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comunicazione, giornalismo, mass-media

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Academic year: 2022

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comunicazione, giornalismo, mass-media 6

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Rossella Martina

C’era una volta un bambino

Luciano Pavarotti, Giulio Andreotti, Pupi Avati, Pippo Baudo, Paolo Bonolis, Giuliano Bugialli,

Manlio Cancogni, Margherita Hack, Marcello Lippi, Dacia Maraini, Iginio Straffi,

Ersilio Tonini, Sergio Zavoli raccontano la loro infanzia

prefazione di Giancarlo Mazzuca

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www.mauropagliai.it

© 2009EDIZIONIPOLISTAMPA

Via Livorno, 8/32 - 50142 Firenze Tel. 055 737871(15 linee)

info@polistampa.com - www.polistampa.com ISBN 978-88-564-0059-5

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Prefazione pag. 7

Introduzione » 9

Luciano Pavarotti » 17

Giulio Andreotti » 27

Pupi Avati » 33

Pippo Baudo » 43

Paolo Bonolis » 53

Giuliano Bugialli » 61

Manlio Cancogni » 69

Margherita Hack » 79

Marcello Lippi » 87

Dacia Maraini » 97

Iginio Straffi » 107

Ersilio Tonini » 117

Sergio Zavoli » 127

SOMMARIO

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Che cos’è che rende vivo un giornale, che lo anima, che trasforma un prodotto commerciale in qualcosa che ti appar- tiene nel profondo? Basta una raccolta, pur completa di notizie, spesso preconfezionate dalle agenzie, per fare un quotidiano? Io credo di no. Credo che, se i giornali sono ancora vivi nell’età di Internet, lo debbano a quei lampi di luce che li illuminano: squarci di storie, rivelazioni di vite che si intrecciano con le nostre, bagliori di umanità che sfidano la burocrazia dell’impaginazione, impercettibili sfumature che fanno grande un personaggio e che alla fine rendono il lettore un po’ più consapevole di se stesso, in comunione con lo spirito di un giornale.

Rossella Martina ha capacità di osservazione, il raro talento di porre delle domande a cui vale la pena rispon- dere, riesce a cogliere le dinamiche del cuore: per questo, quando dirigevo il Quotidiano Nazionale le affidai queste interviste, perché volevo che rendesse vive e calde le pagine del nostro giornale. Ritratti domestici di persone famose, entrate nelle nostre case, a volte nei nostri cuori, tramite la televisione, un libro, una canzone, una partita. Le loro splen- dide vite, la loro infanzia, le difficoltà superate, gli antichi affetti, ricordi dolci o dolorosi, le strane coincidenze sono registrate con leggerezza e partecipazione da Rossella, che in queste conversazioni è capace di restituire atmosfere, pro-

PREFAZIONE

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fumi del passato e qualche suggerimento per il futuro, ma tutto sottovoce.

L’autrice si è dimostrata molto brava perché, alla fine di ogni intervista, ci accorgiamo di essere entrati in sintonia, in una delicata e perfetta amicizia letteraria, con personaggi famosi che, con le loro storie, con le loro carriere, sono, altrimenti, per noi inavvicinabili. È proprio questo il filo comune che lega i protagonisti della galleria di ritratti, che sentiamo alla fine di conoscere intimamente, come cari com- pagni di scuola di un’infanzia mai dimenticata. E c’è anche una piccola morale nelle storie raccontate dalla Martina:

come dicevano i nostri nonni, il buon giorno si vede dal mattino, nel senso che, nelle piccole vicende e nei ricordi da bambini, di questi uomini e di queste donne, che poi sareb- bero diventati famosi, si possono già notare i segni distintivi del genio, la sensibilità non comune di persone destinate a un avvenire luminoso nella vita. Le pagine di Rossella sono quindi dense di contenuti e si leggono tutto d’un fiato, con un messaggio finale che è certamente di speranza nel futuro dell’Italia.

Giancarlo Mazzuca

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Il primo è lui, Luciano Pavarotti. Il Numero Uno. Perché era il Numero Uno e lo è ancora nei nostri cuori. Tutto in lui era Grande: la voce, il petto, l’umanità, la generosità. Ed è stato davvero il numero uno (nel senso il primo che ho incontrato) anche per la serie di interviste “C’era una volta un bambino” pubblicata sul Quotidiano Nazionale, Il Giorno, il Resto del Carlino, La Nazione, tra il 2005 e il 2007 di cui qui raccogliamo una prima parte. Era infatti il novembre 2005 quando andai a Modena per cominciare questa avventura – raccontare l’infanzia dei Numeri Uno dei diversi settori della vita italiana – a incontrare Luciano Pava- rotti. Da qualche settimana lamentava dolori alla schiena, non lo sapevamo ma erano i primi sintomi del male che lo avrebbe portato alla morte in meno di due anni.

Mi ricevette nel suo appartamento in città, nella grande sala dove, si poteva presumere, quando era a casa tra- scorreva l’intera giornata. C’era il pianoforte e quando arrivai stava giusto terminando una lezione di canto a un giovane che udii emettere un paio di gorgheggi timidi e sot- tili mentre lui, in piedi, colossale, lo sovrastava con la sua mole e con la sua potenza acustica. Immaginai la sogge- zione del ragazzo di fronte a quel gigante.

Dicevo che Pavarotti doveva trascorre in quella grande sala la maggior parte della sua giornata casalinga. Al centro

INTRODUZIONE

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della stanza c’era una piccola montagna di giocattoli, con molti rivoli qua e là composti da costruzioni, bambole, libri per bambini, cubi colorati, carillon, un’automobilina a pedali. Seduta per terra Alice, la bambina biondissima ed eterea che Pavarotti ha avuto da Nicoletta, anche lei seduta a terra accanto alla figlia a caccia di quell’unico gioco che era necessario in quel momento e che ovviamente non si trovava. Le due ‘ragazze’ erano però così silenziose da farsi notare. Appena Pavarotti fu libero e venne a sedere al tavolo dove io mi ero già accomodata, Nicoletta prese Alice in braccio e si allontanò con il sorriso di chi non vuol distur- bare. Sparirono e non le vidi più né le sentii per tutto il tempo dell’intervista.

Al tavolo con noi c’era un signore, anch’egli silenzioso ma del tutto a proprio agio ed era, mi disse il Maestro, un suo compagno di scuola, delle elementari addirittura, che, quando lui era a Modena, andava tutti i giorni a trovarlo per fare una partita a carte. Era ancora il suo miglior amico! Ecco che l’intervista sull’infanzia era cominciata ancora prima che io facessi domande…

In quelle due ore che rimasi con Luciano Pavarotti ad ascoltare il bambino che di sicuro in lui continuava a vivere felicemente, ebbi la conferma di quella che era già la mia convinzione: un uomo straordinario nella sua straordinaria normalità. Modesto come solo i grandi-grandi sanno esserlo, scherzoso, gentile, grato alla sua famiglia e al mondo per quanto gli era successo nella vita, non il solito

‘famoso’ pieno di sé, che ti guarda dall’alto in basso e che si concede alle tue domande solo perché è utile per lanciare l’ultimo disco o l’ultimo libro, ma ne farebbe a meno. Pava- rotti era genuino e questo è forse l’aggettivo che più si adatta alla sua vita, alla sua carriera, ai suoi sentimenti. Alla

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fine dell’intervista gli domandai, se avesse potuto espri- mere un desiderio, che cosa avrebbe chiesto e lui allargò le braccia indicando se stesso e mi disse: «Mi guardi, secondo lei cosa chiederei?». Voleva tanto dimagrire, come una grossa percentuale di noi comuni mortali.

Ingenuamente ero partita con la serie “C’era una volta un bambino” con l’idea che avrei ascoltato tutte bellissime storie, edificanti e commoventi come erano una volta le fiabe e Luciano Pavarotti non aveva fatto altro che con- fermare questa mia idea, probabilmente nata con la mia stessa infanzia che io ricordo come una continua fonte di gioia e di scoperte. Ma andando avanti con le interviste mi resi conto che non era affatto così. Come era ovvio che sapessi, l’infanzia non è necessariamente un paradiso, ci sono infanzie difficili, infanzie di sofferenza e di solitudine e non riguardano solo coloro che ipocritamente chia- miamo ‘i meno fortunati’.

L’altra cosa che ho scoperto andando avanti con l’in- chiesta, e che scoprirà chi leggerà questa prima tranche di interviste, è che è difficile mentire sulla propria infanzia. Si può mistificare sul presente, si può cambiare il passato recente, quello da adulti, ma non si può ‘inventare’ un’altra infanzia anche se quella che abbiamo avuto non ci piace o il ripensarla ci fa stare male. Tutt’al più si può tacere qual- cosa, ma la realtà, meglio, l’atmosfera che si è vissuta esce fuori con una forza che impressiona. Non farò esempi, non è necessario, basta cominciare a leggere.

Quello che invece vorrei aggiungere è che dalla lettura complessiva di questi racconti si evince, mi pare, che cia- scuno di noi ha in mano il proprio destino. Contraria- mente a quanto nell’ultimo mezzo secolo ci hanno fatto credere troppi improvvisati psicanalisti da salotto televi-

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sivo, non siamo segnati per sempre a seconda di che geni- tori abbiamo avuto, non è “tutta colpa di sua madre” o di suo padre, né, per ciò che facciamo o non facciamo da adulti, è tutto merito dei genitori. Ciò che conta più di ogni altra cosa per uscire per così dire indenni dall’in- fanzia, per raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissati – dopo aver valutato serenamente le nostre possibilità, i nostri talenti, le nostre ambizioni – è la volontà, la deter- minazione, oltre che la indispensabile dose di fortuna senza la quale nella vita non si comincia neanche.

Le storie di questi personaggi, tutti ‘di successo’ nei rispettivi campi, ci insegnano che sono arrivati là dove sono arrivati sia nel caso che abbiano avuto una infanzia molto lieta, sia che, al contrario, abbiano vissuto i primi anni della loro vita nell’incertezza e nella sofferenza. Può dunque essere la felicità a dare la spinta giusta, ma può essere anche, al contrario, il desiderio di riscattarsi, la voglia di cambiare, di rovesciare addirittura la propria sorte. In altre parole: dopo il fato, siamo noi a decidere.

Detto ciò, è forse utile sottolineare come queste espe- rienze personali, queste piccole storie, nel momento in cui vengono pubblicate si trasformano in frammenti di storia grande, di storia comune. È come guardare cartoline d’e- poca animate, fotografie che ci ricordano, evocano come era l’Italia e come erano gli italiani nei diversi decenni del Novecento, dalla prima guerra mondiale alla rivoluzione digitale, dai soldati in rotta da Caporetto alle Winx, pas- sando per il fascismo, le leggi razziali, un’altra lunga e ter- ribile guerra, e poi quella civile che ci ha dilaniati, la pace, la pace meravigliosa di cui godiamo da tanti anni e al tempo stesso la pace difficile, così a lungo avvelenata dagli odi intestini. E quindi la ripresa, il boom economico, l’im-

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presa, l’era della televisione, la musica, l’arte, il coraggio tutto italiano (o l’incoscienza) di resistere a noi stessi e ai nostri pasticci. Con la consapevolezza che intanto la vita va avanti, deve andare avanti, si nasce, si cresce, ci si sposa, si hanno figli. Si muore. Ma mai completamente.

Fatta eccezione per Pavarotti che ci ha lasciati, abbiamo scelto di inserire le interviste seguendo l’ordine alfabetico dei nomi. Non è stata la cosa più facile a farsi, la più scon- tata. Abbiamo tentato di trovare un ordine che non fosse l’alfabetico ma non ci siamo riusciti. Come avete visto fin dalla copertina gli intervistati sono tutti Numeri Uno nel loro campo e tentare di farne avanzare qualcuno sugli altri è impossibile, tanto più impossibile mettere ‘dietro’ uno rispetto all’altro.

Dunque dopo l’eccezione Pavarotti troviamo Giulio Andreotti. Fissare un appuntamento con lui non è stato facile perché, nonostante i novant’anni (li ha compiuti a gennaio), non ha un minuto libero e oltre agli impegni al Senato e in genere a Roma, schizza da una città all’altra per conferenze, convegni, premi e quanto altro. Allora, saputo che doveva intervenire a Firenze, l’ho contattato e poi mi sono insediata nel salone dell’albergo dove si teneva il convegno pensando volesse parlarmi durante un inter- vallo. Ma anche gli intervalli erano già occupati! Così, all’i- nizio del convegno, mi ha preso e mi ha portato con sé facendomi sedere in prima fila, proprio al centro della prima fila, accanto a lui. Da una parte sua moglie e dal- l’altra io. E come due monelli che parlano tra loro in classe invece di seguire la lezione – io così mi sentivo – Andreotti ed io abbiamo chiacchierato fitto fitto mentre illustri inter- venuti esponevano le loro tesi sui massimi sistemi di poli- tica e di economia, rivolgendosi non di rado a lui che tro-

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vava anche il modo di annuire rassicurante, mentre a me spiegava i segreti della ‘palletta’. È così che mi ha raccon- tato della sua infanzia. Quando il racconto si interrompe, be’, in quel momento Andreotti è stato chiamato sul palco per il suo intervento…

Pupi Avati l’ho incontrato nella sua casa di Roma. Molto timido, molto riservato. Ho avuto l’impressione che all’i- nizio della nostra conversazione avesse paura di dover consegnare i suoi più intimi ricordi ad una persona che poteva non essere in grado di maneggiarli con la dovuta cura – era la prima volta che ci incontravamo – poi pian piano è sembrato rassicurarsi e allora anche il racconto si è fatto più libero. E più sofferto.

Quando l’ho incontrato, il 13 agosto 2007, Paolo Bonolis stava vivendo un momento abbastanza critico: dopo gli enormi successi in Rai c’era stata una serie di programmi che non aveva funzionato per Mediaset, e la direzione e conduzione del suo secondo Sanremo, quello del 2009, era ancora solo un desiderio forse persino inespresso a se stesso.

Questo probabilmente spiega la tensione percepibile in certe risposte di Bonolis e dà un senso ad alcune sue affermazioni che evidentemente non hanno a che fare con l’infanzia ma piuttosto con il bisogno, in quel momento il più urgente, di sfogare una certa dose di rabbia e amarezza.

Con il nervoso, finto burbero, adorabile Manlio Canco- gni ho parlato guardando il mare infuriato dalla finestra della sua casa sul lungomare di Fiumetto, a Marina di Pie- trasanta; con Margherita Hack, un’entusiasta, seduta in mezzo a montagne di libri, a Trieste, in quello che doveva essere il salotto della sua casa, in realtà completamente tra- sformata, da lei e dal marito, in un unico grande studio.

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Il mio incontro con il cardinale Ersilio Tonini ve lo devo proprio raccontare con qualche riga di più. Sono andata a intervistarlo a Ravenna nel convento dove vive. Il mio mezzo era il treno, partenza da Firenze la mattina, appun- tamento alle 14, calcolo due ore di conversazione, fac- ciamo tre, prenoto un treno per il ritorno attorno alle 19 per essere sicura… ma non avevo calcolato la verve, l’e- nergia, la sapienza, il fascino del Nostro. Entro nel suo stu- dio alle 14 in punto e esco molte ore dopo, le 19 sono pas- sate, il treno è perduto, ci sono solo regionali e locali, arri- verò a Firenze nel cuore della notte, ma non importa.

Tonini mi ha incantato, mi ha ipnotizzato, mi ha parlato di storia, di filosofia, di teologia, di grano e di rose, di Dio e del mare… e naturalmente della sua splendida, ancorché povera (ma in che senso povera? perché mai povera?) infanzia.

Con Marcello Lippi ci siamo visti in Passeggiata, a Via- reggio, la ‘nostra’ passeggiata, se permettete, visto che anch’io, come lui, sono di Viareggio. Quel giorno il mare

‘portava via’ come diciamo con semplice evidenza in Ver- silia, lo sentivamo ululare durante la nostra chiacchierata e anche se non ce lo siamo detti lo so che a tutti e due ci sembrava bellissimo e bellissima era Viareggio deserta sferzata dalla tramontana.

E poi ricordo la commozione di Pippo Baudo nel rie- vocare i genitori, l’inquietudine retrospettiva di Giuliano Bugialli, la prodigiosa memoria di Dacia Maraini, l’entu- siasmo di Iginio Straffi.

Le interviste qui ripubblicate si concludono con Sergio Zavoli, un altro grandissimo, un altro Maestro, che ho avuto il piacere di incontrare a Roma, nel suo ufficio da Senatore da cui però siamo ben presto ‘scappati’ per

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andare a goderci le stradine e le piazze della capitale, in quei giorni più amabili che mai, riscaldate com’erano da un caldo sole di primavera. Ancora una volta mi sono tro- vata anch’io di nuovo bambina quando, come fossero figu- rine da scambiare, abbiamo scelto insieme le fotografie della sua infanzia seduti su un basso muretto nei pressi di Palazzo Madama.

Per concludere: è stata una bellissima esperienza pro- fessionale per la quale ringrazio la Poligrafici Editoriale, editore del Quotidiano Nazionale per il quale lavoro e il mio allora direttore Giancarlo Mazzuca (oggi deputato) che ha fortissimamente voluto e valorizzato questa serie di interviste. E altresì ringrazio l’editore Pagliai che oggi le ripropone in volume. Ovviamente un grandissimo grazie va a tutti coloro che mi hanno affidato i propri ricordi: a loro posso dire in tutta sincerità che ne ho avuto cura come fos- sero i miei.

r.m.

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LUCIANO PAVAROTTI

“La sera, finita la cena, la mamma ripuliva la cucina e poi mi apriva la brandina di ferro:

io dormivo lì, sul lettino pieghevole, in cucina.

Eppure… non mi mancava nulla”

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Luciano Pavarotti è nato a Modena il 12 ottobre 1935 ed è morto nella sua città il 6 settembre 2007. Questa intervista è stata fatta nel novembre 2005, poco prima che il male fatale che ha col- pito il Maestro si rivelasse in tutta la sua gravità.

Il debutto di Pavarotti come tenore, avvenuto a Reggio Emilia, risale al 29 aprile 1961 nel ruolo di Rodolfo in “Bohème” di Gia- como Puccini. Il grande successo internazionale iniziò già nel 1963 al Covent Garden di Londra dove sostituì Giuseppe Di Ste- fano ancora nel ruolo di Rodolfo. Da allora è stato un moltiplicarsi di successi sempre rinnovati oltre che dalla voce straordinaria del tenore, anche dalla sua capacità di inventare nuove forme di spet- tacolo capaci di coinvolgere un pubblico sempre maggiore.

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«Vivevamo in una casa popolare in via Bianco Ferrari 13 a Modena. Mamma Adele, papà Fernando ed io stavamo in un appartamento piccolo formato solo da cucina e camera.

La sera, finita la cena, la mamma ripuliva la cucina e poi mi apriva la brandina di ferro: io dormivo lì, sul lettino pie- ghevole, in cucina. Eppure… non mi mancava nulla».

Luciano Pavarotti ricorda con straordinaria vivezza la propria infanzia assolutamente felice – come ripete più volte – e ne parla volentieri seduto vicino al pianoforte mentre davanti a noi, sul tappeto del salone, la moglie Nicoletta e la piccola biondissima Alice giocano in mezzo a una montagna di giocattoli.

«I miei giocattoli – riflette il Maestro – erano il pallone prima di ogni altro, non avrei mai smesso di giocare al cal- cio, e poi la fionda, la carriolina con le ruote rudimentali per scapicollarci sulla strada, roba che costruivamo da soli noi ragazzi, come pure i mortaretti fatti col carburo.

Prima c’erano stati il meccano, i tappini delle bibite, il nascondino».

Aspetti, aspetti, Maestro. Cominciamo dal primo ricordo.

«Ero un bambino molto amato. Sopra di noi abitava la nonna che quando sono nato aveva solo quarant’anni – la mamma non ne aveva ancora venti – e poi la bisnonna, che

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ne aveva cinquantasette, e le due zie. Poi naturalmente c’era papà e anche il nonno, il più burbero. Quando sono nato io erano sei anni che in tutto il caseggiato – una quin- dicina di famiglie, almeno cinquanta persone – non nasceva un maschio. Sicché i miei primi ricordi sono tutti di sorrisi, tutte le donne, le mie per prime, naturalmente, venivano a vedermi, a portarmi regalucci, tutte mi cocco- lavano. Ero il beniamino di tutti. Ricordo molto bene que- sta sensazione di simpatia, di amore, di gioia di vivere.

Fino a otto, nove anni fu solo felicità e divertimento».

Quando lei aveva cinque anni nacque la secondoge- nita, sua sorella Gabriella. Ne fu geloso?

«No, affatto. Io mi sentivo già molto grande in con- fronto a lei. Stavo per andare a scuola, avevo gli amici, mi ero già innamorato due o tre volte…».

Di chi si era innamorato?

«Il primo innamoramento fu per la nonna. Come ho detto era giovanissima e io volevo sposarla e glielo dicevo tutti i giorni e lei si commuoveva e mi diceva in dialetto:

Ma cosa dici, piccolino, cosa dici? Vede, io mi chiamo Luciano proprio perché quindici giorni prima della mia nascita alla nonna era morta una figlia, Lucia, e allora ero diventato un po’ il sostituto di quella figlia perduta. Non c’era giorno che non la piangesse, povera nonna. Ma con me era sempre allegra e non si faceva mai vedere che pian- geva. Io però la vedevo tutti i giorni a una certa ora sparire in camera sua per un po’. E una volta che la porta rimase socchiusa la vidi… allora entrai e le chiesi perché piangeva e lei mi disse: Niente, è solo il raffreddore. Poi la mamma più tardi mi raccontò la verità su quelle lacrime».

Mi diceva di sua sorella Gabriella, che non ne fu geloso quando nacque.

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«No, mi sentivo grande, volevo proteggerla. Era bellis- sima, la bambina più bella che si sia mai vista. Una bam- bola. Ricordo che il giorno in cui nacque mi mandarono a dormire di sopra dalla nonna. Sentivo da su le chiacchiere delle comari e poi lo sbattere delle pentole – bollivano l’ac- qua – un correre di qua e di là e poi a un certo punto il vagito, un pianto che non era proprio pianto, ma solo un dire: eccomi, sono arrivata, ci sono anch’io. Era nata Gabriella. Ma per me non cambiò niente, non mi sono mai sentito trascurato per lei. Non fu certo quella la fine dell’infanzia».

Lo fu invece la guerra.

«Quella sì. Come dicevo fino a otto, nove anni non ricordo che divertimento. Ma con la guerra tutto cambiò e specialmente per i bambini. Ho visto degli impiccati a poca distanza da casa. Ho visto due fratelli, nel ’45, e quindi avevo dieci anni, uno era un partigiano e uno era repubblichino, li ho visti buttarsi uno addosso all’altro per ammazzarsi e ho visto la loro madre mettersi in mezzo a costo della vita e implorarli di buttare le armi. E per for- tuna la vita continuava lo stesso anche in mezzo a quel dolore. Ricordo le mie due zie innamorate, ma soprattutto ricordo i tanti uomini innamorati di loro che venivano la sera a corteggiarle e, ecco, delle zie ero un po’ geloso, non me ne piaceva nemmeno uno di quegli innamorati».

Di sua mamma Adele cosa ricorda in particolare?

«Era una donna molto energica sebbene fosse malata di cuore. Lavorava alla manifattura tabacchi, dalle otto la mattina alle quattro il pomeriggio. Andava e veniva con la bicicletta. Quando tornava io ero nel cortile a giocare a pal- lone con gli amici. Lei mi chiamava, desiderosa di vedermi, di avermi accanto, è naturale. E io avrei preferito rimanere

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a giocare perché si sa, i bambini sono anche egoisti e allora percepivo questa crudeltà: se restavo in cortile sentivo di deluderla e mi faceva stare male, ma se andavo, lo facevo di malavoglia e anche stare con lei in quel modo mi pareva una cattiveria nei suoi confronti. Poi però passava tutto in pochi minuti, anche perché aspettavo la mamma per fare i compiti».

A scuola come andava?

«Mi piacevano la matematica, la geometria, le scienze.

Invece in italiano… e allora la mamma mi faceva i temi e anche i disegni. Ricordo ancora una volta che sul qua- derno fece un asinello, ma le venne così bene che la mae- stra – la maestra Soffritti che passava per severa – ci scrisse sotto: Brava la mamma! e io ci rimasi malissimo per essere stato scoperto. Durante la guerra poi la maestra era sfollata e allora ci faceva lezione un professore d’università di matematica e fisica che mi fece amare ancora di più quelle materie. Io cercavo di insegnarle a Gabriella, a mia sorella.

È stata lei la mia prima allieva, in realtà, poverina, era un po’ la mia vittima. Ma era così buona che non si ribellava mai. Però ero sicuro che avrei fatto l’insegnante e non a caso poi scelsi le magistrali per diventare maestro».

Ma poi è proprio a quell’età, intorno ai dieci anni, che ha cominciato a cantare nel coro della chiesa e quindi a scoprire il suo più grande talento.

«Mio papà, che aveva una bella voce, mi aveva portato sempre con sé in chiesa. Però da piccolo io ero un argento vivo, non stavo mai fermo, ero troppo rompiscatole e infatti, appena fu più grandina Gabriella, papà preferì por- tare lei. Nel frattempo mi era venuta una bella voce da con- tralto e allora papà mi fece tornare al coro, ma stavolta senza correre qua e là, era diventata una cosa seria. E lo

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era soprattutto per me. Perché se a scuola non sono mai stato molto volenteroso, quando si trattò di cantare diven- tai uno stakanovista. E ancora di più dopo aver incon- trato Beniamino Gigli».

Quando successe?

«Avevo 12 anni. Seppi da papà che quel fenomeno sarebbe andato a fare quaranta minuti di vocalizzi presso il Coro Rossini e chiesi subito di poterlo incontrare. Per inciso: credo che Gigli sia il più grande vocalista di tutti i tempi, riusciva a fare qualsiasi cosa. Ricordo che quel giorno aveva un bel cappotto col bavero di volpe, gli anelli alle dita, i capelli tutti neri sebbene avesse già 57 anni. Mi feci ardito, lo avvicinai e domandai con la vocina bassa:

Maestro, io sono contralto, vorrei diventare tenore, pensa che potrò farcela? Certamente, rispose lui, bisogna stu- diare e studiare. E io: Ma lei quanto tempo ha studiato? E Gigli: Ho finito cinque minuti fa».

Che effetto le fece quella risposta?

«Ci rimasi bene e male al tempo stesso. Capii che sarebbe stata dura, ma allo stesso tempo che dipendeva da me. E diventai ancora più serio: già a quell’età delle volte rinunciavo a uscire con gli amici per paura di prendere freddo. In quel periodo entrai io stesso nel Coro Rossini dove già cantava papà e poi in seguito nel coro del teatro».

Ma continuò a giocare a pallone.

«Quello l’ho fatto finché ho potuto. Avevo molta energia fisica. Ricordo che ancora giovanotto con un mio zio face- vamo a chi arrivava prima in cima alle scale del casa- mento di via Bianco Ferrari dove c’erano centodieci scalini.

Davanti c’erano i prati, la campagna vera. Vivevamo giù nel cortile, d’estate anche la sera dopo cena. Gli adulti gioca-

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vano a carte sotto il lampione e noi ragazzi via a nascon- derci e a rincorrerci. In questo senso eravamo viziati. Non perché avessimo chissà cosa, tutt’altro. Ma perché ave- vamo la libertà, una libertà che oggi nessun bambino può più avere per tutti i motivi che sappiamo. Vicino a noi c’era una cascina, il contadino. Noi vedevamo i buoi che montavano le mucche, una volta ho aiutato a far nascere un vitello, gli ho legato le zampe e l’ho tirato fuori. Sem- brava tutto naturale».

Non aveva paura di niente?

«Oh sì, avevo le mie paure, per esempio dei serpenti, e ce l’ho ancora adesso. Ma da bambino mi facevano paura anche i ramarri, in genere gli anfibi. Però non avevo paura dei furetti, delle volpi, delle faine che pure da noi si vede- vano spesso grazie soprattutto alle galline del contadino».

Che cosa ricorda della cucina di casa?

«Per il pane, essendo mio padre fornaio, eravamo pri- vilegiati. Per il resto era una cucina abbastanza tradizio- nale, emiliana, anche se ovviamente con i limiti imposti dai tempi. Tagliatelle sì, ma carne una volta la settimana al massimo. Ci fu un periodo in cui probabilmente ero un po’

anemico perché mi davano da mangiare la carne di cavallo cotta nel limone o in padella. In seguito ho imparato ad amare i cavalli e adesso ne avrei orrore però devo ammet- tere che quella carne aveva un sapore eccellente».

Come tutti i sapori dell’infanzia.

«Sì, immagino di sì. Per esempio il piatto che ricordo come il più buono in assoluto è il riso con i fagioli che faceva la nonna. Un piatto che poi è sparito. E poi le lasa- gne migliori del mondo erano quelle che pretendeva il nonno: con strati enormi di ragù e di parmigiano».

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Com’era il Natale a casa Pavarotti?

«La cosa principale era reperire i mandarini per addob- bare l’albero. I mandarini erano la cosa più importante, in pratica non c’era altro. Ma a quei tempi era importantis- sima per i regali e le leccornie la Befana, l’Epifania. Sa che per anni ho mentito, ho finto di credere ancora alla Befana perché mi faceva piacere vedere i miei genitori che si impe- gnavano tanto per far cadere caramelle dal camino, farmi trovare i giochi in camera, tracce di Befana al mattino. Mi piaceva vederli così intenti a fingere per me, per farmi felice. E allora anche se non ci credevo più non lo dicevo, anzi, li convincevo del contrario».

Che cosa pensa di avere imparato da suo padre?

«La dignità, l’onestà, il non rompere le scatole agli altri se proprio non è indispensabile».

E dalla mamma?

«La sensibilità. E il gusto per le storie. Mi piace sentirle raccontare. Ancora oggi mi incanto quando Nicoletta legge le favole ad Alice».

Il ricordo più brutto dell’infanzia?

«Sempre a 12 anni, nel ’47. Mi ammalai di una specie di tetano. Mi salvò la prima penicillina arrivata in Europa.

Ma per quindici giorni sono stato in coma. Le donne pian- gevano e dicevano il rosario al mio capezzale. Credevano che non sentissi nulla e bisbigliavano: non arriva a domat- tina, gli hanno già dato due volte l’estrema unzione. Ma io invece sentivo tutto».

Ha rimpianti nei confronti dei suoi?

«Per fortuna ho avuto modo di restituire ai miei genitori tutto l’amore che mi hanno dato. Negli ultimi anni erano loro i figli e io il genitore. No, nei loro confronti non ho rimpianti. Anche oggi sono stato a trovare i miei morti. Li

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sento ancora molto vicini e la fede mi aiuta. Se ho rim- pianti riguardano invece i figli: il gemello di Alice che non ce l’ha fatta a venire al mondo e le mie figlie grandi perché non le ho viste crescere. Ero sempre via per lavoro e solo tardi mi sono reso conto di non aver saputo dare loro quello che invece era stato dato a me con tanta abbon- danza. Oggi ho più tempo, posso stare con Alice, vederla crescere, ma per Lorenza, Cristina e Giuliana è troppo tardi. Non basta chiedere scusa. E purtroppo tornare indie- tro non si può».

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GIULIO ANDREOTTI

“Sono nato e ho vissuto per diciotto anni a due passi da Montecitorio. Ma a dire il vero

non amavamo il Palazzo né i deputati

perché il loro riscaldamento

– noi in casa non l’avevamo –

spargeva pulviscolo su tutto il vicinato”

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Giulio Andreotti, senatore a vita, è nato a Roma il 14 gennaio 1919 e a partire dall’immediato dopoguerra ha dominato la scena politica italiana per oltre cinquant’anni: sette volte presidente del Consiglio, otto volte ministro della Difesa, cinque volte mini- stro degli Esteri, due volte delle Finanze, del Bilancio e dell’In- dustria, una volta ministro del Tesoro. Non è mai stato segreta- rio della Democrazia Cristiana. Questa intervista è stata fatta nel marzo 2006.

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«Il primo ricordo dell’infanzia che mi viene in mente corrisponde al primo giorno di scuola. Mia madre mi accompagnò fin sulla soglia della classe e come è ovvio mi lasciò lì. E io ebbi un senso di vertigine per non dire un vero e proprio svenimento. Furono costretti a riaccompa- gnarmi a casa». Il trauma della separazione dalla mamma adorata non colpisce solo i bambini di oggi, come dimostra il racconto del senatore a vita Giulio Andreotti.

E d’altra parte, senatore, le sue vertigini erano comprensibili: la mamma era tutta la sua famiglia visto che suo padre era morto quando lei aveva solo due anni.

«Sì, mio padre Filippo morì nel 1921: era tornato malato dal servizio di guerra e non ce la fece. Era maestro elementare e senza il suo stipendio non ce la passavamo troppo bene. La pensione di guerra che mia madre ottenne in seguito era ben poca cosa. Mia madre, che si chiamava Rosa Falasca ed era del 1890 – è morta nel ’76 – rimase con tre figli, io ero il più piccolo. Una zia, zia Mariannina, ci ospitò in casa, ma non c’era spazio per tutti e allora mio fratello Francesco, che era il più grande essendo del

’13, fu messo in orfanotrofio. Nell’orfanotrofio romano dei padri Somaschi di San Girolamo Emiliani. Ancora

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vive, ha 93 anni! Ma tornando ad allora, io e mia sorella restammo con la mamma. Soprattutto all’inizio rice- vemmo aiuti essenziali dal parroco di Santa Maria in Aquiro. La parrocchia era come una seconda famiglia per me e il parroco non mi ha aiutato soltanto nelle fac- cende pratiche, ma mi ha anche dato indirizzi impor- tanti per la mia vita».

Dunque il primo giorno di scuola… tornò a casa.

E poi?

«Mia madre mi accompagnò il giorno seguente e tutto andò liscio. Anzi, mi divertii. Scoprii che la scuola mi pia- ceva, soprattutto per merito della maestra, che era bravis- sima. Quando è stato cambiato l’insegnante unico nella scuola primaria a me è sembrato un errore. La maestra è come una vice-mamma, non può essere intercambiabile.

Per me la mia maestra, Orsola Bruscani, resta tuttora un mito, pensi quanto è stata importante!».

Nonostante le difficoltà di quel periodo non ha mai pensato di smettere di studiare?

«Ho potuto studiare grazie alla borsa di studio di orfano di guerra, inoltre lo studio era un modo per rispettare la memoria di mio padre che, come ho detto, era maestro.

Del resto mia mamma riuscì a crescerci cavandosela benis- simo con i pochi soldi che avevamo».

Però dopo la licenza liceale andò a lavorare.

«Sì, decisi di impiegarmi. Già mia madre aveva fatto troppo fino a quel momento. Il primo impiego è del 1937:

ero avventizio all’ufficio delle imposte, in particolare addetto all’imposta sui celibi – come sa, il fascismo, a par- tire dal 1927, istituì l’imposta sul celibato – ma contem- poraneamente mi ero iscritto all’università».

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A ben due università.

«Sì, in effetti mi iscrissi alla Lateranense per il Diritto Canonico e all’Università di Stato per la Giurisprudenza».

Presso quest’ultima si è laureato nel ’41 specializ- zandosi in seguito nel Diritto Canonico. E fu ancora nel 1937 che ebbe i primi contatti con la Fuci, la Federa- zione universitaria degli studenti cattolici.

«Sì, ero proprio una matricola quando per la prima volta partecipai, a Firenze, al congresso della Fuci…».

Di cui quattro anni dopo divenne presidente e dove poi conobbe Alcide De Gasperi. Ma torniamo all’in- fanzia. Che rapporto aveva con la fede da bambino?

«È sempre stata forte in me. Sono nato in una famiglia di osservanza cattolica tradizionale, spontanea, semplice.

Avere fede era naturale. Inoltre da bambino ero molto affa- scinato dalle celebrazioni liturgiche: la musica sacra, le processioni, le chiese romane bellissime. Crescendo, come ho detto, ho incontrato sacerdoti di grande spessore che non hanno fatto altro che rafforzare in me la fede. I miei amici più cari seguirono la vocazione religiosa. Io non lo feci solo perché non propenso al celibato».

Mi ha detto che suo fratello oggi ha 93 anni, invece sua sorella morì giovanissima.

«A diciotto anni, si era appena iscritta all’università.

Meningite. Era uscita con le amiche, aveva preso freddo e pioggia, pensavano al solito raffreddamento e anche quando si resero conto che si trattava d’altro non ci fu nulla da fare, a quei tempi i rimedi erano limitati. Dunque si ammalò e in cinque giorni la malattia la portò via.

Provavo per lei una grande tenerezza e la provo ancora oggi».

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Dove abitava durante l’infanzia?

«Sono nato e ho vissuto per diciotto anni a due passi da Montecitorio».

Un destino, il suo.

«A dire il vero non amavamo il Palazzo né i deputati perché il loro riscaldamento – noi in casa non l’avevamo – spargeva pulviscolo su tutto il vicinato».

Dove e a che cosa giocava?

«Roma era molto meno popolata di oggi e ovviamente le auto erano pochissime e quindi potevamo giocare a ‘pal- letta’ e cioè al calcio con una palla fatta di stracci tenuti insieme alla meglio da uno spago. E giocavamo per strada, pomeriggi interi. Anche se personalmente ero piuttosto una schiappa».

Quando è diventato tifoso romanista?

«A otto anni e cioè quando la squadra della Roma è stata fondata, nel 1927. I giocatori venivano a mangiare in una trattoria di piazza Firenze, sotto casa mia, e noi ragazzi correvamo a guardarli. E poi in quel rione tutti era- vamo romanisti. Andavo al Testaccio a vederli giocare».

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PUPI AVATI

“Ho perso mio padre che avevo dodici anni…

ancora oggi guardo in mezzo alla folla nella speranza di intravedere il suo viso.

Mi piacerebbe potergli dire:

papà, ho fatto questo”

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Pupi Avati è nato a Bologna il 3 novembre 1938. Dopo aver frequentato la facoltà di Scienze politiche s’impiega in una ditta di surgelati e nel tempo libero coltiva la passione del jazz come musicista dilettante e il sogno del cinema per il quale poi abban- donerà la musica, ma mai completamente. Il successo infatti arriva con lo sceneggiato televisivo Jazz Band (1978). Da quel momento è un susseguirsi di titoli indimenticabili, per la tv e soprattutto per il cinema, da Gita scolastica (1983) a Regalo di Natale (1986), da Il testimone dello sposo (1997) a Il cuore altrove (2003) e La seconda notte di nozze (2005) e fino al recente Il papà di Giovanna (2008). L’intervista è stata realizzata nel febbraio 2006.

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Pupi Avati. Innanzi tutto perché Pupi: è un nome, un soprannome, un vezzeggiativo?

«Il mio nome è Giuseppe ma sono sempre stato chia- mato Pupi. Mia madre aveva conosciuto un violinista austriaco che si chiamava Joseph ma veniva chiamato Pupi, le piaceva quel diminutivo e così da sempre mi ha chiamato Pupi. Sono sempre stato Pupi, per tutti, anche se fino a quindici, sedici anni mi vergognavo terribilmente di questo nick name».

Ci troviamo nell’appartamento del regista a Roma, in un salotto-studio in penombra dove da un luogo che pare irrintracciabile arriva un sottofondo mozartiano.

Maestro, qual è il luogo dei suoi ricordi di infanzia?

«La casa dove sono nato e dove ho vissuto per molti anni, in via San Vitale 51, proprio nel cuore di Bologna. Durante la guerra in casa erano tutti convinti che se avessero bombar- dato le due torri sarebbero crollate sopra casa nostra».

Lei è nato nel 1938: cosa ricorda della guerra?

«Molte cose, anche se sono cose diverse da quelle che può ricordare un adulto. Sono a volte dei flash, ma ricordo tutto il periodo bellico con molta nettezza. Tutte le fasi. Nel

’43 sfollammo a Sasso Marconi e dopo l’8 settembre mio padre e mio nonno furono costretti a nascondersi per sfug- gire ai rastrellamenti tedeschi. Ma io non provavo paura,

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per me era una grande avventura. Era come vivere in un film anche se allora probabilmente neppure sapevo cosa fosse un film. I grandi uscivano sull’aia di sera e guarda- vano disperati verso Bologna dove cadevano le bombe una dietro l’altra, per me invece erano bellissimi fuochi d’arti- ficio. E prima ancora, quando eravamo ancora a Bologna, ricordo le sirene d’allarme antiaereo e noi che correvamo a rifugiarci in cantina. Fu proprio mentre eravamo nel rifugio che morì zia Teta, era malata da tempo. Fu il primo morto che vidi. Finito l’allarme la riportammo in casa e da allora zia Teta è diventata l’archetipo della morte e del suo cerimoniale, la liturgia dell’esposizione in salotto, le can- dele, i cuscini di raso, la finestra aperta. E poi quel fazzo- letto intorno al viso per tenerle ferma la mandibola.

Ricordo che i miei fecero anche venire il barbiere perché negli ultimi tempi a zia Teta erano cresciuti dei pelacci sul viso e il barbiere doveva tagliarli».

Non ci saranno solo ricordi tristi in via San Vitale.

«No, in quella stessa casa ho conosciuto anche la vita, quando nacque mio fratello Antonio. Io avevo otto anni. Le nascite allora erano molto scenografiche: grande movi- mento di lenzuola, di pentole di acqua bollente, di donne che andavano e venivano, l’ostetrica, le zie, la nonna».

Qualche ‘comparsa’ della sua infanzia?

«Il sarto sordomuto che lavorava nel cortile sotto il nostro appartamento. Era un comunista anti-americano sfegatato, ma quando finalmente arrivarono gli Alleati corse in strada e si mise a baciare un carro armato che pas- sava di lì. Lo baciava come fosse una reliquia. Non tentava di comunicare con i soldati, baciava il carro armato, i cin- goli… aveva sperato che a liberarlo venissero i russi ma a quel punto andava bene chiunque. Ah, poi c’era la casa di

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tolleranza che vedevamo da una finestra sul retro della nostra casa. Aveva la porta chiodata e la tenutaria posse- deva due cani. Vedevo anche le prostitute che entravano e uscivano. E ricordo quando dopo la liberazione vennero rapate e portate fuori ed esposte al pubblico ludibrio. Pian- gevano, gridavano. Ma della liberazione ricordo anche la grande gioia che si impossessò di tutti. Ogni sera in ogni cortile si ballava. Con la radio o magari c’era qualcuno con la fisarmonica, talvolta addirittura l’orchestrina: e tutti ballavano, a tutte le età. C’erano poche e fievoli lampadine e la gente ballava col cappotto, ma ballava».

Passiamo ai ‘protagonisti’ della sua infanzia, i fami- liari: in casa sua si parlava di politica?

«I miei non erano stati né fascisti né anti-fascisti, come la maggior parte degli italiani si erano adattati alla situa- zione. Però c’era una diversità di origini, di classe, che accendeva molte discussioni. Mia madre era figlia di un operaio e di una contadina e il nonno era stato un sociali- sta molto legato a Matteotti. Mio padre invece apparteneva all’alta borghesia, da quel lato erano monarchici e quindi ricordo la domenica quando i due rami della famiglia si riunivano a pranzo e c’erano discussioni molto accese:

eravamo in pieno doncamillismo».

Come si sono conosciuti suo padre e sua madre?

«Il nonno Avati era un noto antiquario di Bologna. Mio padre, Angelo, era il figlio scioperato, molto bello, molto affascinante, elegante. La mamma era la dattilografa del nonno e come da copione si innamorò del bel rampollo e si mise in testa di conquistarlo. Successe che a metà degli anni Trenta il nonno fallì (giocava ai cavalli) e poco dopo morì, quindi la famiglia si trovò in difficoltà. Mio padre aveva sempre fatto la bella vita, non aveva mai seguito i

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negozi paterni e si trovò a dover mantenere se stesso, sua madre e due sorelle nubili. Forse non ce l’avrebbe fatta se non fosse stato per Ines, la giovane dattilografa che lo scosse: gli stava addosso perché si desse da fare, lo esor- tava. Insomma, la mamma restituì papà alla vita attiva. E lui seppe apprezzare l’energia e l’entusiasmo di quella ragazza e ricambiò il suo amore. Si sposarono e la sorte fu benigna perché in pochi anni papà, oltre a riavviare l’atti- vità antiquaria, riuscì a mettere insieme una delle più importanti collezioni italiane di pittori dell’Ottocento».

Ma quella gioia non durò a lungo.

«No. Nel 1950 mio padre morì in un incidente d’auto. Io avevo 12 anni. Con lui c’era anche la suocera e quindi mia madre perse nello stesso giorno la mamma e il marito.

Noi li aspettavamo a Rimini dove eravamo in vacanza.

Era il 10 agosto e l’incidente accadde a Santarcangelo di Romagna: la stessa data e lo stesso luogo dove fu ucciso il padre di Giovanni Pascoli. La cosa incredibile è che mia madre fin da piccola si metteva a piangere se sentiva certe poesie del Pascoli dedicate al padre – o cavallina, cavallina storna o una rondine tornava al suo nido – e noi per questo la prendevamo in giro, ridevamo di lei, e invece evidente- mente era una sorta di presagio».

E voi come veniste a sapere della disgrazia?

«Mia sorella quell’estate prendeva lezioni di latino e l’insegnante che veniva a casa quel giorno era strano, tur- bato. Era il fratello del comandante della polizia stradale e già sapeva… Ma non disse niente. Noi invece, vedendo che papà non arrivava, pensavamo che non ce l’avesse fatta a partire – non c’era telefono in quella casa – e che sarebbe arrivato il giorno dopo. Nella notte però la mamma sentì qualcuno camminare sulla ghiaia del giar-

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dino, avanti e indietro. Allora si affacciò alla finestra: era un amico di mio padre venuto a dare la notizia, ma non aveva il coraggio di suonare al nostro campanello. Ricordo l’urlo di mia madre, mi sembrò che d’improvviso tutte le luci della casa si accendessero con quell’urlo».

Come andò avanti la vostra vita?

«Dopo la morte di papà la mamma, che aveva solo 36 anni, decise di dedicarsi completamente ai suoi tre figli, sebbene molti le consigliassero di ‘rifarsi una vita’ o di

‘darci un papà’. Lei non ne voleva sapere, era molto reli- giosa e pensava che risposandosi ci avrebbe tolto qual- cosa. La ricordo come una donna piacente, molto forte, molto energica, strategica, acuta, perspicace. Ma era come se si sentisse in colpa perché non avevamo il papà e allora faceva di tutto per non farci mancare niente: non poteva accettare che la nostra vita potesse essere diversa da prima. E allora per mantenere il solito tenore… ogni set- timana staccavamo un quadro da quella collezione dei pittori dell’Ottocento a cui ho accennato e la mamma lo vendeva, credo con profitto, tuttavia la collezione con gli anni si è esaurita. Ma in questo sopravvivere alla grande, si è creata una complicità tra noi figli e nostra madre, che ci ha accompagnato fino a quando non se n’è andata, nel 1999. In questo senso siamo stati premiati dall’essere orfani di padre».

La mancanza di suo padre ha dunque permesso che si sviluppasse un legame speciale tra voi figli e vostra madre, tra lei e la sua mamma.

«È stata la figura centrale della mia esistenza e fino all’ultimo mi è stata di stimolo e di incoraggiamento. Al tempo in cui ero giovane la mentalità familiare era carat- terizzata da cautela, dalla ricerca della rassicurazione attra-

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verso l’identità professionale – il lavoro fisso, lo stipendio – in realtà si trattava di una gabbia, di un ergastolo. E infatti noi non abbiamo mai avuto questo genere di sollecitazione, mai. Mia madre non si è mai posta il problema, né l’ha posto a me, non si è preoccupata di cosa avrei fatto ‘da grande’. Ha lasciato che trovassi il mio talento dandomi piena libertà. E grazie al cinema sono riuscito a dimostrare a mia madre che l’investimento non era sbagliato. Non ho difficoltà a dire che avevo un innamoramento per mia madre: è la donna che ho amato di più, per quanto ami moltissimo mia figlia e mia moglie. Mia madre mi ha por- tato per mano per sessanta anni e ancora oggi quando devo prendere delle decisioni faccio riferimento a quello che mi avrebbe detto mia madre. Mi ha insegnato che c’è sempre una strada che è quella giusta».

Non ha avuto molto tempo per conoscere suo padre:

di lui che ricordo ha?

«Nei suoi confronti ho sempre sofferto di un complesso di inferiorità e a questo è dovuta tutta la mia timidezza:

risale a quegli anni. Mi sentivo inadeguato, non ero alla sua altezza, lui era troppo straordinariamente affascinante e io ero convinto di non piacergli, neppure esteticamente. Tra i suoi valori c’era l’aspetto fisico, c’era il lessico, il porta- mento, insomma l’esteriorità. Lui avrebbe sognato – penso – di vedere nel suo primogenito un erede di quello che era lui: bello, grande seduttore. Mia madre era gelosissima di lui perché lui piaceva e gli piaceva piacere. Io avvertivo il suo sguardo critico, non convinto, su di me, e allora la mia goffaggine si accentuava ancora di più. Alla fine in sua presenza risultavo peggiore di quello che ero. È stato un rapporto con molti problemi e tra noi non si è stabilita nes- suna confidenza».

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E oggi?

«Mi piacerebbe vedere mio padre tra la gente. Guardo spesso in mezzo alla folla nella speranza di intravedere il suo viso. Mi piacerebbe potergli dire: papà, ho fatto questo».

Molti di questi ricordi li abbiamo ‘visti’ o percepiti nei suoi film. L’infanzia, per il suo cinema, è una fonte importante da cui attingere.

«Fondamentale. Non direi che la fonte sono i ricordi di me bambino, piuttosto la fonte è il bambino che ho tenuto in vita. Ho fatto di tutto perché non sparisse… a volte il bambino attraversa la strada e sparisce in un vicolo e tu ti accorgi che non c’è più quando ormai è tardi. Io l’ho inse- guito ogni volta e l’ho riportato a casa e me lo tengo stretto, attaccato, perché l’infanzia e la prima adolescenza sono le età più prossime al grande immaginario da cui crescendo ci allontaniamo. Nel ragazzino, nel fanciullino – e siamo di nuovo a Pascoli – c’è la parte più libera di noi, quella più autentica e anche quella più vicina al mistero della vita, al luogo da cui proveniamo. Spesso quando mi vedo allo specchio penso che quello non sono io o forse sono io tra- vestito da vecchio».

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PIPPO BAUDO

“Il piatto preferito della mia infanzia era la caponatina di mamma, con le melanzane, i peperoni, le zucchine.

Mangiavamo in cucina, in quella che veniva chiamata sala da pranzo ma che era il tinello contiguo alla cucina,

insomma quello che noi di una certa età in qualche angolo della memoria

chiamiamo ancora il desco”

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Giuseppe Raimondo Vittorio Baudo è nato a Militello in Val di Catania il 7 giugno 1936. Laureato in Legge, già da studente comincia a frequentare il mondo dello spettacolo come attore e come presentatore, studia pianoforte e alla fine degli anni Cin- quanta entra come pianista e cantante nell’orchestra Moon Light con cui fa la sua prima apparizione televisiva nel 1959. Da allora non ha mai abbandonato il palcoscenico televisivo se non per bre- vissimi periodi. Ha condotto tutti i più importanti varietà della Rai, dal mitico Settevoci fino al recente Serata d’onore. Ha condotto per 13 volte il Festival di Sanremo. Questa intervista, inedita, è stata realizzata nel maggio 2006.

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Narra la leggenda televisiva che il giorno prima di lau- rearsi in Giurisprudenza, Giuseppe Baudo detto Pippo, si recò a Erice per presentare una serata dedicata a Miss Sicilia. Lo spettacolo terminò assai tardi e il giovanotto, privo di mezzo proprio, trovò un passaggio su un camion- cino che trasportava frutta e verdura. Riuscì persino a dormire in mezzo alle cassette di arance e zucchine, giun- gendo a Catania appena in tempo per recarsi all’università a discutere la tesi. Era il 1959, Pippo aveva dunque 23 anni essendo nato il 7 giugno 1936 a Militello in Val di Catania. Per sua fortuna al tempo non possedeva ancora giacche con i lustrini, e l’abito scuro da presentatore fece la sua figura anche davanti alla commissione di laurea.

Suo padre, l’avvocato Giovanni, che lo attendeva nel- l’androne della facoltà, quel mattino era comprensibil- mente un po’ in ansia anche se ormai da tempo sapeva che il suo unico figlio non aveva nessuna intenzione di eserci- tare la professione di famiglia. Anche le lacrime di mamma Enzia non era soltanto di gioia per il diploma appena otte- nuto. C’era, in quelle lacrime di commozione, pure un po’

di rimpianto: lei infatti avrebbe voluto – come ogni mamma al mondo – che il suo ragazzo diventasse dottore, nel senso di medico. Ma lui – strano giovane – aveva inten-

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zione di darsi allo spettacolo e anzi meditava addirittura di tentare la strada della televisione.

Fin da piccolo aveva avuto quella mania di cantare, bal- lare, suonare, organizzare spettacolini che conduceva per familiari e vicini in piedi sul tavolo di cucina. Ma i coniugi Baudo pensavano fosse una passione di fanciullo estro- verso, non certo l’esternarsi di un talento precoce né tan- tomeno i prodromi di quello che sarebbe divenuto il suo mestiere. Ma a partire dal ’56, da quando in casa era arri- vato quel nuovo elettrodomestico chiamato televisore, Pippo si era fatto sempre più determinato: voleva diventare come quell’americano dei quiz, quel Mike Bongiorno, e ancora di più voleva diventare come Mario Riva, il con- duttore del Musichiere.

«È vero – ci racconta Pippo Baudo subito dopo la mara- tona di Domenica In – i miei era un po’ sconcertati. Ero figlio unico e quindi tutta l’attenzione era concentrata su di me, ero molto responsabilizzato da questo punto di vista.

Per mio padre avvocato sembrava naturale che dovessi anch’io fare l’avvocato tanto più che studiavo Legge. La mamma invece sognava che diventassi medico.E quindi scegliere la carriera dello spettacolo non è stato sempli- cissimo sebbene i miei abbiano sempre rispettato le mie scelte. Ma anche se non me l’hanno fatto pesare, so di avere dato loro un dolore scegliendo un lavoro così lontano dalla loro realtà, così incerto come doveva sembrare ai loro occhi e come effettivamente era. Poi grazie al cielo le cose sono andate bene e io ho avuto la fortuna e il tempo di dare ai miei molte soddisfazioni e – non è un vanto, ma una semplice testimonianza – anche di essere molto gene- roso: sono stato così fortunato non solo da poter restituire quello che avevo avuto, ma anche da dare loro quello che

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non avevano mai avuto prima. In questo modo penso di averli ripagati anche per l’iniziale delusione sofferta».

Un rapido ritratto della sua famiglia così come la ricorda ai tempi della sua infanzia.

«Una famiglia borghese, la mamma una casalinga, mio padre molto aperto per essere un siciliano nato ai primi del Novecento: moderno, amava molto leggere e anche a me ha cercato di trasmettere l’importanza dello studio. Già in terza media ricordo che leggevamo insieme la storia della letteratura del De Sanctis che non ho mai più dimenti- cata. Mia madre era bellissima: alta, belle gambe. Mio padre se ne innamorò a prima vista e dopo un mese dal primo incontro erano già sposati. Lui era un gran signore, con baffi e occhiali, il classico avvocato, elegantissimo».

Lei è nato a Militello, in provincia di Catania. Fino a quando ci ha vissuto?

«Fino a 14 anni, poi ci siamo trasferiti a Catania in modo che io potessi proseguire gli studi al liceo classico e poi all’università. Però quello da Militello è stato un distacco graduale. In quinta ginnasio abitavo dalla zia a Catania e facevo molto il pendolare, poi però i miei deci- sero di venire loro stessi in città in modo da facilitarmi la vita. E credo che poi si sia rivelata una scelta buona anche per i miei perché mio padre a Catania ha potuto allargare i suoi affari, come avvocato ha avuto maggiori soddisfazioni».

Come era la casa dove abitava da piccolo?

«La casa di quando ero bambino, quella di Militello, la ricordo benissimo: era una casa a raggiera. Si entrava e a destra c’era la sala da pranzo con una grande dispensa dove tenevamo il pane e la cucina contigua, in pratica

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un’unica stanza divisa da un arco dove da una parte sta- vano i fornelli e dall’altra il tavolo e le sedie; a sinistra c’e- rano il salotto e lo studio di mio padre, in fondo la camera dei miei. Io non avevo una camera, fino a 14 anni ho dor- mito con i genitori!».

La sua stanza preferita?

«Quella che mi piaceva di più di quella casa era la lavan- deria, il piano di sopra dove si lavavano e si stendevano i panni. Era un luogo magico per giocare. Ci passavo interi pomeriggi. Ero un bambino libero».

Giocava da solo?

«No, avevo molti amici. Oltre alla lavanderia, tutto il paese era il nostro campo di gioco. Non c’erano pericoli, io e i miei amici potevamo correre ovunque, nasconderci, sparire per ore. Giocavamo a sottomuro, cioè a lanciare la monetina contro il muro e poi a pallone, spesso senza scarpe oppure con le scarpe vecchie che stavano strette per non rovinare quelle nuove. Certamente è stata un’in- fanzia molto spartana. Oggi verrebbe definita povera, ma non la sentivamo come tale. Oltre al calcio la nostra pas- sione era la bicicletta: ci dividevamo in coppiani e barta- liani, tifosi di Coppi e tifosi di Bartali, e facevamo corse a non finire da un capo all’altro del paese. Ricordo che andavo a letto molto presto e mi addormentavo imme- diatamente, sfinito».

E la scuola?

«Mio padre non volle mandarmi a scuola dalle suore sebbene quella fosse considerata una scuola migliore rispetto a quella pubblica. Voleva per me un’istruzione laica. Ero bravo quasi in tutte le materie, ero negato sol- tanto per la matematica».

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Il libro di quell’epoca che ricorda meglio?

«Il primo libro che ho letto o che almeno ricordo è stato Gulliver, sì, Le avventure di Gulliver della casa editrice La Scuola. Mi colpì perché io ero già più alto dei miei coeta- nei e allora quell’uomo gigantesco mi rimase impresso, in qualche modo sentivo di potermici identificare e poi c’e- rano i viaggi, le avventure, lo ricordo come un libro molto bello, su cui fantasticavo».

E il cibo?

«Del cibo ricordo soprattutto le grandi trovate di mia madre: riusciva ad usare tutti gli scarti e creava cose buo- nissime: soprattutto il pane non veniva mai buttato. Ricordo allora il pancotto, la zuppa… la carne la mangiavamo una volta al mese, la domenica al massimo c’era la trippa. Però il piatto preferito della mia infanzia era la caponatina di mamma, con le melanzane, i peperoni, le zucchine. Man- giavamo in cucina, in quella che veniva chiamata sala da pranzo ma che come ho detto era il tinello contiguo alla cucina, insomma quello che noi di una certa età in qualche angolo della memoria chiamiamo ancora il desco».

Come erano le feste?

«Ricordo soprattutto le feste del paese, la festa della Madonna e del Cristo e la festa di Carnevale. Da noi poi la Befana, la vecchia che porta i regali ai bambini, è per i Morti, ai primi di Novembre. Di quella festa ricordo la Pasta Reale, preziosissima fatta di mandorle e zucchero modellata in varie forme e colorata. Poi c’era la mostarda di vino, i fichi d’India, la frutta secca».

Prima della televisione che cosa facevate la sera?

«La sera, soprattutto il sabato e la domenica, i grandi gio- cavano a carte, a volte erano solo gli uomini, a volte invece venivano anche le vicine e allora giocava anche mia madre.

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Si riunivano ora in una casa ora in un’altra. Noi ragazzi, che eravamo stati fuori tutto il giorno, crollavamo a letto oppure facevamo i compiti che non avevamo fatto nel pomeriggio.

In estate invece c’era il rito delle visite, andavamo dai vicini, dalle zie. Per percorrere poche decine di metri ci impiega- vamo ore, ad ogni porta ci fermavano e gli adulti si scam- biavano convenevoli, sempre gli stessi… no, decisamente non c’erano ritmi televisivi durante quelle serate».

Quale indicherebbe come il momento più bello della sua infanzia?

«Il momento più bello della mia infanzia? È curioso, ma credo che si sia materializzato quando ero già adulto e anche assai ben avviato nella professione. È stato quando il paese di Militello mi ha insignito di una medaglia d’oro proprio a ragione della mia carriera. C’è stata una grande cerimonia con il sindaco e per i miei genitori e per zia Rosa è stata una grandissima commozione. In fondo l’avermi visto in televisione per loro non era così importante come vedermi omaggiato nel nostro piccolo paese. Credo che a loro sembrasse una cosa più vera, più reale, e poi c’erano tutti quelli che ci conoscevano, non era il successo ano- nimo della tv, era quello concreto perché riconosciuto dai vicini e dai parenti. I miei erano così felici che anche per me è diventato un momento di grandissima emozione e, sì, mi sono sentito un po’ come se fossi tornato indietro negli anni, come quando ricevevo le lodi da ragazzino che tanto mi inorgoglivano».

Zia Rosa: per lei è stata una figura molto importante.

«Sì, zia Rosa è donna Rosa, proprio quella a cui poi ho dedicato la canzone divenuta celebre. Per me è stata una specie di seconda mamma».

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Che cosa pensa di avere imparato dalla sua famiglia?

«Da mio padre ho imparato il rigore, la preparazione, il dovere di fare bene quello che si decide di fare. Lo ricordo ancora prima delle cause che doveva andare a discutere:

studiava e studiava come fosse stato un esordiente anche negli ultimi anni in cui ha esercitato. Voleva sapere tutto, non farsi mai trovare impreparato, anzi, doveva sapere sempre una cosa in più del pubblico ministero o persino degli stessi giudici. Quindi rigore, serietà sul lavoro e senso dell’onore. Dalla mamma invece credo di avere imparato il senso dell’economia. Non sono un avaro, ma non sono nemmeno uno spendaccione, non mi piace lo spreco, ed è più una questione etica che economica».

Quanto sono presenti i suoi genitori nella sua vita attuale?

«Penso a loro ogni giorno. Ho le loro foto in ufficio, li sento sempre molto vicini. Io non ho abbandonato loro e sono certo che neppure loro hanno abbandonato me: sono convinto che pur negli alti e bassi della vita, per come mi sono andate le cose, mi sono sempre rimasti vicini, anche dopo la loro scomparsa».

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PAOLO BONOLIS

“Da bambino ero balbuziente

e quindi non potevo permettermi di sognare una carriera come conduttore televisivo, del resto in casa mia si guardava molto poco la tv.

Preferivo i soldatini, le figurine e leggere.

Poi forse proprio l’aver superato quel problema

mi ha fatto venir voglia di esibirmi

davanti al pubblico e parlare parlare parlare…”

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Paolo Bonolis è nato a Roma il 14 giugno 1961, ha iniziato la sua carriera televisiva con la tv dei ragazzi per poi passare al varietà, al talk-show e fino al Festival di Sanremo (2005 e 2009).

Figlio unico, nato da padre milanese e madre salernitana, ha cin- que figli, l’ultima, Adele, nata nel 2007, è stata chiamata così in ricordo di zia Adele dichiarata beata dalla Chiesa. I successi tele- visivi di Paolo Bonolis vanno da Bulli e pupe a I cervelloni, da Beato tra le donne a Ciao Darwin. Con lui, nella stagione 2003- 2004 la striscia pre-serale di Raiuno Affari tuoi ha segnato il suo record di ascolti. L’intervista è stata fatta nell’agosto 2007.

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«Il ricordo remoto: dunque, vado indietro indietro indie- tro… e mi viene in mente una scena di quando abitavamo vicino alla ferrovia: sono in cucina, piccolissimo, con mia madre e quello che non volevo mangiare cioè il cervello bollito e dovevo mangiarlo tutto sennò non potevo vedere il treno passare dalla finestra».

Un incubo ricorrente quello del cervello cucinato e inflitto dalle mamme di una volta ai bambini perché “fa diventare intelligenti”. Ma se la vittima dell’odioso piatto è Paolo Bonolis bisogna credere alle sue proprietà nutritive visto che l’acutezza di questo Gemello (è nato a Roma il 14 giugno 1961) guizza e si impone quanto il suo slavinico e slalomico modo di parlare. Non potendolo riprodurre inte- gralmente invito il lettore a far uso di immaginazione aggiungendo qua e là ardite (ma sempre corrette) costru- zioni di congiuntivi e condizionali, frequenti quanto effi- caci espressioni in romanesco, battute a raffica, una buona dose di amarezza, momenti di intensa malinconia. E uno di questi arriva subito, quando Paolo parla di suo padre Sil- vio, venuto a mancare sei anni fa: «Ti leghi di più a una persona che scompare, perché ti manca, a differenza di quella che c’è (si riferisce alla mamma, Alba Lucia) e da cui prendi tutto l’amore del mondo ma della quale non avverti la mancanza. Normale, no?».

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Che facevano i suoi genitori quando lei era bam- bino?

«Mamma era segretaria in un’impresa di costruzioni, papà scaricava il burro ai mercati generali, poi è diventato rappresentante di prodotti alimentari: due persone bellis- sime, non mi hanno tolto niente, intendo a livello di affetti, e mi hanno dato tutto».

Continuiamo a far scorrere la pellicola del passato…

«Alle elementari veniva a prendermi papà, mamma restava in ufficio, ma poiché anche lui doveva tornare al lavoro mi portava dai nonni, Carlo e Lina, i nonni paterni, solo qualche volta dai genitori di mia madre. Giocavo a pallone in strada e poi giocavo a carte con nonno, a scopa, di 5 e 10 lire. Non ricordo moltissimo della scuola ele- mentare, i ricordi forti cominciano alle medie e poi alle superiori, però stavo bene a scuola, è un po’ una mia carat- teristica da soprammobile, dove mi metti sto e sto bene, non ambisco a più di quello che ho né mi preoccupo se ho meno di quello che presumo di desiderare”.

I giochi dell’infanzia?

«Ero solo – i miei decisero di non avere più figli per un problema di incompatibilità di RH del sangue a quel tempo irrisolvibile – e quindi mi arrangiavo parecchio, con i sol- datini, figurine, leggevo molto. I primi libri significativi sono i classici dell’avventura, Salgari, Verne. Un po’ più grande mi sono appassionato alla fantascienza, avevo biso- gno di trasferirmi in qualcosa che non fosse così tremen- damente monotono, nel senso dell’ovvietà degli accadi- menti, come già mi sembrava di intuire potesse essere la realtà. Durante l’adolescenza hai piacere di mettere a repentaglio, almeno in forma di sogno, quello che ti vor- rebbero fornire come il bene di consumo più prezioso,

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cioè la sicurezza: dunque la fantascienza – Asimov, Dick, Palmer. Poi al terzo anno di liceo, grazie soprattutto al mio professore di italiano, ho cominciato ad apprezzare tutta la letteratura, ma anche la saggistica. Ci fece cono- scere, ad esempio, “La nascita di una controcultura” di Theodor Roszak, che per me è stato un libro importante.

Mi affascinava molto l’idea di un mondo che potesse pre- vedere qualcosa di diverso dall’attuato, mi affascinavano determinati tipi di valori, l’assenza della necessaria orto- dossia su ogni cosa, la voglia di leggere le cose in un altro modo. Avevo 16 anni, che caspita dovevo fare?».

Che cosa sognava di diventare ‘da grande’?

«Esploratore. Il mio desiderio più grande era quello di mettere piede per primo in una terra completamente sco- nosciuta, almeno a quelli della mia cultura».

E questo fino a quando?

«Fino a quando ho scoperto che si erano esplorati tutto e allora mi sono indirizzato su un qualcosa che è total- mente ancora da esplorare: l’essere umano. Anche perché è in continua mutazione, in funzione delle culture, delle epoche, delle età, delle tecnologie, dei desiderata indotti o dedotti. È un mondo piuttosto vasto, forse avrei dovuto fare e mi sarebbe piaciuto fare lo psichiatra, lo psicologo.

Sicuramente l’essere umano mi attira, ma mi attirano mol- tissimo ancora il mondo, la natura. Ho viaggiato sempre molto, ho fatto l’istruttore di trekking, l’istruttore subac- queo, però ‘la terra vergine’ non mi è stato dato modo di rintracciarla e quindi…»

Tutto questo che c’entra con la tv?

«All’inizio non si è coniugato, è stato un caso. Da bam- bino ero balbuziente e quindi non potevo permettermi di sognare una carriera come conduttore televisivo, del resto in

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casa mia si guardava molto poco la tv. Poi forse proprio l’a- ver superato quel problema mi ha fatto venir voglia di esi- birmi davanti a un pubblico e parlare parlare parlare… ad ogni modo è stato, almeno apparentemente, tutto molto casuale. Dopo la gavetta, dopo la tv dei ragazzi, mi sono reso conto che esistevano dei programmi, detti ‘Giochi’, dove venivano persone che non facevano televisione per mestiere e queste persone erano poste in situazioni di “stress”, risul- tavano più o meno esacerbate nella loro natura e mi diver- tiva molto valutare le diverse personalità, come reagivano al meccanismo coatto del gioco. Ma la cosa non poteva essere fine a se stessa, volevo che avesse un significato».

Per esempio?

«Per esempio ‘Ciao Darwin’: è stato un laboratorio di antropologia allo stato puro, il trionfo dell’umano, è un gioco, ci si diverte, si fanno cose fessacchiotte ma si incon- trano le persone nel loro specifico. La trasmissione è nata con un’idea precisa, la condanna mia e dell’altro autore Stefano Magnaghi nei confronti della volontà di dicotomia che c’è nel mondo che è poi una delle armi principali del potere: tu fai parte di una schiatta, io ti costruisco gli avver- sari, tu li odi, ne hai paura e quindi vieni a farti difendere da me che detengo il potere. Noi abbiamo esemplificato questo meccanismo: belli contro brutti, atei contro credenti, maschi contro femmine, bianchi e neri, omosessuali contro etero… tutte queste assurdità in cui veniamo allevati. Tu vedi persone che si dichiarano appartenenti a una categoria e pensano, veramente, nella realtà, non in tv, che esiste un’altra categoria pericolosa per loro, il nemico. Nel gioco televisivo ci si rende conto di quanto è stupida questa divi- sione, si scopre anzi che le persone stanno insieme benis- simo anche se appartengono a ‘categorie’ diverse. Con que-

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