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2. La tragedia seicentesca e Jean Racine

2.1 Le origini della tragedia seicentesca

2.1 LE ORIGINI DELLA TRAGEDIA SEICENTESCA

Il classicismo, identificato come una corrente artistica che si ispira all’antichità greco-latina, viene fatto risalire alla seconda metà del XVII secolo. Questo fenomeno artistico nacque a seguito di una disputa che vedeva contrapporsi da una parte teorie promotrici dell’estetica classica e dall’altra sostenitori di una sensibilità – quella barocca – alla ricerca di un’arte originale ed estrosa. Questa querelle des Anciens et des Modernes si concluse con il trionfo dell’armonia classicista favorito dall’Académie française: tutto ciò che non rientrava nei principi di quest’estetica era considerato “extravagant”33. Il classicismo, in effetti, era una corrente che obbediva a norme che gli autori individuavano come la ragion d’essere dell’estetica stessa.

Per quanto riguarda la tragedia, l’opera di riferimento fu la Poetica di Aristotele che venne riportata all’attenzione di intellettuali e letterati grazie alla traduzione latina di Giorgio Valla del XV secolo. La produzione letteraria dei secoli seguenti venne confrontata con questo testo che si proponeva di raccogliere le regole fondamentali del teatro classico. Tale raffronto determinò tanto la pubblicazione di drammi dedicati all’imitazione e alla riscrittura delle tragedie greche, quanto la fioritura di veri e propri testi critici e teorici sul classicismo. Roubine parla di “foisonnement exégétique”34

per indicare questa esplosione di teorie indirizzate a una conoscenza quasi scientifica dell’arte teatrale. In effetti, furono le opere critiche, prima del successo di alcuni autori, a determinare l’apprezzamento e la diffusione di questa estetica.

Le opere più celebri e influenti furono L’art poétique di Boileau nel 1674 e La

pratique du théâtre di D’Aubignac nel 1669, che fecero degli autori i maggiori interpreti delle

tendenze del secolo. Boileau riafferma i valori classici stabilendo un uso della parola chiaro ma elegante che eviti la bassesse35, poiché “le vers le mieux rempli, la plus noble pensée/ ne peut plaire à l’esprit, quand l’oreille est blessée”36. L’opera di D’Aubignac, pubblicata qualche anno prima, dà un’immagine più precisa della tragedia così come la vedevano i critici: l’autore si mostra intransigente a proposito del rispetto delle tre unità aristoteliche e condanna tutto ciò che appesantisce l’intreccio e affievolisce la tensione elogiando la ricerca della semplicità d’azione. Entrambe le opere sono di ispirazione aristotelica; poiché la Poetica

33 A. Adam, op. cit., p. 108.

34

J. Roubine, Introduction aux grandes théories du théâtre, Nathan, Paris, 2000, p. 5.

35

Boileau, op. cit., p. 49.

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era considerata come una sorta di manifesto della tragedia classica, ne vengono, infatti, riprese le idee principali come quella di mimesi, di vraisemblance o di catarsi.

Teorizzato inizialmente da Platone, il concetto di mimesi, che per Aristotele è alla base della tragedia, si riferisce sia a «quel che» dicono i poeti (piano del lógos e del mŷthos) che al «come» lo dicono (ambito del léxis, della forma espressiva e linguistica)37. Questa imitazione non riguarda tanto le cose della natura, quanto piuttosto il procedimento naturale. Come si vedrà, infatti, la realtà proposta dalla tragedia è una realtà idealizzata. Così, l’oggetto della mimesi non è l’uomo, ma piuttosto l’azione dell’uomo: “la tragedia […] è dunque imitazione di un’azione e soltanto a motivo di questa lo è anche di persone che agiscono”38

. Tra i sei elementi che compongono la tragedia – il racconto, i caratteri, l’elocuzione, il pensiero, lo spettacolo e la musica – “l’anima della tragedia”39 risiede proprio nel racconto, vale a dire nella composizione dell’azione che, come ripropone Boileau, deve svilupparsi in una successione lineare e cronologica con “un principio, (un) mezzo, (un) fine”40 e in modo da garantire ritmo e coesione. Inoltre le azioni riportate non riguardano soltanto ciò che è realmente accaduto, ma ciò che è possibile accada secondo i principi di verosimiglianza e necessità: “la Scène ne donne point les choses comme elles ont esté, mais comme elles devoient estre”41. In questa peculiarità risiede, secondo Aristotele, la differenza tra il lavoro dello storico e quello del poeta.

La vraisemblance non consiste nella rappresentazione del reale, ma in quella del possibile: ciò che ha più probabilità di accadere in conformità con le aspettative degli spettatori. Per questo motivo, il concetto è legato intimamente al gruppo sociale e all’epoca di riferimento, a ciò che oggi chiameremmo opinione comune. Come afferma Rapin: “le vraisemblable est tout ce qui est conforme à l’opinion publique”42. In effetti, vi sono alcuni elementi (come l’accumulazione di diversi eventi in poche ore) che per il pubblico dell’epoca non erano considerati inverosimili, ma che potrebbero essere ritenuti tali da altre correnti di pensiero. Sebbene – come accennato – il teatro in quanto ri-produzione mostri sempre qualcosa di fittizio – anche fosse una rappresentazione perfetta del reale –, il teatro classico aspira a creare l’illusione che finzione scenica e realtà coincidano:

37

Prefazione di Domenico Pesce in Aristotele, Poetica, Rusconi, Milano, 1981, p. 9.

38

Aristotele, op. cit., pp. 84-85.

39 Ivi.

40

Ibid., p. 87.

41

F. D’Aubignac, La pratique du théâtre, Slatkine Reprints, Génève, 1996, p. 68.

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Voir du théâtre est donc, littéralement, voir autre chose que ce qu’on voit hors du théâtre. Mais, dans le même temps, il faut que ces spécificités donnent au spectateur l’impression qu’il possède, de près ou de loin, une sorte de ressemblance avec elle. 43

È necessario, quindi, distinguere tra il concetto di verosimiglianza e quello di vero, poiché le due nozioni possono non corrispondere; “le vrai peut quelquefois n’être pas vraisemblable”44 e siccome “l’esprit n’est pas ému de ce qu’il ne croit pas”45, a essere favorito è sempre il verosimile, più credibile del vero. Come sottolinea Marie-Claude Hubert “l’art de la fiction dramatique (doit inventer) quelque chose de crédible”46

.

Questa ricerca di attendibilità non si trova solo nello sviluppo dell’azione, ma ovunque: nel ritratto dei personaggi, nella durata della rappresentazione o nel luogo della stessa. Per questo la verosimiglianza è fortemente connessa alle teorizzazioni delle celebri unità di tempo, di luogo e di spazio che favoriscono la realizzazione dell’illusione. L’unità d’azione sancisce che la mimesi riguardi un unico oggetto; come ricorda Boileau “qu’en un lieu, qu’en un jour, un seul fait accompli, tienne jusqu’à la fin le théâtre rempli”47. Aristotele la elaborò come segue, evidenziando l’esigenza di coesione:

(che) l’imitazione […] sia di un’azione sola e per di più tale da costruire un tutto concluso ed occorre che le parti dei fatti siano connesse assieme in modo tale che, se qualcuna se ne sposti, venga rotto il tutto48.

L’unità di tempo stabilisce, invece, che la durata della tragedia stia “il più possibile entro un solo giro del sole o (se ne allontani) di poco”49, evitando di protrarsi per un periodo più lungo di ventiquattro ore. La durata dell’azione rappresentata, cioè, deve avvicinarsi il più possibile alla durata dello spettacolo stesso. Una verosimiglianza rigida vorrebbe addirittura che le due durate coincidessero. Analogamente, l’unità di luogo impone che la rappresentazione avvenga in un unico spazio poiché non sarebbe credibile che in un solo spazio – il luogo della scena – si trovino siti diversi. Come spiega D’Aubignac, “le lieu où le premier acteur qui fait

43 C. Biet, C. Triau, Qu’est-ce que le théâtre, Gallimard, Paris, 2006, p. 63.

44

Boileau, op. cit., p.72.

45

Ivi.

46 M. Hubert, op. cit., p. 30.

47

Ivi.

48

Aristotele, op. cit., p. 91.

28

l’ouverture du théâtre est supposé être, doit être le même jusqu’à la fin de la pièce”50

. Quest’ultima unità non si trovava nella Poetica, ma venne teorizzata successivamente a partire dalle osservazioni aristoteliche delineate.

La mimesi alla quale aspira il teatro classico permette inoltre allo spettatore di identificarsi con il personaggio. Secondo Aristotele gli elementi che favoriscono l’empatia sono due: la tipologia del personaggio-eroe e la tipologia di rapporto che unisce i protagonisti. In particolare egli propone che non si mostrino “né uomini dabbene che passino dalla fortuna alla sfortuna […]; né uomini malvagi che passino dalla sfortuna alla fortuna”, ma persone che si trovino nel mezzo tra questi due estremi e che cadano in disgrazia “per qualche errore”51. È altresì importante che i protagonisti siano legati da relazioni di amicizia o di sangue in modo da rendere terribili il loro comportamento e gli effetti degli uni sugli altri.

Il processo di immedesimazione induce lo spettatore a provare sentimenti di terrore e pietà sui quali si fonda il senso stesso della tragedia, definita da Marie-Claude Hubert come “un genre littéraire régi par des lois strictes dans lesquelles interviennent nécessairement deux éléments, le dramatique et le pathétique”52. Il riconoscimento del personaggio come simile a noi induce il sentimento di pitié, mentre le azioni terribili che avvengono tra persone legate da un presunto affetto generano crainte. George R. Noyes riassume come segue:

the pity arises in us for the hero, who suffers a punishment which […] is out of all proportion to his guilt. The tragic fear […] comes from the vision of a moral order under which such retribution is possible, or perhaps inevitable53.

Lo sconvolgimento emotivo non è, però, totalmente negativo: attraverso quello che viene definito processo catartico, lo spettatore trova giovamento nella visione tragica. Nelle note di Racine in En marge à la poétique d’Aristote, leggiamo che

excitant la pitié et la terreur, (la tragédie) purge et tempère ces sortes des passions.

C’est-à-dire qu’en émouvant ces passions, elle leur ôte ce qu’elles ont d’excessif et de vicieux, et les ramène à un état modéré et conforme à la raison. 54

50 F. D’Aubignac, op. cit., p. 101.

51

Aristotele, op. cit., p. 101.

52

M. Hubert, op. cit., p. 32.

53 G. Noyes, “Aristotle and modern tragedy” in Modern Language Notes, Johns Hopkins University Press, 1898, p. 3.

54

C. Biet, C. Triau, op. cit., p. 522. Il corsivo è dell’autore e sottolinea le riflessioni di Racine rispetto alla Poetica di Aristotele.

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La catarsi, permettendo allo spettatore di rivivere emozioni intense, lo solleva dalle stesse rasserenandone l’animo.

Tuttavia, per attivare questo “meccanismo di liberazione che permette di tollerare e di liberarsi da un vissuto rischioso”55 non è sufficiente il processo di identificazione, ma risulta necessaria la mediazione propria del teatro, che si rifà al paradosso teatrale del quale si è già discusso. Il pubblico, se da una parte si avvicina alle passioni dei personaggi, dall’altra se ne distacca percependole come non appartenenti alla sua realtà. Riassumendo, la catarsi si verifica solo se la distanza tra la rappresentazione ed il pubblico viene garantita. Per favorire il sentimento di lontananza, gli autori classici come Racine mettono in scena avvenimenti accaduti nell’antichità. A fare eccezione, in questo caso, è Bajazet, dove però la distanza è garantita dall’allontanamento del luogo dell’azione in paesi arabi, in una cultura sentita come “altra” dal pubblico francese come l’autore stesso osserva nella prefazione.

Un ulteriore piedistallo della tragedia classica seicentesca è individuato dalla nozione di bienséances: si tratta di un principio che esclude dalla scena atti o rappresentazioni che possano turbare gli spettatori e offenderne il gusto e l’etica. Il termine, inaugurato intorno agli anni trenta del XVII secolo – momento di “crise de la conscience morale dans le théâtre”56 – individua una sorta di tacito accordo tra l’autore ed il pubblico in nome del buongusto e del decoro. D’Aubignac esemplifica il concetto facendo riferimento a rappresentazioni disdicevoli di re o nobili: “je crois que personne n’approuverait de faire aller et venir une princesse avec la même diligence qu’une esclave”57

, ma a scioccare il pubblico erano anche le messe in scena esplicite di atti violenti o amorali che “insanguinavano” la scena. Queste immagini erano semplicemente narrate: racconti e idee, infatti, non venivano considerati impropri. Come si vedrà, sono proprio questi récit insieme ai monologhi e agli aparté ad acquisire un ruolo prevalente sulla scena e funzionale allo svolgimento dell’intreccio.

Tutte queste teorie sul goût classique, formulate in parte da Aristotele e in parte dai critici del Seicento, permettono di comprendere la ragione per la quale dall’on stage del teatro classico vengano escluse le azioni più sensazionali e non si assista a nient’altro che ai dialoghi degli attori.

Inoltre, tali principi sono rilevanti per l’analisi di tragedie di un autore come Racine, il quale si distinse da altri drammaturghi proprio per la sua fedeltà alle regole dei generi che

55

A. Cascetta, op. cit., p. 10.

56

J. Scherer, op. cit., p. 384.

30

affrontò. Raymond Picard, nell’introduzione alla sua commedia Les plaideurs lo descrive così:

Racine historiographe, c’est l’Histoire Officielle faite homme; Racine auteur comique, c’est la Comédie personnifiée; Racine, auteur tragique, c’est la Tragédie elle-même58

.