, voir autre chose que ce qu’on voit hors du théâtre.

Mais, dans le même temps, il faut que ces spécificités donnent au spectateur l’impression qu’il possède, de près ou de loin, une sorte de ressemblance avec elle. 43

È necessario, quindi, distinguere tra il concetto di verosimiglianza e quello di vero, poiché le due nozioni possono non corrispondere; “le vrai peut quelquefois n’être pas vraisemblable”44 e siccome “l’esprit n’est pas ému de ce qu’il ne croit pas”45, a essere favorito è sempre il verosimile, più credibile del vero. Come sottolinea Marie-Claude Hubert “l’art de la fiction dramatique (doit inventer) quelque chose de crédible”46.

Questa ricerca di attendibilità non si trova solo nello sviluppo dell’azione, ma ovunque: nel ritratto dei personaggi, nella durata della rappresentazione o nel luogo della stessa. Per questo la verosimiglianza è fortemente connessa alle teorizzazioni delle celebri unità di tempo, di luogo e di spazio che favoriscono la realizzazione dell’illusione. L’unità d’azione sancisce che la mimesi riguardi un unico oggetto; come ricorda Boileau “qu’en un lieu, qu’en un jour, un seul fait accompli, tienne jusqu’à la fin le théâtre rempli”47. Aristotele la elaborò come segue, evidenziando l’esigenza di coesione:

(che) l’imitazione […] sia di un’azione sola e per di più tale da costruire un tutto concluso ed occorre che le parti dei fatti siano connesse assieme in modo tale che, se qualcuna se ne sposti, venga rotto il tutto48.

L’unità di tempo stabilisce, invece, che la durata della tragedia stia “il più possibile entro un solo giro del sole o (se ne allontani) di poco”49, evitando di protrarsi per un periodo più lungo di ventiquattro ore. La durata dell’azione rappresentata, cioè, deve avvicinarsi il più possibile alla durata dello spettacolo stesso. Una verosimiglianza rigida vorrebbe addirittura che le due durate coincidessero. Analogamente, l’unità di luogo impone che la rappresentazione avvenga in un unico spazio poiché non sarebbe credibile che in un solo spazio – il luogo della scena – si trovino siti diversi. Come spiega D’Aubignac, “le lieu où le premier acteur qui fait

43 C. Biet, C. Triau, Qu’est-ce que le théâtre, Gallimard, Paris, 2006, p. 63.

44 Boileau, op. cit., p.72.

45 Ivi.

46 M. Hubert, op. cit., p. 30.

47 Ivi.

48 Aristotele, op. cit., p. 91.

49 Ibid., p. 80.

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