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era un bosco, una selva, con gli stagni, era un’avventura continua”

Nel documento comunicazione, giornalismo, mass-media (pagine 87-97)

Marcello Lippi è nato a Viareggio il 12 aprile 1948. Inizia la sua carriera da calciatore professionista a 16 anni nella Sampdoria nel ruolo di libero. Ed è ancora con la giovanile della Sampdoria che nel 1982 parte la sua carriera di allenatore. Una lunga gavetta sui campi della serie C e poi nel ’90 l’approdo in serie A, nel Cesena, quindi il Perugia, la Lucchese, l’Atalanta e poi al Napoli. Nel ’94 arriva alla Juventus con cui vince subito uno scudetto ed altri due nelle quattro stagioni successive. Inoltre Champions League, Supercoppa europea, Intercontinentale, Coppa Italia e due Super-coppe italiane. Una stagione e mezzo all’Inter di Moratti e poi il ritorno sulla panchina bianconera che procura alla Juve altri due scudetti ed altri trofei. Nel 2004 viene chiamato a guidare la Nazio-nale italiana che conduce alla vittoria del Campionato Mondiale nel 2006. Subito dopo si dimette, ma nel 2008 è nuovamente sulla panchina degli Azzurri per portarli ai Mondiali del 2010.

Questa intervista è stata fatta nel novembre 2005. Nel maggio 2006, poche settimane prima di diventare campione del mondo, il ct azzurro ha perduto la mamma Adelina.

«Da ragazzino andavo in cima al molo, guardavo uscire le barche e mi dicevo: un giorno ce l’avrò, la barca. Non era un oggetto di lusso che volevo. Non mi è mai importato nulla di questo. La barca non aveva niente a che fare con la ricchezza. La barca significava possedere di più il mare, viverci sopra, penetrarlo, appartenergli. In realtà era il mare che volevo».

Marcello Lippi, allenatore della Nazionale italiana di calcio, si racconta proprio davanti al suo mare, quello di Viareggio, in una giornata cupa e ululante di tramontana.

Il cielo un groviglio di nuvole scure e di strisce all’acetilene.

Un po’ come ci si immagina il mister, ovvero burbero e di poche parole. Invece – scopro – a Lippi parlare piace e molto: da buon libero parte e non si ferma, ricorda, anti-cipa, fa digressioni, spiega la sua filosofia di vita. Senza supponenza, con schiettezza e semplicità. Quasi non c’è bisogno di fargli le domande. Sorprendente.

Alla fine è riuscito a comprarsela la barca.

«Sette anni fa. A cinquant’anni. Sì, a cinquant’anni ho realizzato quel sogno lontano. Prima ho dovuto comprare cose non dico più importanti ma più necessarie. Tipo la casa. Quand’ero piccolo vivevamo in affitto, abbiamo cam-biato casa dieci volte, non c’erano soldi, abbiamo avuto momenti difficili. Mio padre era una persona meravigliosa

ma sfortunato col lavoro. Prima aveva una macelleria ma la cosa andò male, lo stesso col negozio di frutta e verdura. Poi aprì una pasticceria e la situazione migliorò un pochino e comunque c’era sempre mia madre a rimediare».

Sua madre Adelina, come la ricorda da giovane?

«Una santa. Lei faceva la sarta, cuciva di notte e di giorno lavorava in pasticceria. Anch’io davo una mano, la mattina portavo le paste. Più che altro le mangiavo, però.

Sì, mia madre era una santa anche perché doveva soppor-tare mio padre che era, diciamo, un birichino».

In che senso?

«Eh, lasciamo perdere sennò poi dicono tale padre tale figlio».

Suo padre, Salvatore, è scomparso nel 1991, a 82 anni. Di lui, a parte le birichinate, cosa ricorda?

«Lo chiamavano Ginetto come il nonno che da giovane aveva le carrozze – nel senso che faceva il vetturino – e per i tempi era benestante. A mio padre piaceva molto cam-biarsi, gli piaceva vestire bene. Ricordo che portava le cami-cie col collo alzato, i pantaloni di gabardina. E però non voleva che la mamma si mettesse troppo in mostra e infatti lei era seriosa anche nel vestire. Entrambi avevano il senso della dignità, la forza morale, il coraggio di andare avanti senza mai venire meno all’educazione e anche a una certa immagine. Una delle prime partite che ho giocato da cal-ciatore mia madre mi fece mettere la camicia bianca sotto la maglia della squadra perché secondo lei ero più elegante».

E poi c’è il famoso episodio alla Sampdoria…

«Il primo giorno di ingaggio a Genova ero con mio padre. Avevo 16 anni. E sempre per la faccenda del vestirsi perbene mi fecero mettere l’unico completo che avevo, un

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gessato invernale, di flanella. Con camicia rosa. Peccato che fosse la fine d’agosto. Un lago di sudore. Grondavo».

La scuola?

«Non avevo molta voglia di studiare. In realtà le mie giornate da bambino le ricordo così: sei mesi al mare e sei mesi in pineta. Con qualche puntata a scuola. Soprattutto calcio, calcio, calcio. E poi la bicicletta. Adesso la pineta di Ponente è un parco tutto ripulito, ma ai miei tempi era un bosco, una selva, con gli stagni, era un’avventura continua.

Il periodo più bello fu quello in cui abitavo in via Roma ovvero a pochi metri dal mare e a pochi metri dalla pineta».

Ed è proprio in quella zona di Viareggio che vive attualmente.

«Dalla terrazza vedo sia la pineta sia il mare. E vedo anche il portone dove una volta c’era il nostro negozio di frutta e verdura. Non è un caso. E comunque, tornando alla scuola, ho smesso a 13 anni, dopo le medie. E sono andato a lavorare».

E dove lavorava?

«In una fabbrica di lampadari, apprendista elettricista, tentavo di aggiustare ferri da stiro e roba del genere. Però già giocavo nella squadra locale della Stella Rossa. Ogni mercoledì facevo provini e quindi mi assentavo dal lavoro senza permesso. E ricordo che il ragioniere della ditta, Tirinnanzi, mi diceva: guarda che una volta o l’altra ti licen-ziano. Un giovedì mi presento e lui dice: te l’avevo detto:

t’hanno licenziato! Ma io gli risposi che non m’importava niente perché proprio il giorno prima avevo firmato con la Sampdoria e due mesi dopo ero a Genova».

Col gessato di flanella. Ecco, lo metta via perché dobbiamo restare ancora un po’ a Viareggio. Lei ha una sorella di tre anni più grande e un fratello di tre

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anni più piccolo. Posizione scomoda, quella interme-dia. Ne era geloso?

«Forse erano loro ad essere gelosi di me. Quando sono nato mio padre si mise a correre per la strada, abitavamo in via San Martino, tutto rosso in faccia gridando: è un maschio, è un maschio! Le spiego perché: la primogenita era Maria Grazia, ma poi un anno e mezzo dopo mia madre aveva partorito un bimbo purtroppo morto. Lei stessa aveva rischiato la vita: la portarono all’ospedale in ambulanza con mio padre che per tutto il viaggio tenne sol-levata sulle braccia la lettiga per evitarle gli scossoni.

Insomma, era stata un’esperienza traumatica. Così quando sono nato io, l’atteso maschio, c’è stata l’esplosione di gioia. Ero coccolato, vezzeggiato, diciamo pure viziato.

Un atteggiamento nei miei confronti mantenuto, temo, anche dopo la nascita di mio fratello Mario».

Cocco di mamma e anche di papà. Ma non la rim-proveravano mai?

«Poco. Forse è per questo che ricordo bene l’unico schiaffo che mi ha dato mio padre. Era un periodo in cui lavoravo in pasticceria, avevo 13 o 14 anni. C’era una ragazzina da noi, ci provavo da tempo, una fatica. Il giorno in cui riuscii a convincerla, sul più bello arriva mio padre.

Schiaffo e predica: mai sul lavoro! Queste cose non si fanno! Che rabbia. E poi avrei voluto dirgli: da che pul-pito… ma non potevo. Per il resto me la sono cavata quasi sempre: avevo il faccino da buono, da ragazzo perbene. Gli amici mi mandavano a parlare con le loro mamme…

insomma raccontavo bene le bugie».

Ne racconti una anche a noi.

«Quando arrivai alla Sampdoria nel ’64 dissi ai dirigenti, credo per fare buona impressione, che anche se avevo

smesso di studiare mi sarebbe piaciuto ricominciare. Così mi pagarono un corso di lingue in una scuola privata. In realtà a lezione ci andai pochissimo, però le mie compagne di scuola le frequentavo volentieri. Fui scoperto ma nono-stante ciò riuscii a farmi pagare la retta anche per l’anno dopo. Poi, è chiaro, non ci sono più cascati. E comunque tra una cosa e l’altra un po’ di francese almeno l’ho imparato».

Rimpianti?

«Mi dispiace che mio padre non abbia fatto in tempo a gioire dei miei anni più importanti come allenatore. Si è goduto quelli in cui ero calciatore. Ascoltava Tutto il calcio minuto per minuto e quando facevano il mio nome lo sen-tivano urlare dalle case accanto. Come allenatore ha fatto in tempo a vedermi in serie A, col Cesena. È morto l’anno successivo, pochi mesi dopo il mio esonero. Io l’ho letto come un segno del destino: proprio perché ‘disoccupato’

sono potuto restare vicino a mio padre per tutto il periodo della malattia. È morto mentre io gli stringevo la mano, guardandomi negli occhi. È stato importante per me essere lì. Forse anche per lui è stato importante che ci fossi. Se non mi avessero esonerato sarei stato lontano».

E quando è andato sulla sua tomba a chiedergli

‘scusa’ perché chiamato ad allenare la Juventus?

«Mio padre era un socialista vecchio stampo e per lui la Juventus rappresentava proprio quel potere che odiava, la squadra dei ‘padroni’. Non faceva il tifo per nessuno, faceva solo il tifo contro la Juventus. E allora quando mi proposero quella panchina… il minimo era che gli chie-dessi scusa ».

Lei crede in Dio?

«Credo, a modo mio. Però sull’Aldilà ho molti dubbi. Per esempio non ho mai sognato mio padre, neppure una

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volta. Eppure tante sere vado a letto e penso, diciamo pure che prego di vederlo almeno in sogno. Non è mai suc-cesso. Se in qualche modo lui potesse, sono sicuro che sarebbe venuto».

Che cosa è rimasto del bambino che lei era negli anni Cinquanta?

«Un casino di cose: fare confusione, divertirsi, la spre-giudicatezza di quando si è giovani. Anche con i miei figli sono così, credo di essere più che altro un amico. Liti-ghiamo, questo è normale, ma è un rapporto bellissimo.

Stefania ha 30 anni, Davide 28. Abitano entrambi a Roma, non ci vediamo molto ma ci sentiamo spessissimo. I figli devono fare la loro vita».

Del resto erano abituati a vederla poco.

«Loro erano a Viareggio, io sempre fuori. Conservo ancora una letterina di Natale che mi hanno mandato quando erano piccoli. C’è scritto: Al nostro grande papà che è come se ci fosse sempre anche se non c’è mai. In effetti sono stati cresciuti da mia moglie Simonetta che peraltro è stata bravissima».

Lei ha un gruppo di amici a cui è molto legato. Ci parli del rapporto che ha con loro.

«Sono tutte, più o meno, amicizie che risalgono alla prima adolescenza, quando giocavo nelle prime squa-drette. Oggi se guardiamo al lavoro o alle condizioni eco-nomiche siamo persone anche molto diverse, ma non conta. Conta che siamo gli stessi dentro, non siamo cam-biati o perlomeno non siamo camcam-biati molto. Ci piace ancora discutere, andare per mare, mangiare, bere, gio-care al pallone. Andiamo in barca, si pesca, si naviga, si ride. Come ragazzi. Questi amici sono importanti perché sono il metro con cui mi misuro. Se piaccio a loro, se

loro continuano a volermi bene, vuol dire che non sono peggiorato troppo».

Peggiorato?

«Parliamoci chiaramente, la gente in certe posizioni diventa arrogante, presuntuosa. Il successo di solito ti cambia in peggio e comunque ti fa apparire cambiato anche se non è vero. Il massimo che puoi fare è restare come prima, il massimo è non peggiorare. Io spero di non essere peggiorato. E gli amici di sempre sono il metro con cui misuro questo ‘non peggioramento’. Non posso affi-darmi agli ammiratori o ai denigratori che incontro a bordo campo. Non puoi considerarti un dio perché qual-cuno ti considera un dio. Ma non puoi nemmeno sentirti un pezzo di mota perché qualcuno ti considera tale. Magari soltanto perché un giorno non ti sei fermato a pranzo col presidente o a firmare i soliti cento autografi alla fine del-l’allenamento. Lo fai sempre e lo fai volentieri, però può esserci un giorno in cui hai appuntamento col dentista e anche quello in cui preferisci tornartene a casa dai tuoi figli. Quel giorno stai tranquillo che ti prendi un sacco di accidenti e magari quelle persone per tutta la vita pense-ranno che sei un montato o un maleducato».

Tutto questo per spiegare come mai lei ha fama di non essere molto diplomatico?

«È per dire che il consenso totale non ce l’ha nemmeno il papa. L’importante è che chi mi conosce sappia come sono veramente. E le dirò un’altra cosa sulle ‘persone di successo’: se sei uno che riesce a gestire tutto, sempre gen-tile, sempre disponibile, sempre col sorriso, se non perdi mai le staffe, se non hai mai una giornata che ti gira storto, allora non sei più vero: sei falso, sei costruito».

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La vita vera secondo lei cos’è? Il calcio, la famiglia, Viareggio, la sensazione di essere liberi?

«La sensazione di essere liberi è forse troppo egoistico anche se fa parte del mio carattere. Penso che la vita vera sia un po’ tutto l’insieme. La vita vera è il futuro ed è il pas-sato. È la vita facile, la vita bella, ma anche le difficoltà, i sacrifici, il mettere radici. Non è solo la fortuna, quello che hai oggi, perché può passare come è venuto e dopo torni quello di prima. La vita vera, certo, è anche il calcio, le grandi gioie, le vittorie, ma è anche comprare una casa e metterci i tuoi genitori che non ne hanno mai avuta una. È l’emozione rapida e forte ma anche la serenità. La vita vera è quello che ti è successo ma è come se non fosse suc-cesso quasi nulla. E poi la vita vera è il mare».

Siamo tornati al mare.

«A volte penso di avere le branchie. Torno alle sei di mattina da una partita, mi cambio, mi metto una tuta da ginnastica e vado direttamente sul mare, o in cima al molo, a parlare di quel tonno che è scappato, a guardare le onde per delle mezz’ore, a passeggiare lungo la riva. Questa è la vita vera. Sono le immersioni. E la barca, la solita barca da cui siamo partiti».

Il sogno del bambino che si è avverato. E il sogno dell’uomo, del commissario tecnico?

«Vuol dire quello che comincia il prossimo giugno in Germania?».

Di quello si tace.

Nel documento comunicazione, giornalismo, mass-media (pagine 87-97)