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5. La parola nel linguaggio drammatico di Racine e di Beckett

5.3 La parola come racconto e come commento

5.3.2 Il monologo, la tirade, l’a-parte

Utilizzando le parole di Ryngaert, allora si può dire che il dialogo “ha la funzione di fornire al lettore, e in seguito allo spettatore, informazioni su quel che accade, sullo sviluppo dell’intreccio”269

. A questo scambio di battute, quindi, soggiace anche la conferma che l’azione non procede in quanto il dialogo si ripropone sempre uguale. Infatti, come afferma la Restivo, in Beckett la ripetizione è dovuta al fatto che “il senso sfugge in continuazione e si “ripredica” nella differenza, mai presente hic et nunc, in un evitabile ‘pas encore’”270

.

5.3.2 IL MONOLOGO, LA TIRADE, L’A-PARTE

Il linguaggio utilizzato come commento a ciò che sta accadendo assume un’importanza fondamentale nel teatro classico, e in quello di Racine in particolare, poiché se la tragedia raciniana è la tragedia delle grandi passioni è proprio nei monologhi, così come nelle tirate, che emergono i dilemmi dei protagonisti. Lo stesso Aristotele parla, in effetti, del linguaggio come di un mezzo per procurare emozioni in quanto attraverso quest’uso della parola si sprigionano sentimenti di terrore e pietà che spingono il pubblico verso la catarsi.

Il monologo, definito da Bouchard come “une scène où un seul personnage a un grand

couplet à dire”271, è in effetti un discorso fatto da un personaggio a se stesso o, meglio, al pubblico. Si tratta di un “faire-comme-si”272

, durante il quale il parlante finge che non esista il “témoin indiscret en la personne du public”273

. È uno stratagemma tipicamente teatrale che non avviene correntemente nella vita quotidiana: “c’est la parole expressive par excellence

269

J. Ryngaert, op. cit., p. 88.

270 G. Restivo, Le soglie del postmoderno: Finale di partita, Mulino, Bologna, 1991, p.56.

271

A. Bouchard, op. cit., p. 172.

272

C. Kerbrat-Orecchioni, Pour une approche pragmatique du dialogue théâtral, cit., p. 49.

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qui ne s’adresse à aucun interlocuteur”274

, ma che non fa apparire folle colui che lo recita. D’altronde, “si je veux faire connaître au public la pensée secrète d’un personnage, laquelle ne regarde personne si ce n’est justement le spectateur, je ne dispose d’aucun moyen, en l’absence de tout narrateur […], que de le faire parler tout seul”275

. In effetti, sentendosi partecipe dell’interlocuzione, il pubblico passa dall’atteggiamento passivo mantenuto fino a quel momento nei confronti della rappresentazione, ad uno attivo. Tutto questo è vero soprattutto per il teatro di Racine, poiché in Beckett, attraverso la metateatralità, la finizione del monologo come discorso a se stessi viene in qualche modo svelata.

Nel teatro classico, il monologo è “une pensée verbalisée” che ritrae l’eroe in balia delle sue passioni e dei suoi dilemmi; per usare le parole di Scherer, si può parlare del monologo come di “espression lyrique d’un sentiment”276 nel quale si ritrovano le vere intenzioni e volontà del personaggio che apre il suo animo al pubblico. Il monologo è statico e fisso, nel senso che non riguarda lo svolgersi di un’azione, ma si concentra semplicemente sui sentimenti del parlante: “le personnage ne prend aucune décison mais vit intensément – et nous fait vivre – l’horreur de sa situation”277, è fine a se stesso, per questo Scherer parla di “lamentation stérile”. Inoltre, attraverso i monologhi – così come gli a-parte – gli spettatori vengono a conoscenza talvolta prima degli altri personaggi, delle intenzioni dei protagonisti. In questi casi, il monologo permette di creare una certa complicità con il pubblico in quanto “le public en sait de plus que chaque personnage n’en sait sur l’autre”.278

Consideriamo ora il monologo di Roxane in Bajazet (Appendice 3). È interessante notare come Racine lo introduca sottolineando la necessità della protagonista di rimanere sola. Questa scena, infatti, segue un dialogo tra Atalide e Roxane nel quale quest’ultima intuisce che Atalide e Bajazet siano innamorati l’uno dell’altro e che si stiano prendendo gioco di lei. Poiché per il principio di verosimiglianza il monologo deve essere giustificato e non sembrare un mero commento al pubblico, Racine lo rende inevitabile facendo emergere la necessità per Roxane di riflettere sui suoi presentimenti e decidere quale atteggiamento dovrà tenere nei confronti dell’amato Bajazet, la cui vita è nelle sue mani.

A concludere la scena precedente e introdurre il monologo è la seguente conversazione:

274

P. Lartomas, op. cit., p. 374.

275 Ibid., p. 54.

276

J. Scherer, op. cit., p. 246.

277

P. Larthomas, op. cit., p. 135.

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Roxane: Je vois qu’à l’excuser votre adresse est extrême. Vous parlez mieux pour lui qu’il ne parle lui-même. Atalide: Et quel autre intérêt…

Roxane: Madame c’est assez.

Je conçois vos raisons mieux que vous ne pensez. Laissez-moi. J’ai besoin d’un peu de solitude. Ce jour me jette aussi dans quelque inquiétude. J’ai, comme Bajazet, mon chagrin et mes soins, Et je veux un moment y penser sans témoins.

Tuttavia, come si è detto, il testimone esiste e si identifica con il pubblico, ma questa insistenza nel sottolineare la sua solitudine contribuisce ad evidenziare il ruolo dello spettatore all’interno del discorso. In questo monologo deliberativo, il dilemma, l’indecisione e lo sconforto della protagonista vengono evidenziati dalla successione intensa e quasi ossessiva di interrogativi ai quali lei stessa deve dare risposta, così come alle esclamazioni (“Bajazet interdit! Atalide étonné!”) che rivelano la sua sorpresa, la sua sofferenza. Dopo essersi interrogata sull’eventualità che i due amanti la stiano ingannando, Roxane invoca gli dèi (“ô ciel!”) come se si ritenesse vittima di una situazione che sfugge al suo potere nonostante i suoi sforzi, come sottolineato dalla sequenza di ciò che ha fatto per riuscire a guadagnarsi l’amore di Bajazet “mes brigues, mes complots, ma trahison fatale, / n’aurais-je tout tenté que pour un rivale?”. Poi la protagonista cambia atteggiamento e tenta di rasserenarsi, convincendosi che sia il troppo affetto per Bajazet a spingerla a simili conclusioni e che sia solo un “chagrin passeger”. Nell’ultima parte del monologo, però, l’incertezza si ripresenta esaltando il conflitto delle sue passioni: “si par quelque autre charme Atalide l’attire, / qu’importe qu’il nous doive et le sceptre et le jour?”. È un soliloquio dall’enunciazione patetica e che rivela un’importante presa di coscienza da parte della protagonista e un dilemma che appartiene a tutti gli esseri umani: dar adito alla ragione o al sentimento? Inoltre la riflessione di Roxane si rivela di grande importanza in quanto dalla sua decisione dipende lo sviluppo della pièce.

Simile al monologo è la tirade, che può essere definita come un lungo discorso pronunciato in scena davanti ad altri personaggi, senza che però nessuno di essi intervenga, pertanto è riferibile anche al récit, ma in questa sezione lo si vuole analizzare come uso della parola a commento dell’azione attraverso la quale, al pari del monologo, veniamo a conoscenza dei sentimenti dei personaggi. Poiché il monologo appare inverosimile se troppo

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frequente, è necessario che i personaggi abbiano un interlocutore che possa replicare a ciò che viene detto.

Vari sono gli esempi di tirata in Racine; i più significativi, però, sono forse la tirade di Phèdre (II,5) e quella di Agamemnon (IV, 8) in quanto sono tra quelle dove maggiormente emerge il dilemma e la sofferenza interiore causata dalle passioni. La tirata di Phèdre (Appendice 4), che inizia con un’esclamazione che raccoglie in pieno lo struggimento della protagonista, seguita dall’accusa ad Hippolyte per aver compreso i suoi sentimenti colpevoli, può essere divisa in due sezioni: nella prima Phèdre si auto accusa e spiega l’inevitabilità della sua passione, provocata dagli dèi; mentre, nella seconda, giustifica il suo comportamento nei confronti del figliastro che cerca di convincere ad ucciderla, terminando con l’ordine: “Donne”. In modo più evidente ancora di Roxane, quindi, Phèdre si sente vittima del volere divino, costretta ad una passione che giudica incestuosa e detestabile ma alla quale non si può sottrarre. La sua afflizione risiede soprattutto nella prima parte dove si vede una contrapposizione tra il verbo “aimer” e i termini “fureur” o “poison” che rivela lo struggimento che la sua passione le causa per poi palesare la consapevolezza della mostruosità della sua infatuazione, attraverso il pleonasmo nella frase “Ne pense pas qu’au moment que je t’aime, /Innocente à mes yeux je m’approuve moi-même”279

che sottolinea come tutto ricada sulla sua persona e quanto lei si senta dilaniata dai sensi di colpa. Niente può cambiare il volere divino; anche il tentativo di mascherare i suoi sentimenti si è rivelato vano, lo si intende dall’uso della domanda retorica seguita dalla contrapposizione nella risposta al verso seguente: “De quoi m’ont profité mes inutiles soins? / Tu me haïssais plus, je ne t’aimais pas moins”.

La tirata di Agamemnon (Appendice 5), invece, si avvicina maggiormente al monologo-soliloquio, in quanto non è inserita in un vero e proprio dialogo, ma introdotta solo da “Seigneur” pronunciato da un suo domestico. Come per il monologo di Roxane, anche questa tirata è caratterizzata da un susseguirsi di domande incentrate sul dilemma di Agamemnon relativo alla decisione delle sorti di Iphigénie che, infatti, apre la tirata con la domanda “que vais-je faire?”. Anche lui, come Phèdre si auto accusa definendosi un “père homicide”. Le interrogazioni vere e proprie sono inframmezzate, inoltre, da domande retoriche che esaltano il suo sconforto come “quels Dieux me seraient plus cruels que moi-même?” e che lo inducono alla decisione conclusiva di salvare la figlia: “qu’elle vive”. In

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entrambe le tirades è possibile scorgere tutta l’efficacia e l’impetuosità della parola che si fa portatrice di significati profondi: nell’esclamazione “Qu’elle vive.” di Agamemnon, così come nella constatazione “J’aime.” di Phèdre, ad esempio, risiede la gravità della situazione che i protagonisti cono costretti ad affrontare; in questo senso si può dire che il linguaggio in Racine porta il peso di tutta la tragicità dei drammi, rivelando gli struggimenti interiori.

Un ultimo uso del linguaggio a commento dell’azione e, forse, il più evidente è l’a-parte, che Bouchard definisce come “un monologue que l’auteur doit se dire à lui seul”280

, ma che in realtà è un vero e proprio commento che il personaggio fa rispetto alla conversazione in corso e che, in effetti, non deve essere udito da nessuno dei personaggi, una sorta di pensiero a voce alta. Secondo Scherer, l’a-parte rappresenta un momento di grande tensione all’interno del discorso, poiché l’intenzione del parlante è proprio quella di non far udire a nessuno il suo commento281.

Tra monologo, tirata e a-parte è quest’ultimo ad essere considerato il meno verosimile proprio perché non è del tutto credibile che un commento udito dal pubblico, non venga percepito dagli altri personaggi che si trovano ad una distanza minore dal locutore. Racine, per ovviare il problema dell’inverosimiglianza in Iphigénie, fa in modo che la protagonista si renda conto di un comportamento insolito del padre:

Agamennon: Grands Dieux! À son malheur dois-je la préparer? Iphigénie : Vous vous cachez, Seigneur, et semblez soupirer…

Oppure lo utilizza al termine di una scena, impedendo ogni eventuale replica come in

Britannicus, quando Narcisse decide di rivelare l’incontro tra Junie e Britannicus e commenta

poco prima di uscire di scena: “Ah Dieux! À l’empereur portons cette nouvelle.”

Anche in Beckett si ritrovano queste tipologie discorsive che vengono, però, sviluppate diversamente. Le principali differenze che si riscontrano sono relative alla progressione e all’organizzazione sintattica così come all’uso metateatrale della parola. Come nota Kerbrat-Orecchioni “le discours théâtral se caractérise en propre par le fait que semblant s’adresser à certains personnages, c’est en réalité au public qu’il est en première et dernière instance destiné”282

, ma se Racine ricerca dei mezzi per occultare questa caratteristica del discorso teatrale, Beckett la svela. Se da una parte ritroviamo in Beckett le influenze joyciane relative

280

A. Bouchard, op. cit., p. 21.

281

J. Scherer, op. cit., p. 261.

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al flusso di pensiero che, favorendo un uso della parola disarticolato, impediscono l’esposizione fluida e ipotattica, dall’altra l’autore novecentesco rivela tutta la finzione teatrale, rinunciando alla produzione di mimesis e verosimiglianza. Il caso più significativo è presente in Fin de partie, nel seguente dialogo:

Hamm: Alors que ça finisse! (Clov va vers l’escabeau. Avec violence.) Et que ça saute! (Clov monte sur l’escabeau, s’arrête, descend, cherche la lunette, la ramasse, remonte

sur l’escabeau, lève la lunette.) D’obscurité! Et moi? Est-ce qu’on m’a jamais pardonné,

à moi?

Clov (baissant la lunette se tournant vers Hamm.): Quoi? (Un temps) C’est pour moi que tu dis ça?

Hamm (avec colère.): Un aparté! Con! C’est la première fois que tu entends un aparté?

Hamm rivela ciò che stava facendo, perché Clov non ha finto, come accade nel teatro di Racine, di non aver udito le sue parole. Come si nota già da questo primo esempio, l’a-parte così come il monologo e la tirata esistono, ma vengono riproposti sovvertendo quello che era il loro ruolo nel teatro classico.

Come vedremo è sempre Hamm il personaggio al quale è dato il compito di rivelare al pubblico la finzione drammaturgica, ma se nell’a-parte la rivelazione interessa solo Clov, nel monologo e nella tirata, invece, sembra interpellare direttamente lo spettatore come testimone e destinatario ultimo di tutto ciò che avviene in scena.

In Fin de partie, Hamm inizia il suo monologo (Appendice 6) con l’affermazione “à moi” che rivela fin da subito la finzione teatrale, sottolinea l’inizio del suo intervento e concentra sul suo personaggio l’attenzione del pubblico. Al contrario dei monologhi raciniani, il monologo di Hamm non è incentrato su dilemmi e riflessioni inerenti alla sua condizione personale, ma, partendo da essa, le sue parole vanno oltre la figura del personaggio per riferirsi tanto agli spettatori quanto, più ampiamente, a tutto il genere umano. Se in Racine ad essere condivise da personaggi e spettatori sono le grandi passoni dell’animo umano, in Beckett, invece, è la condizione stessa dell’esistenza, interpretata nella sua visione più tragica, nella quale i personaggi spingono gli spettatori ad identificarsi, come conferma l’uso del pronome “on” che sostituisce il “je” raciniano e il registro basso utilizzato che lo pone alla stessa altezza del pubblico, in una posizione di parità rispetto ad esso: “Foutez-moi le camp” ordina Hamm. Inoltre, quando l’affermazione “la fin est dans le commencemet et cependant

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visione schopenhaueriana è indubbio che questa possa essere un’interpretazione dell’esistenza.

Come accennato, è necessario soffermarsi anche sulla sintassi del discorso che si rivela frammentata: Hamm salta da un discorso all’altro, alternando esclamazioni, ammonimenti, asserzioni in un’esposizione che richiama, appunto, il flusso di pensiero. La definizione di pensée verbalisée di cui parla Scherer in riferimento al teatro classico, acquisisce ancora più veridicità nei drammi beckettiani, all’interno dei quali è sottolineato dalla ripetitiva presenza di punti di sospensione e didascalie indicanti esitazioni e pause. Hamm addirittura sembra correggere la sua intonazione nella ripetizione di “aider” e “sauver” che diventano “aider!” e “sauver!”, mentre l’esclamazione relativa al cane “même pas un vrai chien!” interrompe clamorosamente il discorso, riportandolo ad una certa materialità.

Eppure questo monologo non perde il senso del tragico, anzi, è possibile percepire la tragicità del personaggio di Hamm in tutta la sua disillusione nell’affermazione resa ancora più drammatica dall’esitazione che segnala la falsità delle ripetizioni precedenti: “Ce sera la fin et je me demanderai ce qui a bien pu l’amener et je me demanderai ce qui a bien pu l’amener et je me demanderai ce qui a bien pu…(il hésite)…pourquoi elle a tant tardé”; così come nella ripetizione della domanda “et puis?” la cui risposta ultima che dà Hamm è “puis parler, vite, des mots” sottolineando la funzione della parola, in questo caso, come di una via di fuga dalla fine. Questi discorsi che sembrano non portare a nulla, non rivelare niente, diventano metafora della vita come attesa della vita stessa: “toute la vie on attend que ça vous fasse un vie”.

Anche nel monologo finale (Appendice 7), Hamm inizia evidenziando ancora più esplicitamente la finzione teatrale “à moi (un temps) de jouer”, battuta con cui inizia la sua ultima mossa, riprendendo la metafora del gioco degli scacchi su cui si fonda la pièce. Anche in questo caso è possibile notare la disarticolazione del discorso che vede un susseguirsi di verbi all’infinito utilizzati per descrivere le sue azioni sempre in attesa di qualcosa, è Hamm stesso a dircelo “On arrive. Encore quelques conneries comme ça et j’appelle.” Aspetta il momento opportuno per chiamare Clov che, non rispondendo, determina la fine definitiva, perlomeno della rappresentazione. Facendo ancora riferimento al doppio significato del termine francese jouer (giocare, recitare), Hamm commenta “jouons ça comme ça” e, poiché si sta giungendo al termine, è possibile smettere di occupar il tempo parlando: “ne parlons plus”. Da notare, in ultimo, è la frammentazione del discorso in cui i pensieri sembrano non

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avere nè inizio nè fine, ogni punto individua una frase a sé stante fino al termine della tirata annunciato da “ça suffit”.

Il monologo, che in queste prime opere rimane in secondo piano rispetto al dialogo, acquisterà in seguito un’importanza sempre più rilevante: in La dernière bande si assiste ad un dialogo-monologo tra il giovane e il vecchio Krapp che non comunicano se non attraverso un’alternanza di monologhi-soliloqui indirizzati e fini a se stessi, in Oh les beaux jours, Winnie parla attraverso un monologo inframmezzato raramente da vani interventi di Willie e, in Pas moi il secondo personaggio messo in scena non proferisce parola, ma reagisce a ciò che viene detto da Bocca muovendosi per sole tre volte.

L’episodio in cui, però, si nota un uso del linguaggio che richiama il flusso disordinato del pensiero è la tirata di Lucky (Appendice 8), obbligato da Pozzo a pensare. Questo discorso è particolarmente interessante perché è uno dei pochi esempi che ha una scarsa possibilità di essere interpretato se non come insieme, poiché la pronuncia disconnessa delle frasi, insieme alla completa mancanza di punteggiatura, impediscono la comprensione. Lucky parla come una macchina in tilt in procinto di esplodere, in modo disordinato e inintelligibile, come si nota soprattutto nel finale della tirata nella quale Lucky sembra aver perso completamente il controllo e la padronanza del discorso:

la tête la tête la tête en Normandie malgré le tennis les labeurs abandonnés inachevés plus grave les pierres bref je reprends hélas hélas abandonnés inachevés la tête la tête en Normandie malgré le tennis la tête hélas les pierres Conard Conard…[…] Tennis!...Les pierres!...Si calmes!...Conard!...Inachevés!.

Sebbene inizialmente esso sembri un discorso sulla questione religiosa, sull’apatia di Dio, presto si perde in una serie di pensieri che segnalano un momento di ispirazione del personaggio e sembrano parodiare il ragionamento intellettuale. Infatti Lucky fa riferimento a scritti e autori facendo ricorso anche a neologismi come “athambie” quasi a rivelare l’incomprensibilità degli scritti intellettuali e passando da argomentazioni religiose a temi metafisici o geografici senza un ordine sequenziale. Inoltre egli ricorre ad una particolare esuberanza verbale, proponendo allitterazioni (“mettrons à la fin le feu” o “recherches inachevées”), assonanze (“apathie”, “athambie”, “aphasie”), ripetizioni (“et calmes si calmes d’un calme”), eco (“établi tabli tabli”), giochi di parole (“l’homme contraire à l’opinion contraire”), l’accumulazione (“le tennis le football la course et à pied et à byciclette la natation l’équitation l’aviation”) per citarne solo alcune. Questa sua peculiarità insieme al

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fatto che Lucky venga obbligato a pensare come se questo fosse un riflesso condizionato, fa pensare ad una parodia della tirata classica, nella quale, in effetti, il protagonista si sofferma a riflettere sulla propria situazione. Una simile parodia è presente anche in un’altra tirata di Hamm della quale proponiamo un breve frammento, in cui si nota come egli si interroghi al