• Non ci sono risultati.

4. Azione e inazione nelle drammaturgie di Racine e di Beckett

4.1 Azione come intreccio

Come si è detto, quindi, la tragedia è specchio dell’azione umana, così come dell’intera esistenza, e questo è un pilastro sul quale si fondano tanto la drammaturgia raciniana quanto quella beckettiana. Ma cosa s’intende esattamente per azione? Alain Viala distingue tra fable, che individua l’insieme di avvenimenti che “composent l’histoire dont on traite” e l’action che corrisponde “à ce que la pièce donne à voir sur scène”151

.

Il significato primo che si può attribuire a questo termine è, quindi, quello di trama, intreccio o fable. Quando Aristotele definisce l’azione dell’uomo come oggetto della tragedia, egli prende in considerazione due diverse accezioni del termine: l’azione dell’uomo “interna, che nell’uomo ormai formato rispecchia il carattere” e quella “esterna” in cui l’azione dell’uomo conduce ad un risultato “che solo in parte dipende da noi”.152

Quindi l’azione della tragedia rappresenta non solo ciò che l’uomo fa, ma anche ciò che all’uomo accade sia per quanto riguarda le proprie azioni, sia in riferimento ai sentimenti e alle passioni che, come detto, hanno un ruolo centrale nella drammaturgia raciniana. D’Aubignac, infatti, individua

149 A. Adam, op. cit., p. 264.

150

M. Foucré, op. cit., p. 65.

151

A. Viala, op. cit., p. 23.

73

tre elementi sui quali si può fondare l’intreccio: “sur une belle Passion” come in Bérénice, “sur une belle intrigue” come in Andromaque, “sur un Spectacle extraordinaire” come in

Iphigénie.

Aristotele definisce l’azione e il racconto come il fine stesso della tragedia, “ed il fine è di tutte le cose quella più importante”.153

Tra le sei componenti del dramma, l’azione (come racconto) è quella fondamentale, poiché è l’unica senza la quale non ci sarebbe la tragedia. Sembrerebbe, allora, che Beckett abbia voluto sfidare la necessità di questa prerogativa nella creazione di drammi senza ‘racconto’, sovvertendo, insieme alle unità di spazio e di tempo, anche quella di azione. L’impressione che si ha è che, se il sipario si aprisse in un altro giorno, un altro anno, si assisterebbe allo stesso spettacolo; per citare qualche esempio, Godot non arriverà mai e Clov non si allontanerà mai da Hamm. Eppure non si può affermare che le opere di Beckett non siano drammi. Il fondamento della tragedia allora va forse ricercato non tanto nello sviluppo di un’intrigue, bensì nell’azione principale – anche se questa non procede – che, in En attendant Godot, ad esempio, è l’attesa di Vladimir e di Estragon; così come nel concetto di “fine”, di scopo del dramma stesso che si rivela nella rappresentazione attraverso il supporto di linguaggio e movimento sulla scena. Inoltre, se per Aristotele “senza l’azione non ci sarebbe la tragedia, mentre senza i caratteri ci potrebbe essere”154

, in Beckett i caratteri, mancando lo sviluppo dell’azione, acquisiscono una rilevanza significativa nel loro “inagire” e nel loro “cianciare”. Dopo azione e caratteri la componente più rilevante è il pensiero che Aristotele definisce come “la capacità di dire quel che è inerente e conveniente al soggetto”155

e che è compito della retorica. In questo caso, pur nella sua insignificanza e spesso mancata inerenza, il pensiero nei drammi beckettiani assume particolare rilevanza.

Aristotele, inoltre, distingue tra racconti complessi e racconti semplici, definendo i primi come azioni in cui “il mutamento (dalla buona alla cattiva sorte) si ha con riconoscimento o peripezia o tutti e due” e i secondi come azioni che, nel loro svolgersi, mutano direzione senza peripezia e senza riconoscimento, dove la peripezia è intesa come lo stravolgimento dei fatti verso il loro contrario e il riconoscimento è, invece, il passaggio dall’ignoranza e alla conoscenza. Entrambi devono seguire il logico svolgimento delle azioni e non essere introdotti arbitrariamente, perché da essi dipende il passaggio dalla sfortuna alla

153 Ibid, p. 84. 154 Ivi. 155 Ibid., p. 85.

74

fortuna ed entrambi contribuiscono alla creazione di pietà e terrore, sentimenti finalizzati alla catarsi.

Il riconoscimento in particolare è riferito alle persone, quindi si può interpretare come la presa di coscienza di chi siano gli interlocutori realmente. In Britannicus, il riconoscimento avviene al termine dell’opera: mentre il pubblico è già a conoscenza del tradimento di Narcisse, i personaggi reputano le sue parole veritiere, e il suo comportamento ingannevole verrà palesato solo nel quinto atto. Peripezia e riconoscimento sono quindi parti della tragedia, insieme al “fatto orrendo”156, che è l’azione esatta che reca danno o dolore, come le morti dei protagonisti, ad esempio l’avvelenamento di Britannicus da parte di Néron. La peripezia può derivare, aggiunge Scherer, da due tipologie di ostacoli: quello interiore – se l’infelicità del personaggio deriva da un sentimento o da una passione (ad esempio in Phèdre) – e quello esteriore – se la volontà dell’eroe entra in conflitto con quella di altri personaggi o con una condizione che non può modificare (come in Britannicus).157

In Beckett non solo mancano peripezia e dénouement, ma anche il riconoscimento: i personaggi non sono riconoscibili, perché non sono del tutto categorizzabili, ogni personaggio potrebbe benissimo trovarsi al posto di un altro. Pozzo afferma riferendosi a Lucky: “Remarquez que j’aurais pu être à sa place et lui à la mienne. Si le hasard ne s’y était pas opposé”.

L’azione deve essere, altresì, unica; deve comprendere, cioè, solo gli sviluppi giudicati necessari alla progressione dell’azione principale. È proprio a questa idea d’azione a cui Racine si riferisce nella prefazione di Bérénice, quando afferma “il y avait longtemps que je voulais essayer si je pourrais faire une tragédie avec cette simplicité d’action”158

. Se nelle tragedie di Beckett – come accennato – è possibile, ad un primo sguardo, riscontrare una certa unicità d’azione intesa come un unico accadimento, nelle sue opere non è però rintracciabile lo sviluppo della stessa, quella progressione coerente e continua tanto cara ai classicisti. Come afferma D’Aubignac, infatti, l’azione “doit estre non seulement une, mais encore continuë”159, poiché

presque tous les Acteurs ont divers dessein, et (il faut que) tous les moiens qu’ils inventent pour les faire reüssir, s’embrassent, se choquent, et produisent des accidents

156Ibid., p. 98.

157

J. Scherer, op. cit., p. 63.

158

J. Racine, Bérénice, Larousse, Paris, 2006, p. 25.

75

imprévus: ce qui donne une merveilleuse satisfaction aux Spectateurs, une attente agréable, et un divertissement continuel.

I personaggi beckettiani non perseguono un destino singolo, ma diventano emblema di quel destino comune a tutto il genere umano; le loro vite sembrano prive di “accidents imprévus” che possano scuotere la loro esistenza. In En attendant Godot, Vladimir ed Estragon, sebbene in un primo momento ne sembrino incuriositi, in realtà non vengono turbati nemmeno dall’arrivo di Lucky e Pozzo che, come si nota nel secondo atto, non alterano la condizione iniziale, anzi, Estragon mette addirittura in dubbio che si siano mai incontrati. Essi vivono nella completa apatia, escludendo la possibilità di un’alternativa: “the events of the play appear tragic because the waiting of the characters indicates that there is no way out for them”.160

Lo sviluppo della trama che, passando attraverso la catastrofe e lo scioglimento, dovrebbe terminare con una risoluzione finale, è completamente assente nelle tragicommedie beckettiane, dove ciò che viene rimosso è soprattutto la conclusione della pièce: Clov se ne andrà dalla casa di Hamm? Beckett non offre una risposta a questa domanda, e l’interpretazione sembra essere a discrezione dello spettatore poiché il sipario cala con Clov ancora in scena, immobile. Sembra che manchi la volontà di agire, come suggerisce anche il celebre finale di En attendant Godot:

Vladimir: Alors, on y va? Estragon: Allons-y.

Ils ne bougent pas.

I personaggi sono come bloccati in scena.

In Racine, invece, l’ammonizione di Scherer secondo cui la pièce deve essere sviluppata in modo tale che la sorte dei personaggi principali “ne reste sans solution” è sempre rispettata. Particolarmente significativo è il caso di Britannicus, che non termina con la morte dell’eroe: all’uccisione di Britannicus seguono altre tre scene che l’autore dedica al racconto della sorte di tutti i personaggi principali, per ottenere “l’action complète”161

: il dolore di Burrhus, la fuga di Junie, la morte di Narcisse, il rimorso di Néron, i timori e le predizioni di Agrippine. D’altronde, nella prefazione della stessa opera, l’autore afferma “une

160

W. Iser, “Samuel Beckett Dramatic Language”, in Modern Drama 1966, p. 258.

76

action n’est point finie que l’on ne sache en quelle situation elle laisse”162

, perché, come afferma Corneille, “une action complète […] laisse l’esprit de l’auditeur dans la calme”163

.