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e il macellaio si arrabbiava sicché litigavano immancabilmente”

Nel documento comunicazione, giornalismo, mass-media (pagine 61-69)

Giuliano Bugialli è nato a Firenze nel 1931, ma da qua-rant’anni vive negli Stati Uniti, a New York dove a metà degli anni Settanta ha fondato la prima scuola di cucina italiana d’America, la “Foods of Italy”. In un’epoca in cui in Usa ancora primeggiava la cucina francese, egli ha imposto il nostro gusto e i nostri menù diventando in breve tempo famosissimo e contribuendo in maniera determinante all’enorme successo della cucina italiana nel mondo. Ancora oggi è il più celebrato tra i maestri della nostra cucina all’estero, ha venduto milioni di libri in inglese, tenuto corsi di enogastronomia su diverse reti televisive e insegnato a milioni di americani i segreti della nostra tavola. Tra i suoi allievi diverse star hollywoodiane e poi Joe Di Maggio, Zubin Mehta e i più importanti chef d’Oltreoceano. Con i suoi libri ha raccolto oltre settemila ricette della tradizione regionale italiana. Questa intervista, inedita, è stata realizzata nel dicembre 2008.

«Il primo ricordo che ho è di me bambino per mano a nonna Gesuina, mi portava con sé al mercato di San Piero a fare la spesa. C’erano le gabbie con gli uccelli e i contadini che portavano le verdure dalla campagna. Dovevo avere due anni o poco più perché la nonna è morta quando ero molto piccolo. E ricordo anche questo, quando è morta, stava appunto pulendo la verdura comprata al mercato, era seduta al tavolo di cucina, vedo ancora la scena che pure in quel momento non compresi: il coltello le sfugge di mano e cade per terra e lei ripiega la testa in avanti».

Giuliano, secondo di cinque figli (ma quando morì la nonna tre dovevano ancora nascere), fu mandato con il fra-tello Paolo, il primogenito, dall’altra nonna, quella mater-na, nonna Luisa. In quella casa, dove andava di rado, ri-corda di avere vissuto i momenti di maggiore serenità:

«La famiglia di mia madre, Clara, era fatta di persone allegre, solari, come lei del resto, e a casa di nonna Luisa c’erano gli zii e i cugini, c’era un’atmosfera completamente diversa da quella di casa mia. Mio padre, Anselmo, era un uomo duro, severo, serio, non ricordo di averlo mai visto ridere, molto autoritario. Come del resto le sue due sorelle che vivevano con noi, zia Anna e zia Adele, donne d’acciaio, con loro non si poteva scherzare. Direi che non si poteva essere bambini…»

64 In che senso?

«Non erano ammesse debolezze, capricci, nemmeno desideri per quello che ricordo. Un altro dei miei primi ricordi è legato proprio a questa troppo grande severità. A pranzo c’era uovo fritto e a me toccò un uovo il cui rosso, poco cotto, si era rotto. Per qualche ragione mi dava il voltastomaco, non riuscivo a mangiarlo. Mi fu messo davanti per due giorni, pranzo e cena, freddo com’era, e non c’era alternativa. La sera del secondo giorno, vinto dalla fame, lo mangiai».

C’era un motivo per questa atmosfera così cupa?

«Molto dipendeva dal carattere del babbo e delle zie. Ma molto anche dal fatto che mio padre non aveva voluto prendere la tessera del partito fascista e quindi aveva perso il lavoro di ragioniere. Era quindi disoccupato. La mamma, che era diplomata dattilografa, dava qualche ripetizione, ma il nostro sostentamento dipendeva dal negozio di ali-mentari che avevano le zie e negli anni Trenta le cose non andavano troppo bene neppure per i commercianti. Peggio a partire dal ’36 quando le sanzioni internazionali ci pri-varono di molti beni di consumo essenziali. Naturalmente io al momento comprendevo solo che c’era poco da man-giare e sempre le stesse cose, certi cibi che vedevo nel negozio delle zie, certi salumi, ad esempio, per noi erano proibiti, troppo costosi evidentemente. Aspettavo con ansia il sabato e la domenica…»

Che succedeva il sabato e la domenica?

«Il sabato andavo con zia Anna dal macellaio per la scelta del pollo. Il pollo che sarebbe stato il pranzo dome-nicale di sei persone, quanti noi eravamo al momento. Era un’operazione lunghissima, un servizio religioso. La zia prendeva in mano un pollo via l’altro, li guardava di sotto,

di sopra, le zampe se erano del giallo giusto, il collo, tirava fuori persino le interiora e il macellaio si arrabbiava sicché litigavano immancabilmente. La domenica mattina seguiva un altro rito, era infatti l’altra zia, Adele, addetta a cuocere il pollo: lo faceva alla griglia dopo aver spezzato uno a uno con grande delicatezza tutti i legamenti delle articolazioni.

Poi si sedeva davanti al fuoco e io e mio fratello dietro di lei e tutti e tre guardavamo cuocere il pollo per un paio di ore. Una volta arrivati a mangiarlo era ovviamente impen-sabile poter scegliere una parte di coscia piuttosto che una parte di petto. Non avremmo mai osato farlo!».

Poi nacquero i gemelli, Gabriella e Lorenzo, la fami-glia di botto aumentò di due unità.

«Fu uno colpo per tutti. Nessuno lo sospettava, che fos-sero due, intendo. Nacque Gabriella e pensavamo che fosse finita lì, invece dopo un’ora venne fuori anche Lorenzo. Mio padre era talmente scioccato che uscì di casa e tornò solo dopo molte ore. Ma il peggio doveva ancora venire! I gemelli hanno pianto ininterrottamente per un anno e mezzo, giorno e notte. Un inferno. Ricordo veramente la dispera-zione degli adulti e anche la nostra, mia soprattutto perché Paolo aveva dodici, tredici anni e era già più indipendente, andava a scuola, usciva a giocare. Io invece avevo solo sei anni e per giunta, essendo nato in gennaio, non sono potuto andare a scuola nel ’36, non avevo ancora compiuto i sei anni. Ne soffrii moltissimo, avevo tanto desiderato andare a scuola! La mattina mi alzavo presto per guardare dalla fine-stra i bambini della scuola elementare che c’era proprio di fronte a casa nostra. Li invidiavo. L’anno dopo cominciai a mettere il grembiule mesi prima che cominciasse la scuola, ma poi non riuscii a essere felice neppure lì perché ero più grande, mi dicevano che ero bocciato…».

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Però in quel periodo suo padre ricominciò a lavo-rare…

«Fu costretto a prendere l’odiata tessera del partito fascista. Non so come andarono le cose esattamente, è probabile che le donne di casa lo abbiano costretto a cedere dopo la nascita dei gemelli, eravamo otto persone e le zie con la loro bottega non ce la facevano più, immagino.

Ad ogni modo mio padre cedette e deve essergli costato, però ricominciò a lavorare. Ma poco dopo ci fu la guerra e le cose, se possibile, peggiorarono ancora, almeno finché non fummo costretti a lasciare Firenze».

Dove siete sfollati?

«A San Martino alla Palma. Può sembrare paradossale ma io provai la felicità proprio mentre vivevamo il momento peggiore della guerra, i bombardamenti di Firenze, i rastrellamenti, noi avevamo addirittura un comando tedesco nella casa padronale, accanto a quella dove eravamo rifugiati. Ogni giorno li vedevamo andare su e giù… insomma nonostante gli eventi terribili, ricordo quel periodo come il primo in cui io sono stato felice. Le zie erano rimaste a Firenze per via della bottega, Paolo era dalla nonna materna per la scuola, mio padre stava fuori tutto il giorno e i gemelli si erano finalmente calmati così io potevo stare con la mia mamma in santa pace e poi ero libero di uscire finalmente, giravo per i boschi, osservavo la natura, gli animali. E anche con il cibo andava meglio.

Dopo tutte quelle castagne bollite mangiate all’inizio della guerra, in campagna trovavamo cibo più variato e anche più abbondante. La mamma per la prima volta si trovava a cucinare, a Firenze lo facevano sempre le zie. Era negata la mia mamma, però ci divertivamo a fare esperimenti…

ricordo che una domenica invitammo le terribili zie e la

mamma fece il pollo bollito… ma dimenticò di togliere il gozzo… che scandalo!».

Quindi già da piccolo manifestava un certa passione per la cucina…

«Non credo che fosse una passione speciale all’epoca.

Semplicemente non avevamo niente e non sapevamo nien-te in confronto ai ragazzi di oggi. Quindi anche le espe-rienze della vita quotidiana emanavano fascino per noi bambini, le cose più semplici non le conoscevamo… pen-so che se oggi un ragazzino sente una sirena suonare in-cessantemente, vede aerei in cielo che lanciano ‘cose’, eb-bene questo ragazzino con tutti i film che ha visto e i vi-deogiochi e tutto il resto, pensa subito alle bombe. Noi invece non sapevamo nulla: quando vidi per la prima vol-ta quelle ‘cose’ che scendevano dal cielo, dagli aerei, pen-sai che fossero ‘rificolone’, le sfere di carta colorata con cui a Firenze si festeggia la vigilia della Natività di Maria, l’8 settembre. La nostra ignoranza faceva sì che anche un pollo o un coniglio fossero avvenimenti straordinari…».

Ma lei cosa voleva fare quando era piccolo?

«Volevo fare il medico, anzi il chirurgo, ma mio padre non volle che facessi il liceo. Disse che era uno studio troppo lungo quello della Medicina. Mi iscrisse a Ragio-neria, per la quale ero negato. Per fortuna, contro il suo volere, mi iscrissi anche a un corso di inglese, allora, dopo la guerra, sull’onda dell’entusiasmo per gli Americani e gli Inglesi, ci fu questa opportunità. Il sapere l’inglese mi fece decidere, dopo il diploma, ad accettare un lavoro come guida turistica. Da lì poi venne l’idea di trasferirsi negli Stati Uniti dove inizialmente andai come insegnante di italiano in una scuola privata».

68 E la cucina?

«Fu un caso. A scuola c’era una festa e gli insegnanti dovevano portare ciascuno un piatto a piacere. Io feci i cannelloni ripieni che ebbero un successo enorme. In molti mi dissero che avrei dovuto sfruttare il mio talento in cucina, una coppia di finanziatori del College presente alla festa propose di aiutarmi a avviare una scuola di cucina… è nato così».

Non proprio per caso se rileggiamo questa intervista:

dalla spesa fatta al mercato con la nonna, fino ai ‘giochi’ in cucina, i riti religiosi delle zie riguardo al cibo, la mamma che invece doveva essere aiutata ai fornelli… insomma, sembra proprio che gli ingredienti del futuro di Giuliano Bugialli fossero già tutti nella sua infanzia. Bastava saperli cucinare con maestria.

Nel documento comunicazione, giornalismo, mass-media (pagine 61-69)