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4. Azione e inazione nelle drammaturgie di Racine e di Beckett

4.3 Inazione

4.3.3 Inazione, divinità e destino

Come già accennato, Aristotele dichiarò nella Poetica che l’oggetto della tragedia è costituito dalle azioni degli uomini; un’affermazione che, per quanto ovvia possa sembrare, si rivelò di portata rivoluzionaria, in quanto – come nota Domenico Pesce – egli sottraeva la tragedia a quel carattere religioso ed etico che le era appartenuto per lungo tempo, rendendola autonoma da questo punto di vista. In effetti, si ricorderà che la nascita della tragedia viene fatta risalire alle celebrazioni in onore di Dioniso, rappresentazioni nelle quali i protagonisti non erano uomini comuni, ma piuttosto dèi ed eroi e la grandezza delle passioni umane che si ritrovano in drammaturghi come Racine, erano poste in secondo piano rispetto alle “potenze soprannaturali che governano il mondo”196. L’affermazione aristotelica che pone l’azione dell’uomo come soggetto tragico presuppone che la volontà divina si riduca all’intervento della fortuna, del destino che determina la sorte dei personaggi e degli uomini in generale. Allo stesso modo Domenico Pesce fa notare che a decadere è anche il fine etico della tragedia: non si tratta più, infatti, di colpe e punizioni, ma di “uomini che cadono in sfortuna”. Non sempre, però, risulta così chiara la distinzione tra dèi e destino, tra colpa e sfortuna. Se si pensa, ad esempio, a Phèdre, la protagonista è “caduta dalla fortuna alla sfortuna” a causa dell’amore incestuoso per Hippolyte, ma a costringerla a questa vita infelice è stato il volere divino. Condannata a questa passione, Phèdre si sente colpevole e sarà questo sentimento a condurla alla morte; “quand sous un joug honteux à peine je respire / quand je me meurs”. Se da una parte il ruolo degli dèi viene effettivamente limitato e sminuito, la loro presenza è sempre percepibile, così come è percepibile l’allusione all’etica: a differenza di

Britannicus, dove il protagonista muore, colpevole solo di ingenuità, nel caso di Phèdre, la

vittima è colpevole, e questo permette di interpretare la sua morte come una sorta di punizione.

195

R. Oliva, Samuel Beckett: prima del silenzio, Mursia, Milano, 1967, p.50.

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Anche in Iphigénie è riscontrabile la medesima peculiarità: la protagonista, infatti, sembra costretta a sacrificarsi, perché così vuole l’oracolo degli dèi, come ricorda Agamemnon: “je condamnai les Dieux, et sans plus rien ouïr, / fis voeu sur leurs autels de leur désobeir”. Sia in Phèdre che in Iphigénie, quindi, il destino delle protagoniste è segnato dal volere divino. Anche Jacques Scherer, riferendosi ad Iphigénie, dramma nel quale a risolvere l’intreccio in modo accettabile e verosimile è – come accennato – l’introduzione di Eriphile, la vera vittima richiesta in sacrificio dagli dèi, nota come la dichiarazione di Calchas, nella quale viene rivelata la vera identità della vittima dell’oracolo, sembri essere più un’“inspiration divine”197

che un’intuizione personale. Egli è, infatti, descritto da Ulysse come “plain du Dieu qui l’agitait sans doute”.

Sebbene, però, gli dèi siano nominati, essi non intervengono mai direttamente; sono delle entità astratte la cui presenza è richiamata in riferimento alla loro responsabilità rispetto al destino di alcuni personaggi, ma che non si palesano mai, al pari di Godot, evocato attraverso i dialoghi, ma che non entrerà mai in scena.

Il teatro di Beckett, invece, è caratterizzato proprio dalla negazione di Dio; non c’è nessuna forza soprannaturale che possa dare un senso all’esistenza. In accordo con Nietzsche, Dio è morto, e con lui ogni speranza umana di avere uno scopo: infatti, se in Nietzsche la morte di Dio è interpretata come un evento positivo, che libera l’uomo e lo riscatta dalla sua posizione di sottomissione, rendendolo un superuomo, in Beckett non c’è nessun riscatto, ma solo passività e apatia nel protrarre inutilmente l’esistenza fino al momento atteso della fine. Prendendo in esame En attendant Godot, e interpretando Godot come Dio198, allora, l’opera può essere utilizzata come un chiaro esempio dell’inesistenza divina: al pari di Vladimir e Estragon, l’uomo attende la sua apparizione, un incontro, ma Dio non si paleserà mai. L’unico rapporto che si può costituire con lui è quello indiretto e mediato dai suoi messaggeri, ovvero i ragazzi che annunciano la sua non venuta, forse proprio perché non esiste, è un’illusione dell’uomo. È un’entità che non si conosce bene:

Estragon: Il s’appelle Godot? Vladimir: Je crois.

197

Ibid., p. 130.

198

Benché Beckett abbia scoraggiato questa lettura, si ritiene che possa essere, comunque, un’interpretazione plausibile.

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In Fin de partie, invece, Dio non è morto; Beckett accetta l’idea che esista, sostenendo, però, che il suo sguardo non è interessato agli uomini, che sono lasciati a loro stessi. Per diversi critici, infatti, la presenza del ragazzo al di fuori della casa-bunker di Hamm, è un’allusione a Dio: Clov sembra scorgerlo, ma i personaggi non sono certi della sua esistenza, inoltre il ragazzo non guarda verso quella casa, verso gli uomini, ma osserva il suo ombelico affermando simbolicamente completo disinteresse per la vita umana.

Hamm: Qu’est-ce qu’il regarde?

Clov: […] Son nombril. Enfin par là. (Un temps) Pourquoi tout cet interrogatoire? Hamm: Il peut-être mort.

Serpieri afferma che “la perdita di senso è legata alla perdita dello sguardo trascendente”, individuando l’inesorabile finitezza umana come insensatezza derivante dalla negazione di uno sguardo religioso sull’esistenza, e come causa prima della perdita di logicità in Beckett.

Se in Beckett è evidenziata l’esclusione della presenza di Dio nella vita umana, nella sua drammaturgia emerge, però, chiaramente il fatalismo e il destino, quel Destino che accomuna tutti gli uomini e che, in un certo senso, li condanna. Nei drammi di Beckett, cioè, l’ideologia di fondo è incentrata sull’esistenza umana, vista come una “dannazione dell’uomo che in quell’inane fluire sconta ‘il peccato originale ed eterno dell’essere nato’”.199 L’inazione in Beckett è strettamente connessa all’idea di morte come fine di tutte le cose; Foucré osserva che “le personnage s’y réfugie (dans l’inaction) lorsqu’il a constaté l’inutilité de ses efforts”. La vita diventa semplice attesa della fine, pertanto qualsiasi azione venga intrapresa diventa superflua e vana, perché essa si risolverà nella morte come fine e annullamento di tutta l’esistenza, come conferma l’intuizione della Cascetta all’interno della sua trattazione sull’umorismo beckettiano secondo la quale “gli sforzi dell’uomo sono risibili, se posti in relazione con la sua effettiva possibilità di salvarsi, di modificare alcunché della sua condizione”200

. Tuttavia, questa interpretazione è applicabile tanto a Beckett, quanto a Racine. Infatti, se è lecito ammettere che nelle tragedie raciniane si perde il senso sacro del tragico che si trovava nelle tragedie greche e che, come afferma Adam, l’eroe è un eroe moderno che lotta contro altri uomini e non contro gli dèi201, è necessario aggiungere che l’eroe all’interno di questo scontro con gli altri personaggi è costretto a confrontarsi anche con

199

A. Serpieri, op. cit., p. 733.

200

A. Cascetta, Il tragico e l’umorismo, cit., p. 12.

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il destino. Se in Beckett era interpretato come la sorte di tutti gli uomini, in Racine, il destino è soggettivo, interessando in modo differente i diversi personaggi. Bernardi e Susa dichiarano che “le azioni sono determinate non più dalla classica concezione di fato, ma dai loro stessi sentimenti e passioni di cui appaiono succubi”202. Inoltre, pur non emergendo in maniera esplicita, è possibile percepirlo come una presenza, che incombe sui personaggi: “violence is the leitmotif that runs throughout his plays”203 .

Rappresentando tragedie derivanti dalla mitologia o dall’antichità, infatti, nella maggior parte dei casi la conclusione della tragedia è ben nota agli spettatori che ne conoscono la trama, pertanto si percepisce sin dal principio il senso di morte e di sangue. Qualsiasi azione intraprenda l’eroe, qualsiasi decisione prendano gli altri personaggi, qualsiasi influenza gli uni abbiano sugli altri, è come se il destino fosse segnato; quindi, si innesta un forte senso di fatalità all’interno della rappresentazione tragica che, secondo Campbell rafforza il pathos: “events seem to be beyond the control of the participants. This is yet another factor which creates phatos”204

. Prendendo in esame Britannicus, si può notare non solo come sia definito il destino dell’eroe, che nonostante i tentativi di Junie di dissuaderlo dal partecipare al banchetto di Néron, vi si reca perché la sua sorte è quella predefinita di perire, vittima del fratello; ma anche quanto Néron sia predestinato a divenire il Néron storico. Infatti – come anticipato – egli è rappresentato come “un monstre naissant”, l’imperatore sembra poter ancora cambiare il suo destino rinunciando a Junie e all’uccisione di Britannicus, ma, alla fine, sedotto dalle parole di Narcisse, decreterà la sua sorte che, però, era conosciuta e prevista fin dall’inizio. Agrippine rivela le sorti future del figlio: “ta fureur s’irritant soi-même dans son cours / d’un sang toujours nouveau marquera tous tes jours”. D’altronde come afferma Racine nella prima prefazione “pour moi je croyais que le nom seul de Néron faisait entendre quelque chose de plus que cruel”205. A questo proposito, un esempio particolarmente emblematico si ritrova in Andromaque, dove Oreste sembra voler ricordare a Hermione la sua sorte così come la si ritrova nella mitologia; egli afferma: “Vous savez, Madame; et le destin d’Oreste / Est de venir sans cesse adorer vos attraits”.

Inoltre è interessante notare come in Racine la condotta degli antenati ricada sui successori, ponendo in primo piano l’importanza dei legami di sangue, tanto che Jean Rohou

202 Bernardi, C, Susa, C., op. cit., p. 211.

203

M. Reilly, Racine: Language, Power and Violence, Peter Lang, Oxford 2005, p. 65.

204

J. Campbell, op. cit., p. 30.

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individua come fattore fondamentale del comportamento di un personaggio come Néron, la sua “hérédité”206, cioè l’influenza e la maledizione del suo sangue; i crimini compiuti dalla madre e dai suoi antenati si ritorcono su di lui; è “le sang de mes aïeux” di cui parla Agrippine che afferma, inoltre, “il ne finisse ainsi qu’Auguste a commence”, rievocando il sanguinoso inizio del regno di Augusto e le cospirazioni atte a raggiungere il potere. Cherpack, nella sua analisi su “le cri du sang” in Racine, nota come il termine “‘blood’ in most languages also means by extension, consanguinity, family, or inheritance”207.

Se per Beckett, quest’idea di fatalismo deriva dalle esperienze belliche e storiche a cui il novecento lo ha sottoposto, per Racine è da riferire, almeno in parte, alla sua formazione giansenista che si fondava sul principio di predestinazione che, annullando il libero arbitrio dell’uomo, rendeva il suo agire alla ricerca della salvezza divina, vano. Come osserva Angela Moorjani, “the incomprehensible fatality of ancient myth and the predestination and hidden God of Jansenism are thought to reinforce each other in the tragic destinies of Racine’s protagonists”208

.

Tuttavia, qualsiasi siano le ragioni che spinsero i due autori a far emergere un certo fatalismo nelle loro opere, è innegabile che a questo proposito i due teatri mostrino caratteristiche comuni, come l’inutile tentativo di mutare la sorte e che, di conseguenza

Le temps de la tragédie est celui d’une suspension ultime faite de regret et d’illusion, parenthèse où l’individu, conscient de son impuissance à faire triompher le rêve, tente malgré tout une dernière fois de le transformer en realité.209

206

J. Rohou, L’évolution du tragique racinienne, Sedes, Paris 1991, p. 127.

207 C. Cherpack, The Call of Blood in French Classical Tragedy, Johns Hopkins Press, Baltimore, p. 9.

208

A. Moorjani, “Beckett’s Racinian Fictions: ‘Racine and the Modern Novel’ Revised”, in Samuel Beckett

Today/Aujourd’hui, 24, 2012, p. 50.

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5. LA PAROLA NEL LINGUAGGIO