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Inazione e predestinazione nel rapporto con Dio

6. Inazione e linguaggio: il caso di Bérénice di Racine e Oh les beaux jours di Beckett

6.2 Semplicità d’azione o inazione?

6.2.2 Inazione e predestinazione nel rapporto con Dio

In entrambe le opere è possibile vedere nello spazio dell’antichambre, il palcoscenico, lo spazio dell’attesa: qui i personaggi aspettano, infatti, che si compia il loro destino. In riferimento a Beckett, si è già trattato a lungo del sentimento fatalista che emerge dalle sue rappresentazioni, ma in Oh les beaux jours l’avvicinarsi della fine, è reso in maniera anche più esplicita da Winnie che, già all’inizio del dramma parla delle condizioni precarie del marito (“plus pour longtemps”) e, nel secondo atto, annuncia che al prossimo suono del campanello “[elle] pourra fermer les yeux, […] et ne plus les ouvrir”. I pensieri della protagonista, però, non sono orientati solo al termine della sua esistenza, ma anche al momento – ancora più tragico – in cui non potrà più parlare e dovrà “simplement regarder devant [soi], les lèvres rentrées”.

Inoltre Winnie ha un rapporto con Dio che distingue parzialmente quest’opera dalle altre tragicommedie: non appena risvegliata, pronuncia, infatti, per due volte delle parole confuse che conclude con due diversi finali di preghiera “Jésus-Christ Amen” e “Siècle des

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siècles Amen”, che richiamano evidentemente l’invocazione divina.306

Per Winnie non solo Dio esiste, ma tramite le sue richieste, egli agisce sull’uomo attenuandone le sofferenze. I dolori della protagonista, infatti, spariscono all’improvviso, esattamente come sono arrivati, per questo le “prières peut-être [ne sont] pas vaines”.

Il tempo stesso dell’attesa (e della vita) di Winnie si lega inesorabilmente a Dio: “le temps et à Dieu et à moi” afferma, come ad indicare che non è l’unica a disporre del suo tempo e identificando perfettamente Dio con il concetto di destino. Eppure questa fiducia si perde completamente al secondo atto: il cambiamento che ha subito Winnie l’ha condotta a riconsiderare il suo rapporto con Dio che, a questo punto, viene negato esattamente come avveniva nelle tragicommedie precedenti. In Oh les beaux jours, Beckett si immerge in una riflessione diversa sull’esistenza divina: anche se è ammesso credere che egli possa esistere, arriva sempre il momento in cui è necessario comprendere che quella fede è soltanto un’illusione. L’esistenza non può fare altro che peggiorare, rivelando la vanità delle preghiere e compromettendo la fiducia dei credenti. Winnie ribadisce questa considerazione come segue:

Je priais autrefois. (Un temps.) Je dis, je priais autrefois. (Un temps.) Oui, j’avoue. (Sourire.) Plus maintenant. (Sourire plus large.) Non non. (Fin du sourire. Un temps.) Autrefois…maintenant…comme c’est dur, pour l’esprit.

Il suo sorridere, insieme alle parole conclusive di questo passaggio, richiamano una concezione illusoria della fede: nel momento in cui si crede, infatti, lo spirito si riempie di speranza e di fiducia per il futuro, quando, però, queste aspettative vengono disattese, non solo svanisce la fede, ma anche la speranza di un miglioramento, per questo diventa “dur, pour l’esprit”.

In Bérénice, invece, il rapporto con gli dèi, considerati detentori del destino dei personaggi, non muta, anzi, si stringe: gli dèi, che perlopiù vengono invocati nei momenti di sofferenza, sembrano poter anche agire sugli accadimenti terreni. Paulin, preoccupato dell’esito che potrebbe avere il colloquio tra Titus e Bérénice, invoca gli dèi: “Grands dieux, sauvez sa gloire et l’honneur de l’Etat!”. Anche Antiochus si rivolge agli dèi sottolineando come il suo destino sia nelle loro mani: “Qu’ai-je donc fait, grands dieux? Quel cours

306

Si noti che nella didascalia del testo scritto, Beckett segnala che le parole confuse si riferiscono ad una preghiera: “prière inaudible”, mentre per comunicare quest’informazione al pubblico fa pronunciare a Winnie i due finali di preghiera citati.

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infortuné / à ma funeste vie aviez-vous destiné?”. Eppure, proprio come Winnie, anch’egli, vedendo disattese le sue speranze, muta il suo rapporto di fiducia con loro: “Dieuz cruels! De mes pleurs vous ne vous rirez plus”.

Tuttavia il destino dei personaggi è determinato fin dal principio: esattamente come nelle altre tragedie raciniane, essi sono chiamati a compiere il loro destino indipendentemente dalle volontà personali. Inoltre Titus e Bérénice, come avveniva per Néron in Britannicus furono personaggi reali dei quali si conosce la storia. Come Néron, quindi, il termine della rappresentazione riconduce i personaggi tragici a quelli autentici, restituendo alla storia le loro vite.

L’atteggiamento di Titus in particolare evidenzia questa visione del destino. Egli, infatti, intrattiene un rapporto ambivalente con esso, a seconda della situazione nella quale si trova a vivere. Egli si dichiara “maître de [s]on destin” al secondo atto quando, durante il colloquio con Paulin, è chiamato ad esprimere la sua volontà; al contrario, nella conversazione con Antiochus durante la quale richiede il suo intervento, egli risponde alle perplessità dell’interlocutore: “Telle est ma destinée”. Titus comprende che, in realtà, nulla può contro il suo destino infelice, indipendentemente dalla posizione che occupa; non può assecondare i suoi desideri perché non può cambiare la sua sorte. Titus cambia il suo atteggiamento rispetto alle sue responsabilità; per usare le parole di Sartre, egli passa dalla

bonne foi alla mouvaise foi. Queste osservazioni sono piuttosto rilevanti per comprendere

l’evoluzione del protagonista che, se in un primo momento si dimostra determinato e pronto ad adempiere al suo ruolo di imperatore, dopo l’incontro sciagurato con la regina dal quale fugge perché “[il] ne lui [peut] rien dire”, prende coscienza dei suoi limiti. Egli comprende che la realtà che è chiamato a vivere sfugge dal suo controllo come testimonia la costruzione della frase “il faut la quitter” che, escludendo il pronome personale “je”, estromette l’imperatore dalla decisione.

Riassumendo, Dio e gli dèi sono presenti in entrambe le drammaturgie come detentori del destino dei personaggi, eppure, se in Bérénice l’identificazione dèi-destino rimane immutata, in Oh les beaux jours, il secondo atto segna una distinzione tra i due concetti: Dio viene negato mentre il destino dell’uomo di perire rimane immutato. Inoltre, a differenza delle altre opere raciniane che, incentrate sull’universalità delle passioni, non rappresentavano una sorte altrettanto universale, in Bérénice i tre personaggi sono destinati tutti ad un’esistenza

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solitaria e piena di sofferenza, un destino comune che non si può combattere e dal quale è inutile cercare di fuggire.

Nell’evidenziare che la sofferenza e la solitudine sono prerogative della vita, l’autore esclude infatti la morte come via di fuga: l’unica possibilità è affrontare e rassegnarsi all’esistenza307

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In questo modo l’autore seicentesco precede la drammaturgia beckettiana nel suo porsi come rappresentazione dell’esistenza umana e interpretata come un espiamento dal peccato originale di essere nati308, che costringe ad una vita altrettanto colma di sofferenza e solitudine che emerge anche dall’impossibilità di comunicare. Inoltre, come Racine, Beckett nega l’eventualità del suicidio come un mezzo per porre fine alle sofferenze: la presenza della rivoltella vicino a Winnie, sul monticello è, sì, una presenza inquietante, ma il fatto che la protagonista non pensi neanche un attimo di utilizzarla indica che il suicidio non può essere contemplato come via di fuga. A sostenere questa interpretazione è anche il ricordo di Winnie sul come è entrata in possesso della pistola:

Winnie: […] Willie, (Un temps.) tu te rappelles l’époque où tu étais toujours à me bassiner pour que je te l’enlève. Enlève-moi ça, Winnie, enlève-moi ça, avant que je mette fin à mes souffrances. (Elle revient de face. Méprisante.) Tes souffrances! (Au

revolver.) Oh c’est une consolation, sans doute, te savoir là.

Allora l’affermazione di Marie-Claude Hubert nel saggio Lectures de Samuel Beckett “l’existence humaine ne serait-elle rien d’autre qu’un long et chimérique espoir qui va s’amenuiser”309

potrebbe applicarsi tanto all’una quanto all’altra opera teatrale. Beckett, però, rende più esplicita la volontà di riprodurre la comune sorte degli esseri umani attraverso i personaggi assurdi e simbolici messi in scena. Ad esempio, Winnie ricorda l’incontro con i signori Cooker e ripropone il dialogo che moglie e marito hanno in riferimento a lei in questo modo:

Winnie: […] ça signifie quoi? Dit-il – C’est censé signifier quoi? – et patati – et patata – toutes les bêtises – habituelles – tu m’entends ? dit-il – hélas, dit-elle – comment hélas? Dit-il – qu’est-ce que ça signifie hélas? Dit-il – qu’est-ce que ça signifie hélas? (Elle

s’arrête de limer, lève la tête, regarde devant elle.) Et toi ? dit-elle. Toi tu rimes à quoi, tu

es censé signifier quoi?

307

J. Dubosclard, Bérénice, Hatier, Paris, 1996, , p. 23.

308

S. Beckett, Proust, op. cit., p. 48.

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Come si può notare, sembra che questo dialogo alluda al fatto che, indipendentemente dalle nostre manifestazioni fisiche, siamo tutti ugualmente insignificanti di fronte alla fine. In effetti, la risposta della signora Cooker, suggerendo l’irrilevanza della condizione in cui si trova Winnie e incoraggiando al contrario un’identificazione con lei, svela in qualche modo il significato della protagonista di essere una stilizzazione simbolica dell’essere umano.