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6. Inazione e linguaggio: il caso di Bérénice di Racine e Oh les beaux jours di Beckett

6.2 Semplicità d’azione o inazione?

6.2.3 L’inazione e il tempo dell’attesa

Anche il tema del tempo, che diventa in entrambe tempo dell’attesa del compimento del destino accomuna allora le due opere. Si è già discusso di come anche in altre tragedie raciniane il tempo talvolta si fermi nell’attesa di un avvenimento esterno, ma per Bérénice l’analisi è più complessa in quanto, non essendoci importanti accadimenti esterni, tutta la messa in scena sembra concentrarsi sull’attesa prima della decisione dell’imperatore, poi della presa di coscienza di Bérénice. Come nota Alain Viala, infatti, Bérénice è una parentesi temporale:

lorsque le rideau se lève, tout est déjà décidé et Titus a choisi de renvoyer Bérénice, reste à le lui annoncer: la tragédie s’installe dans cette parenthèse temporelle ouverte sur l’attente d’une parole.310

In effetti, sembra che i personaggi non facciano altro che rallentare il tempo per allontanare il momento della loro separazione facendo sì che il pubblico aspetti, insieme a loro, il fatidico e decisivo momento dell’incontro che interrompe il tempo dell’attesa e riattiva quello della

pièce. Come nota anche Dubosclard, il tempo di Titus e Bérénice è costituito da una

successione di incontri che non apportano nessun cambiamento, per questo è possibile parlare di immobilità e di stallo; “un temps illusoire qu’il leur faut mantenir coûte que coûte”311

perché il momento stesso in cui i personaggi decidono di non rimandare oltre ciò che per loro è inevitabile, determina la fine del loro amore, la fine della speranza di un eventuale cambiamento e, quindi, la conclusione della tragedia. Questa volontà di fermare il tempo all’interno della tragedia è segnalata anche da Alain Viala che afferma:

310

A. Viala, op. cit., p. 215.

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Le temps de la tragédie est celui d’une suspension ultime faite de regret et d’illusion, parenthèse où l’individu, conscient de son impuissance à faire triompher le rêve, tente malgré tout une dernière fois de le transformer en réalité.312

Se il tempo non è riempito da azioni fisiche, esso vede, però, un’evoluzione interiore dei personaggi che, mano a mano che procede la pièce, raggiungono gradualmente una maggiore consapevolezza che conduce alla scena conclusiva. In effetti, è necessario notare che il tempo non è solo attesa dei personaggi, ma anche attesa degli spettatori, desiderosi di rispondere agli interrogativi che emergono sin dall’inizio della messa in scena.

Dubosclard rivela come nel primo atto già affiorino dubbi riguardo al ruolo di Bérénice: nonostante inizialmente l’evento destinato a realizzarsi sia il matrimonio tra Titus e Bérénice, il fatto che quest’ultima sia eponimo della tragedia spinge il pubblico a chiedersi quale possa essere il suo ruolo drammatico. Anche Antiochus solleva interrogativi riguardo a questa situazione iniziale perché, sebbene si dica privo di speranze di coronare il suo amore, egli si mostra determinato a comunicarlo a Bérénice, e ciò lascia dubitare che abbia effettivamente qualche possibilità di sedurre l’amata. Si noti ad esempio quante condizioni si debbano realizzare affinché egli si decida a partire:

Antiochus: […] Si sa bouche s’accorde avec la voix publique, S’il est vrai qu’on l’élève au trône des César, Si Titus a parlé, s’il l’épouse, je pars.

Dubosclard fa notare come la sintassi utilizzata da Bérénice esprima anch’essa un’incertezza: nel parlare della sua imminente unione con Titus anche la protagonista utilizza, infatti, il discorso ipotetico

Bérénice: […] Si j’en crois ses serments redoublés mille fois, Il va sur tant d’Etats couronner Bérénice,

Pour joindre à plus de noms le nom d’impératrice.

Per di più, Titus deve ancora fare il suo ingresso in scena e, quindi, la sua posizione deve ancora essere svelata.

Eppure il tempo, anche dopo la dichiarazione di Titus, rimane in sospeso; si pensi all’intervento di Antiochus obbligato dall’imperatore a fargli da portavoce. La scena in questione si rivela completamente vana in quanto non fa procedere minimamente l’azione:

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Bérénice dichiara la sua impossibilità a credere alle parole dell’amico, ribadendo la sua posizione iniziale e immutata. Antiochus, allora, non ha che il ruolo ingrato “[de] reculer le moment crucial […] et de suspendre une action trop douloureuse pour Titus”313.

Se in Bérénice, il tempo è scandito da dialoghi che portano al compimento della separazione definitiva; in Oh les beaux jours, invece, ciò che Winnie attende è il campanello finale che indica il termine della giornata o, in una visione più ampia, la fine della vita e delle sofferenze, “le beau jour où la chair fond à tant de degrès et la nuit dure tant de centaines d’heures”. Beckett rende percepibile ed esplicito questa sospensione del tempo che si rivela attraverso le parole e le ripetizioni della protagonista; tutto nell’opera beckettiana lascia intendere che ciò a cui assistiamo sia già successo, e si ripeterà uguale314. Winnie fa notare più volte come “[il n’y a] pas de changement” nell’ispezionarsi la parte di corpo ancora mobile. Anche i gesti della protagonista sembrano ripetersi da sempre uguali a sé stessi:

Winnie: […] Me suis-je coiffée? (Un temps.) Je le fait peut-etre. (Un temps.) Normalement je le fais.

Inoltre il suo incoraggiarsi a procedere “doucement” nei suoi discorsi e nei suoi gesti per paura di terminare ciò che deve dire e fare prima del tempo, implica uno scorrere di esso molto lento, talmente lento che Winnie teme di non riuscire a riempirlo tutto. Il suo atteggiamento, richiamando azioni che avvengono sempre uguali, allude in parte alla metateatralità di cui è ricco il teatro di Beckett. L’affermazione di Winnie “oui, sans doute, hisser cet engin, c’est le moment”, se da una parte suggerisce che conosce perfettamente i movimenti che deve fare, dall’altra ammicca al pubblico alludendo alla sua recita e alla finzione teatrale.

Eppure il rapporto tanto dei protagonisti raciniani quanto di Winnie col tempo è ambiguo e contraddittorio: se l’impressione è quella di un tempo che viene sospeso, che non precede, in verità, avanza inesorabilmente portando Bérénice, Titus e Antiochus alla necessaria conclusione e producendo dei disastrosi cambiamenti per Winnie. D’altra parte il tempo deve procedere, perché la negazione di esso implica anche la negazione della morte – “la morte è morta in quanto il tempo è morto”315

– e questa è una visione che l’autore novecentesco non può accettare. Alain Viala scrive, in riferimento a Bérénice, “le temps de la

313

J. Dubosclard, op. cit., p. 21.

314

M. Hubert, Lecures de Samuel Beckett, op. cit., p. 11.

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tragédie est à la fois urgence et suspension”316

; se da una parte emerge la volontà dei protagonisti di allontanare il momento finale dell’addio, dall’altra essi caldeggiano l’arrivo della conclusione, come dimostrano le affermazioni di Titus “Ne tardons plus” e “Il en est temps” riferite al momento in cui lui dovrà confidare la decisione a Bérénice.

Anche Evelyne Leblanc avvalora l’ambiguità nei confronti del tempo nella sua analisi di Oh les beaux jours. L’autrice sostiene che se da una parte il tempo sembra non terminare mai, dall’altra esso sfugge dalle mani di Winnie: “tout semble identique et pourtant tout change”317. In particolare l’autrice considera il cambiamento che esso apporta a Winnie tra il primo e il secondo atto. Riferendosi alla teorizzazione di Lamarthes, afferma che la divisione stessa in due atti implica che durante l’entracte vi sia stato un cambiamento, che “quelque chose est nésessairement servenu dans l’intervalle”318

e, infatti, all’inizio del secondo atto, ritroviamo Winnie “enterrée jusqu’au cou”. Per questo le due pièce divergono in riferimento all’unità di tempo: se Racine rispetta i precetti aristotelici, Beckett, introducendo l’entracte, crea una divergenza temporale tra il primo ed il secondo atto.

In ultimo è da notare l’osservazione di Renato Oliva che, nella sua prefazione a Giorni

felici, vede nel “montarozzo” di terra proprio un simbolo del tempo e, riprendendo le parole

dell’Innomable scrive: “non passa […] perché si ammucchia tutto intorno a noi […] ci seppellisce grano per grano né vivi né morti”319

. Il tempo sembra non passare, eppure avanza e porta il soggetto verso il compimento del suo destino, come afferma Clov in apertura di Fin

de partie: “[…] ça va peut-être finir. (Un temps.) Les grains s’ajoutent aux grains, un à un, et

un jour, soudain, c’est un tas, un petit tas, l’impossible tas”. D’altronde, anche lo stesso timore di Winnie di non riuscire ad occupare con gesti e parole tutto il tempo di cui dispone, implica verosimilmente che vi sia un “écoulement temporel”320

. Lei stessa ammette: “[…] tout revient. (Un temps.) Tout? (Un temps.) Non, pas tout. (Sourire.) Non non. (Fin de

sourire.)”.

316

A. Viala, op. cit., p. 217.

317 E. Leblanc, op. cit., p. 11.

318

Ibid., p. 17.

319

Prefazione di S. Beckett, Giorni felici, Einaudi, Torino 1961, p. 7.

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