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6. Inazione e linguaggio: il caso di Bérénice di Racine e Oh les beaux jours di Beckett

6.5 Il fallimento della comunicazione

Come si è evidenziato, però, tra Bérénice e Oh les beaux jours, si notano affinità che non possono essere completamente casuali, in particolare riguardo all’inazione, al rapporto con il passato e più in generale con il tempo. Nella prossima sezione si vedrà come un’altra prerogativa del teatro beckettiano si ritrovi già in Racine: l’incomunicabilità dei personaggi.

6.5 IL FALLIMENTO DELLA COMUNICAZIONE

Mentre nelle altre opere raciniane il linguaggio drammatico emergeva soprattutto nei monologhi, nei récit e nelle tirades, in Bérénice i dialoghi acquisiscono grande rilevanza. Diversamente dalle tragedie precedentemente analizzate, infatti, il messaggio della comunicazione non sempre viene compreso dal destinatario, in quanto ogni personaggio è rappresentato intento a perseguire i propri obbiettivi e, quindi, sordo alle parole altrui. Pertanto molti critici, nell’analizzare l’opera, hanno parlato di échec de la communication, un fallimento che può derivare dal fatto che i personaggi stentino a pronunciare le loro verità compromettendo la comprensione dell’interlocutore, oppure da un atteggiamento di chiusura del destinatario che rifiuta più o meno inconsciamente di ricevere il messaggio del mittente.

Nel primo atto, si assiste ad una serie di conversazioni nelle quali emerge questa difficoltà a comunicare; ad esempio si partecipa ad un dialogo tra Antiochus e il suo confidente, nel quale Arsace stenta a comprendere le ragioni del turbamento di Antiochus, inconsapevole del sentimento che quest’ultimo prova nei confronti di Bérénice. Egli, infatti, una volta scoperto che Antiochus è deciso a partire subito dopo l’incontro con la regina, ammette di non riuscire a comprendere le ragioni di una tale fuga in un momento gioioso che corona i tanti sacrifici bellici, né perché Antiochus si dimostri tanto turbato dall’unione di Titus e Bérénice (“Mais qui rend à vos yeux cet hymen si funeste?”).

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Anche la scena che segue quella dell’incontro tra Antiochus e la regina si rivela un faux

dialogue328 nel quale i protagonisti non riescono a comunicare: Bérénice, ad esempio, non dimostra comprensione alle parole dell’amico, perché troppo concentrata sulla sua situazione personale:

Seigneur, je n’ai pas cru que, dans une journée Qui doit avec César unir ma destinée,

Il fût quelque mortel qui pût impunément Se venir à mes yeux déclarer mon amant.

La conversazione, infatti, termina subito dopo la confessione di Antiochus; nonostante l’amicizia che sembra legarli da tempo, Bérénice non è predisposta a porre rimedio alla situazione. Per questo la confidente la rimprovera di non averlo trattenuto ma, anche nel dialogo con Phénice, la regina mostra un certo aveuglement329 e rifiuto di comprendere le sue parole (I, 5).

Phénice: Titus n’a point encore expliqué sa pensée. Rome vous voit, Madame, avec des yeux jaloux ; La rigueur de ses lois m’épouvante pour vous :

L’hymen chez les Romains n’admet pas qu’une Romaine ; Roma hait tous les rois, et Bérénice est reine

Bérénice: Le temps n’est plus, Phénice, où je pouvais trembler. Titus m’aime, il peut tout, il n’a plus qu’à parler.

Ciò che i protagonisti di Bérénice spesso stentano a riconoscere è il significato implicito delle affermazioni. Come afferma Ducrot, per ogni significato letterale di un enunciato, ve n’è sempre uno sottointeso330, che può essere più o meno esplicito. Se Bérénice temeva il fallimento della sua unione con Titus quando ancora Vespasiano, contrario a disubbidire alle leggi romane, era in vita, ora si mostra certa che il matrimonio avverrà, nonostante gli avvertimenti della confidente che sottolinea non solo che le leggi romane non accettano una regina straniera come imperatrice, ma anche che Titus stesso non si è ancora esposto a riguardo, sottintendendo la possibilità che l’imperatore non adempia finalmente alle sue promesse. Con la sua risposta, Bérénice palesa di non aver compreso questo messaggio e di non prendere in considerazione una tale eventualità; d’altronde, come ammette Beckett, in

328

J. Racine, Bérénice, Larousse, Paris 2006, p. 49.

329

Cécile Lignereux nel suo commento all’opera in J. Racine, Bérénice, cit., p. 47.

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Proust “l’evento futuro non può essere focalizzato, le sue implicazioni non possono essere

colte, finché esso non venga situato definitivamente e non gli venga fissata una data”331. Affermando “Titus […] n’a plus qu’à parler”, inoltre, Bérénice conferisce alla parola un valore perlocutorio che – come si vedrà in seguito – in questa pièce l’atto verbale non possiede.

Come afferma Jakobson, il messaggio codificato dal mittente, deve essere decodificato anche dal destinatario332, in questo caso, invece, il messaggio espresso dal mittente-Phénice non è adeguatamente percepito dal destinatario-Bérénice. Ciò che manca nel loro scambio verbale è quello che il linguista chiama “canale fisico”, una connessione psicologica fra mittente e destinatario333.

Bérénice, in realtà, persevera nell’incomprensione per tutta l’opera mostrando un atteggiamento di rifiuto che la rende particolarmente pietosa agli occhi degli spettatori. Quando, ad esempio, incontra per la prima volta Titus (II, 3), benché Phénice le abbia già dato indizi riguardo ad una possibile interpretazione del comportamento distaccato di Titus, ella conferma ancora una volta il suo rigetto ad accettare questa possibilità. Le uniche parole che Titus riesce a pronunciare sono le seguenti:

N’en doutez point, Madame; et j’atteste les dieux Que toujours Bérénice est présente à mes yeux. L’absence ni le temps, je vous le jure encore, Ne vous peuvent ravir ce cœur qui vous adore.

Titus le conferma l’amore per lei, ma la frase “l’absence ni le temps […] ne vous peuvent ravir ce coeur” ha un grande significato, che Bérénice non comprende, attribuendo la causa della sua freddezza nella morte del padre:

Seigneur, tous ces regrets De votre piété sont de justes effets.

Mais vos pleurs ont assez honoré sa mémoire: Vous devez d’autres soins à Rome, à votre gloire.

Titus, prima di fuggire dal colloquio, in un momento ricco di tensione che spezza l’alessandrino in ben quattro parti, cerca nuovamente – e sempre invano – di suggerire a

331

S. Beckett, Proust, op. cit., p. 16.

332

R. Jakobson, op. cit., p. 149.

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Bérénice il suo segreto pronunciando le parole “Rome…l’Empire”, ma lei conferma l’incomprensione, attribuendo – ancora una volta – la condotta di Titus ad una ragione errata: “l’amour d’Antiochus l’a peut-être offensé”, confessa a Phénice. Questa tipologia di malinteso fa scaturire una certa ironia tragica per lo spettatore che conosce meglio dei personaggi la situazione e che, quindi, ha una comprensione più immediata dei comportamenti dei personaggi.

Bérénice non coglie l’implicite fondé sur l’énonciacion, quell’implicito, cioè, che determina che “toute parole doit se présenter comme motivée, comme répondant à certains besoins ou visant à certaines fins”334

. Si tratta della condizione stessa di esistenza dell’enunciazione; le parole “absence”, “Rome”, “Empire”, non possono essere pronunciate casualmente, ma la regina non ha una predisposizione psicologica sufficiente per poter cogliere il sottointeso presente in quelle affermazioni.

Oltre al malinteso, è possibile parlare di un vero e proprio rifiuto di Bérénice di comprendere il messaggio: poiché l’enunciato viene espresso sempre all’interno di un contesto, da esso deriva la comprensione del messaggio. Facendo riferimento al contesto in cui Titus si presenta distaccato, la morte del padre che è avvenuta ormai da giorni, il fatto che l’imperatore non si sia ancora pronunciato riguardo al matrimonio e che Roma stenti ad accettare Bérénice come imperatrice, la protagonista avrebbe tutti gli elementi per decifrare il messaggio o, perlomeno, per prendere in considerazione l’eventualità che Titus la vogli abbandonare. Ducrot, infatti, afferma:

[le sous-entendu] s’appuiera donc sur l’événement que constitue l’énonciation, sur le choix de l’énoncé par le locuteur à tel moment et dans telles circonstances.335

Titus a sua volta, però, è anch’egli dimostrazione di un certo fallimento della comunicazione; egli si mostra afasico, non riesce a comunicare il messaggio in modo sufficientemente chiaro, quelle parole sono per lui impronunciabili. Accettando la teoria di Ducrot, secondo la quale il sottointeso permette di “dire quelque chose sans accepter pour autant la responsabilitè de l’avoir dit”336

, è possibile, inoltre, affermare che Titus, in questo suo dialogare implicito, allontani da sé la responsabilità di essere lui il mittente di quel messaggio. L’afasia di Titus ed il suo rifiuto a identificarsi come mittente, fanno sì che egli necessiti un altro locutore che si

334

O. Ducrot, op. cit., p. 8.

335

Ibid., p. 132.

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interponga tra lui (mittente effettivo) e Bérénice (ricevente), cosicché il messaggio possa giungere a destinazione: per questo si rivolge ad Antiochus.

Anche il loro colloquio (III, 1), però, evidenzia una sequenzialità che non rispetta le regole dell’interazione verbale: Titus, ad esempio, dà avvio al dialogo ponendo ad Antiochus una serie di domande riguardanti la motivazione della sua fuga, alle quali, però, non corrisponde una risposta. Ancora una volta i personaggi si dimostrano talmente concentrati sui propri obbiettivi, da non aprirsi alla comprensione delle ragioni altrui. Titus prosegue con l’unico scopo di raggiungere il suo obbiettivo e persuadere Antiochus a parlare con Bérénice, non curandosi della reticenza che questi dimostra nei confronti delle sue richieste, né il turbamento che mostrano i suoi interventi, che si riducono ad esclamazioni di preoccupazione (“Hélas!”) e brevi domande incredule (“Moi, paraître à ses yeux?”).

La conversazione si sviluppa, poi, attraverso un ulteriore malinteso di Antiochus che crede di dover incontrare Bérénice per esprimerle l’amore che Titus prova per lei: “Pourquoi vous dérober vous-même en ce moment / Le plaisir de lui faire un aveu si charmant?” domanda all’imperatore. Anche in questo caso Antiochus, convinto che il matrimonio avverrà a breve, si preclude ogni altra possibile interpretazione. Ciascuno dei protagonisti, insomma, rimane fermo nelle proprie convinzioni, non dimostrandosi predisposto alla comprensione del messaggio dell’interlocutore, perlomeno finché il contenuto non sia reso totalmente esplicito. Bérénice, ad esempio, recepisce definitivamente il messaggio solo dopo la dichiarazione di Titus: “Car, enfin, ma princesse, il faut nous séparer”.

La mancata comprensione del messaggio altrui, quindi, compromette l’uso del linguaggio con valore perlocutorio (e performativo) che si è analizzato nel capitolo precedente. I personaggi, infatti, non riescono più a persuadere e a mutare azioni e pensieri altrui. Durante la conversazioni tra Titus e Paulin (II, 2), il confidente e portavoce del popolo romano, sembra riuscire a convincere Titus – attraverso argomenti politici, storici e morali –a preferire l’impero a Bérénice. Tuttavia, nel corso del dialogo, si nota chiaramente come la decisione ultima di Titus sia decisa fin dal principio e come egli stesso ne sia consapevole. A Titus non sono sufficienti le prime risposte date dal confidente: egli chiede per ben tre volte a Paulin di confidargli cosa Roma pensi effettivamente del matrimonio con la regina e il confidente più volte gli risponde che, essendo imperatore, potrà sempre contare sull’appoggio della corte, ma Titus non è soddisfatto da queste risposte, che gli permetterebbero di unirsi a

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Bérénice. Si noti la decisione con la quale egli spinge l’interlocutore a dargli la risposta che si aspetta con certezza:

Et j’ai l’ai vue aussi cette cour peu sincère, A ses maîtres toujours trop soigneuse de plaire, […]

Je vous ai demandé des oreilles, des yeux; J’ai mis même à ce prix mon amitié secrète: J’ai voulu que des cœurs vous fussiez l’interprète ; Qu’au travers des flatteurs votre sincérité

Fît toujours jusqu’à moi passer la vérité.

Titus, insomma, sembra conoscere in partenza la risposta alle sue domande e, quindi, la decisione che è chiamato a prendere; la retorica di Paulin agisce sull’azione solo in apparenza.

Un altro esempio, nel quale il valore perlocutorio relativo a ordine e promessa viene meno nonostante vi siano tutte le condizioni, riguarda l’incontro tra Titus ed Antiochus. Nonostante Titus sfoggi tutta la sua retorica per convincere l’interlocutore ad obbedire alle sue richieste, non riesce a convincere Antiochus; l’incontro con Bérénice, infatti, avviene per una pura casualità.

Attraverso questi esempi, si può notare come in Bérénice i personaggi raciniani si trasformino in soggetti con deficienze comunicative che richiamano la drammaturgia beckettiana. Il fallimento della comunicazione è, infatti, da sempre prerogativa del drammaturgo novecentesco. Se Bérénice si distingue dalle altre tragedie raciniane per questa sua peculiarità, bisogna ammettere che anche in Oh les beaux jours, Beckett non solo riduce l’azione e la possibilità di movimento ai minimi termini, ma fa un uso della parola che, corrodendo sempre più il discorso, compromette maggiormente la possibilità di comunicare dei personaggi. La protagonista, infatti, appare costantemente impegnata ad assicurarsi e a protrarre un dialogo – di fatto inesistente – tra lei ed il marito, in quanto non potrebbe accettare l’eventualità che le sue parole non venissero ascoltate.

La protagonista richiama fin da subito l'attenzione del suo interlocutore: dopo le preghiere Winnie esclama, sporgendosi verso il retro del monticello: “Hou-ou!” e, non ricevendo risposta si affretta nell’affermare “Pauvre Willie”. In questo modo la protagonista non solo palesa la volontà di instaurare un rapporto dialogale col marito, ma “s’empresse de faire savoir au spectateur qu’un autre personnage est là”337

.

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La ricerca continua della conferma che Willie sia lì ad ascoltarla può essere ricondotta a quella che Jakobson definisce la funzione fàtica della comunicazione, che si riferisce al contatto tra i partecipanti e che serve essenzialmente “a stabilire, prolungare o interrompere la comunicazione, a verificare se il canale funziona […] ad attirare l’attenzione dell’interlocutore”338

. Rappresentando lo sforzo atto a mantenere la conversazione, essa è la principale funzione che ritroviamo nel dialogo tra Willie e Winnie la quale, lungo tutta la

pièce, manifesta il bisogno costante di confermare la presenza del marito, come destinatario

delle sue parole. La funzione fàtica, infatti, le permette di “remettre en mouvement, en fonctionnement, les mécanismes de la parole”339

, evitando che la sua voce lasci spazio al silenzio. In effetti, come nota Benveniste:

Le langage n’est possible que parce que chaque locuteur se pose comme sujet, en renvoyant à lui-même comme je dans son discours. De ce fait, je pose une autre personne, celle qui, tout extérieur qu’elle est à « moi », devient mon écho auquel je dis tu et qui me dit tu.340

Winnie ha bisogno, quindi, di un tu che le conferisca il valore di soggetto, un destinatario che la individui come mittente ed il suo rivolgersi a Willie attraverso l’uso di forme imperative (“ne reste pas vautré là”) non fa altro che evidenziare l’opposizione je-tu341

. La parola come già accadeva in Fin de partie, è sinonimo e sintomo di esistenza, per questo Winnie si incita a più riprese a non fermare il flusso di pensiero – “Continue, Winnie”, si ordina. Come scrive Liliana Sikorska: “Decartes’ maxim Cogito ergo sum should have been amended to Dicto

ergo sum. That is why Beckett’s characters constantly talk articulating their thoughts

aloud”342

. Il suo discorso continuo funziona, esattamente come nelle opera precedenti, da riempitivo in attesa della fine e il suo linguaggio, si degrada gradualmente mano a mano che ci si avvicina al termine della rappresentazione, come si può notare da questo passaggio al secondo atto:

Et maintenant ? (Un temps .) Le visage. (Un temps .) Le nez. (Elle louche vers le nez .) Je le vois… (louchant)… le bout… les narines… souffle de vie… cette courbe que tu prisais tant… (elle allonge les lèvres)… une ombre de lèvre (elle les allonge)… si je fais la

338

R. Jakobson, op. cit., p. 188.

339 E. Leblanc, op. cit., p. 70.

340

E. Benveniste, Problèmes de linguistique générale, 1, Gallimard, Paris 1966, p. 260.

341

E. Leblanc, op. cit., p. 66.

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moue… (elle tire la langue)… la langue bien sûr… (elle la tire)… que tu goûtais tant… (elle la tire)… si je la tire… (elle la tire)… le bout… (elle lève les yeux)… un rien de front… de sourcil… imagination peut-être… (yeux à gauche) … la joue… non… (yeux à droite)… non… (elle gonfle les joues)… même si je les gonfle… (yeux à gauche, elle gonfle les joues)… non… non… vermeil bernique. (Yeux de face .) C’est tout.

Winnie, quindi, non può accettare di rimanere senza interlocutore, perché ciò significherebbe restare in silenzio e quindi, secondo Sirkoska, cessare di esistere. Per questo, come nota Leblanc, cerca con tutte le sue forze di prolungare il dialogo col marito. Si noti come nel passaggio seguente, ad esempio, Winnie si aggrappi alle sue risposte per allungare una conversazione insensata:

Winnie: Est-ce que tu m’entends de là? (Un temps.) Je t’en supplie, Willie, seulement oui ou non, est-ce que tu m’entends de là, seulement oui ou rien?

Un temps

Willie: (Maussade.) Oui.

Winnie: (Revenant de face, même voix.) Et maintenant? Willie: (Agacé) Oui.

Winnie: (Moins fort) Et maintenant? Willie: (Encore plus agacé.) Oui !

Winnie: (Encore moins fort) Et maintenant? (Un temps. Un peu plus fort.) Et maintenant? Willie: (Violemment.) Oui!

Winnie: (Même voix) Qu’ils pleurent, oh mon Dieu, qu’ils frémissent de honte. (Un

temps.) Tu as entendu?

Willie: (Agacé) Oui.

Winnie: (Même voix) Quoi? (Un temps.) Quoi? Willie: (Encore plus agacé) Qu’ils frémissent!

Un temps.

Winnie: (Même voix) De quoi? (Un temps.) Qu’ils frémissent de quoi? Willie: (Violemment) Qu’ils frémissent!

Winnie: (Voix normale, d’une traite.) Dieu te bénisse Willie de ta bonté.

Dall’ultima battuta, si può già comprendere, inoltre, l’atteggiamento generalmente propositivo che ha Winnie, perlomeno al primo atto. Le basta un gesto, un segnale qualsiasi di Willie che le permetta di conferire una ragion di esistere alle sue parole (e a lei) e, anche quando gli interventi del marito non sono funzionali allo sviluppo del discorso, lei si illude che egli partecipi attivamente allo scambio verbale. Quando ad una sua domanda, Willie risponde semplicemente “Dors”, Winnie non si concentra sul fatto che, affinché Willie prenda parte alla conversazione, è costretta ad eleggerlo come “next speaker”, non conferisce nemmeno rilevanza all’eloquenza della risposta monosillabica, le basta ottenere una reazione per poter rallegrarsi affermando: “oh le beau jour que ça va encore être”.

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Questa propensione all’ottimismo che, come è stato detto, non può essere ritenuta veritiera, non è naturale nemmeno per la protagonista che, in questo passaggio particolarmente significativo e tragico confida la motivazione di questa ricerca di felicità ad ogni costo:

[…] Non pas que je me fasse des illusions, tu n’entends pas grande chose, Willie, à Dieu ne plaise (Un temps.) Des jours peut-être où tu n’entends rien. (Un temps.) Mais d’autre où tu réponds. (Un temps.) De sorte que je peux me dire à chaque moment, même lorsque tu ne réponds pas et n’entends peut-être rien, Winnie, il est des moments où tu te fais entendre, tu ne parles pas toute seule tout à fait […] C’est qui me permet de continuer à parler.

In questo passaggio Winnie, ammette di essere consapevole della passività del marito che oltre a non essere sempre recettivo alle parole della consorte, si dimostra un interlocutore afasico, manifestando evidenti difficoltà nella formulazione delle frasi. Le uniche parole che proferisce sono termini isolati: “Oeufs”, “Formication”, “Dors”, “Sucé”; riesce ad articolare frasi intere solo quando esse appartengono ad altri, come dimostra non solo la lettura di titoli di giornale, ma – soprattutto – la definizione che dà di “porc”: “Cochon mâle châtré. […] Elevé aux fins d’abattage” che sembra imparata a memoria e tutt’altro che naturale. Winnie, a cui è lasciato il compito di interpretare queste affermazioni, decide sempre di conferire loro un valore comunicativo che non hanno, considerandole uno stimolo alla conversazione. Come nota Leblanc, infatti,“Willie n’est pas capable d’exprimer qu’une phrase qui ne lui appartient pas toujours […] Mais, en réalité, cet emprunt importe peu si la parole prononcée permet à Winnie de réanimer des souvenir”.343

Come si nota, quindi, per una conversazione non sono sufficienti solamente un mittente ed un destinatario, ma occorre che i messaggi espressi dai due partecipanti si susseguano in maniera sequenziale allo scopo di sviluppare un discorso coerente e coeso. In questo senso, si può parlare anche in questo caso di fallimento della comunicazione: i due interlocutori procedono seguendo due diversi flussi di pensiero che solo raramente si incontrano, come accade in Bérénice. D’altronde, come afferma Beckett in Proust: “non vi è comunicazione, perché non vi sono più mezzi di comunicazione”. Non solo fallisce la comunicazione verbale, ma anche quella emotiva: dopo che i due protagonisti si sono lasciati andare in uno scoppio di riso, Winnie prima confessa la sua contentezza per aver condiviso

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quel momento con il marito – un momento in cui i coniugi sembrano aver trovato una certa complicità – ma subito dopo afferma “ou nous sommes-nous laissés divertir par deux choses tout à fait différentes?” mettendo in dubbio che essi possano riuscire a capirsi.