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5. La parola nel linguaggio drammatico di Racine e di Beckett

5.2 Il dialogo

Come si vedrà in questa sezione, il dialogo è molto più rilevante nel teatro dell’assurdo che non in quello classico. In Racine, infatti, lo scambio verbale segue le regole della conversazione attraverso un linguaggio chiaro e comprensibile. D’altronde Racine fu contemporaneo di Malherbe e delle sue teorie puriste; come nota Antoine Adam era necessario parlare secondo le regole riconosciute dalle autorità, la lingua doveva diventare strumento di perfezione.236 Poiché nel discorso teatrale non esistono narratori che possano dare delucidazioni sull’intreccio, il discorso doveva essere chiaro e consentire la comprensione.

Questo non avviene in Beckett, dove si ritrova un’“evidenziazione linguistica”, ovvero un uso inatteso della parola che stimola l’ascoltatore a prestare attenzione non soltanto al contenuto, ma anche alla forma. Il dialogo non procede in maniera fluida e chiara, ma viene

235

Ibid., p. 203.

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continuamente interrotto da pause, sviluppandosi senza seguire un filo logico e, quindi, senza portare a nulla; per questo si parla di distruzione del linguaggio. Ciò che si nota principalmente sono le risposte illogiche, gli elementi inaspettati, l’impossibilità di credere a ciò che viene detto e soprattutto il mancato rispetto delle regole della conversazione che lasciano lo spettatore in una situazione di incertezza.

Ciò che differenzia le due idee di teatro risiede proprio nella ricorrenza degli accidents

de langage237 che Larthomas suddivide a seconda che siano propri del locutore come la rettificazione, propri dell’ascoltatore come il malinteso e la mancata comprensione o propri del dialogo come il “dialogue mal enchaîné”. Ora, poiché si tratta – come detto – di dialoghi fittizi e non spontanei, è lecito dire che essi, oltre ad essere significativi, hanno sempre una funzione specifica: in Beckett la loro frequenza denota la rottura della fluidità, che produce un effetto comico-grottesco che vuole dimostrare la finitezza dell’uomo anche riguardo all’impossibilità di comunicare, mentre in Racine, les accidents de langage hanno una funzione spesso émouvante e sottolineano un momento di tensione. Come afferma Ubersfeld, nel teatro del novecento, il messaggio “non è tanto il discorso dei personaggi, quanto le condizioni di esercizio di questo discorso”238

.

Se si considera, ad esempio, l’interruzione linguistica, questa esiste in entrambi i teatri, ma è la modalità con la quale viene proposta che li fa divergere. In Racine, l’interruzione che arresta improvvisamente l’interlocutore, per non essere interpretata in modo offensivo, è spesso giustificata:

Phoenix: Seigneur…

Pyrrhus: Une autre fois je t’ouvrirai mon âme: Andromaque paraît. (Andromaque I, 4)

Oppure, più frequentemente, è utilizzata per accentuare il turbamento del parlante:

Oreste: […] Car enfin il vous hait; son âme ailleurs éprise N’a plus…

Hermione : Qui vous l’a dit, Seigneur, qu’il me méprise? Ses regards, ses discours vous l’ont-ils donc appris?

(Andromaque II,2)

237

P. Larthomas, op. cit., p. 228.

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In Beckett, invece, le interruzioni sono dovute ad incomprensioni o a richieste di chiarimenti anche banali che sottolineano la difficoltà di comprensione e, nel caso in cui venga bloccato l’intervento altrui, non vi è una modulazione che mitighi la brutalità dell’interruzione:

Vladimir: Tu auras peut-être des chaussettes un jour. Estragon: C’est vrai.

Vladimir: Alors tu les gardes?

Estragon: Assez parlé de ces chaussures. Vladimir: Oui, mais…

Estragon: Assez! (Silence). (En attendant Godot)

È da notare anche che in Racine l’essenza tragica è contenuta maggiormente nei monologhi piuttosto che nello scambio repentino di domande e risposte, eppure, anche i dialoghi possono essere sviluppati per accrescere il pathos pietoso tipico della tragedia classica. In particolare si avverte un aumento di tensione tragica nell’episodio quando il discorso si fa breve e l’alessandrino si suddivide in più parti, rivelando anche un aumento di velocità e di ritmo. Un esempio significativo è l’episodio di Iphigénie in cui Arcas – confidente di Agamemnon – rivela alla protagonista, a Clitennestra e ad Achille l’intenzione del padre di sacrificare Iphigénie (III, 5):

Arcas: Il l’attend à l’autel pour la sacrifier. Achille: Lui!

Clytemnestre: Sa fille!

Iphigénie: Mon père!

Eriphile: Oh Ciel! Quelle nouvelle!

Il ritmo della conversazione, infatti, varia a seconda del momento che i personaggi stanno vivendo.

Al contrario, in Beckett il dialogo nella maggior parte dei casi è composto da uno scambio di battute brevi e veloci. Una delle peculiarità è il completamento della frase da parte dell’interlocutore che, però, si rivela vano, in quanto non necessario per il parlante. Goffmann, parlando dello scambio verbale come interazione, afferma che “an addressed recipient can step in and help a slow speaker find the word or phrase he seems to be looking for”239

, sottolineando come spesso il dialogo si sviluppi come una cooperazione. Beckett propone a più riprese dialoghi di questo tipo in En attendant Godot, ma in questi scambi il

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locutore non è in cerca di un suggerimento e il dialogo rivela la sua inutilità attraverso una sorta di malinteso, una correzione non richiesta. Ecco un esempio:

Vladimir: Ça fait un bruit d’ailes. Estragon: De feuilles.

Vladimir: De sable. Estragon: De feuille. Silence.

Vladimir: Elles parlent toutes en même temps. Estragon : Chacun à part soi.

Silence.

Vladimir: Plutôt elles chuchotent. Estragon: Elles murmurent. Vladimir: Elles bruissent. Estragon: Elles murmurent.

Ovviamente non mancano i casi di malentendus veri e propri: Vladimir ordina ad Estragon di andare a controllare se Lucky è ferito, ma egli non si muove e alla domanda “qu’est-ce que tu attends?”, Estragon risponde “J’attends Godot”. Considerando il dialogo come una negoziazione di significato, questo esempio rientra in ciò che Kerbrat definisce un “non aboutissement de la négociation”240, o più precisamente in una “divergence d’interprétation”, “un décalage entre le sens encodé par le locuteur […] et le sens encodé par le récepterur”241

. Anche le “adjacency pairs” di cui parla Sacks come di una sequenza del turn-taking istituzionalizzata socialmente e convenzionale come le sequenze di saluto (ciao-ciao) o di ringraziamento (grazie-prego) non vengono rispettate. Si veda il seguente passaggio di En

attendant Godot:

Estragon: Alors, adieu. Pozzo: Adieu.

Vladimir: Adieu. Estragon: Adieu.

Silence. Personne ne bouge.

Vladimir: Adieu. Pozzo: Adieu. Estragon: Adieu.

Silence.

Pozzo: Et merci. Vladimir: Merci à vous. Pozzo: De rien.

Estragon: Mais si.

240

C. Kerbrat-Orecchioni, Le discours en interaction, Colin, Paris, 2005, p. 102.

110 Pozzo: Mais non.

Vladimir: Mais si. Estragon: Mais non.

Silence.

Pozzo: Je n’arrive pas…(il hésite)…à partir. Esragon: C’est la vie.

In questo passaggio, non solo emerge la difficoltà di agire e una parola a cui non segue l’azione attesa – come si è visto nella sezione precedente –, ma l’attenzione si concentra anche sugli scambi verbali che si prolungano più del dovuto producendo suspense e attesa. Solitamente, infatti, questi adjacency pairs si concludono attraverso una sola battuta per ogni interlocutore, mentre qui sembra che i personaggi non riescano ad andare oltre e perseverano nella ripetizione vacua.

Talvolta l’interlocutore non ascolta nemmeno, nonostante – ammette Sacks – questa sia un “intrinsic motivation” della conversazione o si rifiuta di dare una risposta benché il parlante lo elegga esplicitamente a “prossimo parlante”:

Hamm: Pardon. (Un temps. Plus fort.) J’ai dit Pardon. Clov: J’entends.

Come osserva Kerbrat-Orecchioni, l’atto di scusarsi prevede generalmente una risposta che comprenda per lo meno la “prise en compte”242

che può essere positiva o negativa, quindi di accettazione o di rifiuto e, eventualmente, una “minimisation de l’offense” proseguendo, ad esempio con asserzioni del tipo “ce n’est rien” o “y a pas de quoi”. In questo caso, invece, non solo manca una minimizzazione di solito utilizzata per salvaguardare quella che Levinson definisce faccia positiva dell’interlocutore243, ma Clov non dà segnali di aver preso in considerazione l’atto illocutorio di Hamm. Egli semplicemente comunica che l’ha sentito, ma solo dopo la ripetizione delle scuse. Anche Goffman fa presente che è necessario che “the addressed recipient […] make it known that the message has been correctly received”244

. A frantumarsi non è solo il dialogo, ma anche la frase stessa. Vladimir non comprende perché, nel caso si impiccassero, Estragon non possa farlo prima di lui, allora quest’ultimo formula così la spiegazione: “Gogo léger – branche pas casser – Gogo mort. Didi lourd – branche casser – Didi seul”. Paradossalmente, per rendere più chiaro il contenuto

242

C. Kerbrat-Orecchioni, Pour une approche pragmatique du dialogue théâtral, op. cit., p. 59.

243

C. Kerbrat-Orecchioni, Les actes de langage, cit., p. 72.

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dell’interlocuzione, Vladimir rinuncia alla sintassi formulando la frase attraverso parole chiave e l’uso dell’infinito come tempo verbale e, altrettanto paradossalmente, Vladimir trova la spiegazione chiara: “Je n’avais pas pensé à ça”.

Non rispettando le regole convenzionali del linguaggio e non proponendo uno sviluppo completamente logico dei dialoghi, ci si potrebbe chiedere, allora, quale sia la funzione della parola in Beckett. Sono i personaggi stessi ad indicarla; la parola è una parola “logorroica che riempie l’attesa”245

. Spesso i dialoghi stentano a riprendere come se i personaggi stessero cercando un argomento, uno qualsiasi, per intavolare un discorso altrettanto casuale e vacuo: l’importante è parlare e i personaggi sembrano essere soggetti ad una sorta di imperativo narrativo che li costringe a continuare (“nous sommes incapables de nous taire” afferma Estragon), anche quando non c’è più niente da dirsi, come evidenzia perfettamente la fine dell’Innomable dove si legge: “non posso continuare, continuerò”. Esslin suggerisce che in Beckett “his continued use of language must, paradoxically, be regarded as an attempt […] to communicate the incommunicable”246

.

Vladimir: Qu’est-ce que je disais… […]

Ah, oui, j’y suis, cette histoire de larrons. Tu t’en souvien ? Estragon: Non.

Vladimir: Tu veux que je te la raconte? Estragon: Non.

Vladimir: Ça passera le temps.

Parlano per non pensare, i cambi d’argomento della conversazione sono dovuti proprio al fatto che i personaggi temono il peso del silenzio, che si fa sinonimo della fine247:

Vladimir: On ne risquons plus de penser. […] Ce n’est pas le pire, de penser.

Estragon: Bien sûr, bien sûr, mais c’est déjà ça. […] C’est ça, posons-nous des questions. […]

Vladimir: D’où viennent tous ces cadavres?

Essi non hanno nulla da comunicare e i contenuti dei loro interventi si fanno talmente casuali da perdere ogni credibilità. Il linguaggio in Beckett diventa non-linguaggio, poiché esso non solo falsifica, ma è inattendibile; d’altronde, “per negare il linguaggio, è necessario il

245

A. Cascetta, Il tragico e l’umorismo, cit., p. 31.

246

M. Esslin, op. cit., p. 88.

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linguaggio”248

. A questo proposito Iser lo collega, facendoli convergere, alla realtà: “because the lack of purpose in their conduct, the contingency of language decides what is real for them at any particular moment […] Language and reality become identical”249

. Tutto ciò che dicono i personaggi viene smentito, lo spettatore-lettore non ha nessun punto di riferimento al quale aggrapparsi per cercare di trovare una certezza dalla quale partire per l’interpretazione della pièce. In En attendant Godot non si sa neppure che giorno è (“Et sommes-nous samedi? Ne serait-on pas plutôt dimanche?) e i personaggi non sono coerenti con ciò che affermano perdendo non solo attendibilità, ma anche un’identità; non è possibile nessuna caratterizzazione. Estragon, dopo aver fatto la domanda, dimostra di conoscere perfettamente la risposta:

Estragon: Et qu’a-t-il répondu? Vladimir: Qu’il verrait.

Estragon: Qu’il ne pouvait rien promettre. Vladimir: Qu’il lui fallait réfléchir. Estragon: A tête reposée.

Cascetta individua nello humour quella pars destruens che agisce sulla parola dalla conversazione banale al discorso sapiente e che fa dei termini delle “parole-idolo che velano più che svelare”250

. È uno humour che si rifà, come anticipato, agli spettacoli circensi, dove i personaggi sembrano non comprendere le leggi di logica elementare e, come nota anche D’Aubignac “pour le Théâtre, il n’a pas esté rien plus heureux que le Cirque”251

. Eppure esiste una differenza sostanziale tra i clown e i personaggi beckettiani: se i primi lasciano avvertire la stupidità e l’assurdità delle loro azioni, rendendo chiaro ed esplicito lo scopo del riso, in Beckett l’illogicità del dialogo viene presentata come del tutto normale, per questo si può parlare di grottesco, perché il principale scopo delle conversazioni non è il riso, ma la riflessione: il soffermarsi a riflettere sull’esperienza umana, sull’esistenza dell’uomo, il cui senso sfugge alla conoscenza. D’altra parte, però, è proprio attraverso questo uso dello humour che è possibile accettare la finitezza “sapendo che l’assoluto è altro e inafferrabile,

248 A. Serpieri, op. cit., p. 734.

249

Iser, W., op. cit., p. 256.

250

A. Cascetta, Il tragico e l’umorismo, cit., p. 12.

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non afferrabile con il linguaggio” 252. Grazie a questo “riso dianoetico” la sofferenza viene ridimensionata. È un riso amaro, come quello di Nagg e Nell che ricordano il tempo passato: la loro gioia è destinata a svanire nel rammarico dell’incidente. Beckett riproduce un mondo dove gioia e felicità non sono più possibili, questi sentimenti possono far parte solo del tempo passato, come vedremo anche in Oh les beaux jours.

Inoltre è lecito parlare di “distruzione” del dialogo, in quanto “discontinuities occur when, at some transition-relevance place, a current speaker has stopped, no speaker starts (or continues), and the ensuing space of non-talk constitutes itself as more than a gap- not a gap, but a lapse”253

. Come nota Cascetta anche le pause e i silenzi, quando non corrispondono alla sintassi, contribuiscono a “erodere la parola”. In Racine i silenzi sono i segreti che i protagonisti nascondono, mentre in Beckett si fanno molto più banalmente momenti di vuoto della parola. La conversazione è inframmezzata da temps e da silences che talvolta si estendono fino al limite della sopportazione rispetto ad una rappresentazione teatrale. Secondo Sarpieri “dopo ogni pausa le parole sono quelle, ma avrebbero potuto essere altre, […] o nessuna […] È silenzio nella parola”.254

La pausa segnala non solo l’esitazione o la riflessione tragica, ma anche “l’oltre del significato”; esse sembrano suggerire all’ascoltatore di prendersi un momento per riflettere su ciò che è stato detto, glielo concedono come a implicare che esista un significato altro rispetto a quello immediato.

Inoltre, Cascetta nota come in Fin de partie le pause si intensifichino mano a mano che ci si avvicina alla fine assecondando il “tentativo di rallentare l’inesorabile finale di partita”255

, una partita che, come si è detto è destinata ad essere persa e di cui il finale è evocato fin dalle prime battute della pièce: “fini, c’est fini” afferma Clov. Le pause sono presenti anche in Racine, ma con una frequenza più limitata in quanto vengono utilizzate, come afferma Larthomas, per mettere in risalto una parte importante della progressione drammatica o dell’evoluzione psicologica del personaggio256

.

L’assenza di parola implica l’incapacità di comunicare e di comprendersi; quando il silenzio si prolunga, subentrano smarrimento e sgomento. Durante questi momenti, come fa notare l’autore, lo spettatore ha due reazioni differenti in quanto, se da una parte viene

252

A. Cascetta, Il tragico e l’umorismo, cit., p. 12.

253

Sacks, H., “A Simplest Systematics for the Organization of Turn-Taking for Conversation”, in Language, 1974, vol. 50, p. 714.

254

A. Serpieri, op. cit., p. 752.

255

A. Cascetta, Il tragico e l’umorismo, cit., p. 97.

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sopraffatto da un momento che sembra eterno; dall’altra può condividere con i personaggi la durata reale di quel momento; reale rispetto ad altri momenti in cui la rappresentazione chiaramente non riflette lo scorrere del tempo reale ed effettivo. Più il silenzio si prolunga, più va oltre il sopportabile e maggiore sarà l’efficacia drammatica che si ottiene. Su questa mancanza di parola si concentra soprattutto la drammaturgia beckettiana, mentre in Racine si assiste ad una densità lessicale che, sebbene non detenga un significato implicito nel dialogo, risulta di grande rilevanza all’interno di tirate e monologhi, nelle quali la parola deve informare o commentare e che, quindi, deve rispettare le regole di informativité e exhaustivité.

5.3 LA PAROLA COME RACCONTO E COME