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Anche se io mi ispiravo ai giornalini che leggevo avidamente: Topolino, Soldino, il Corrierino”

Nel documento comunicazione, giornalismo, mass-media (pagine 107-117)

Iginio Straffi è nato nel 1965 a Gualdo in provincia di Mace-rata, città quest’ultima dove, dopo alcuni anni, si è trasferito con la famiglia e dove ha studiato. A 18 anni partecipa ad un concorso indetto dalla rivista Totem Comics e arriva secondo su cinquemila partecipanti. Questo lo spinge a cercare un editore per i propri fumetti e già alla fine del liceo inizia a pubblicare con case editrici via via più importanti sino ad approdare, a 23 anni, alla mitica Sergio Bonelli Editore per il quale disegna albi a fumetto della serie Nick Raider. Nel 1995 a Loreto fonda la Rainbow, azienda di servizi multimediali, che raggiunge il successo globale nel 2002 quando Straffi mette in produzione la serie delle agguerrite fatine del Winx Club che diverrà un cartone di culto in tutto il mondo.

L’intervista è stata fatta nell’agosto 2007.

Chi ha una bambina tra i sei e i dodici anni conosce bene le Winx, ma anche tutti gli altri, bambini e adulti, hanno visto le faccette di queste fate sbarazzine su ogni genere di oggetti: abbigliamento, scarpe, zainetti, qua-derni, diari, make-up per piccole donne, giochi di ogni sorta, per non parlare dei ‘giornalini’ in edicola, del blog e delle chat su internet, delle immagini e delle suonerie sca-ricate sui telefonini. Chi ha una bambina sa anche e soprat-tutto a che ora passano i cartoni alla tv e la data di uscita del prossimo film. Questo per ciò che riguarda l’Italia, dove il fatturato del merchandising delle Winx (appunto tutto ciò che porta il loro marchio) ha superato già da alcuni anni quello di Barbie, a lungo la numero uno anche nel nostro Paese. Un sorpasso storico: lo stereotipo del-l’insulsa casalinga americana bella e buona scalzato da ragazze dal caratterino non sempre facile, indipendenti e volitive. Se poi guardiamo al di fuori dei nostri confini, ebbene le Winx passano sulle televisioni di oltre cento paesi nel mondo e nel giro di pochissimi anni sono dive-nute un fenomeno il cui giro d’affari supera il miliardo e mezzo di euro.

Eppure queste ragazzine magiche che siamo abituati a vedere in tv e nelle vetrine di decine di negozi, nascondono ancora molti segreti. Un rapido sondaggio tra

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tori mi fa capire che, per esempio, la loro nazionalità è decisamente misconosciuta. Pochissimi sanno che Bloom, Flora, Aisha e le altre sono italiane, italianissime. Non sono state inventate e portate al successo planetario, come i più ritengono, da qualche major del fumetto giapponese o americana. Macché, la loro terra di origine sono le Mar-che e il loro ‘papà’ è un giovin signore – immaginifico fin dal nome: Iginio Straffi – nato a Gualdo in provincia di Macerata, esattamente il 30 maggio 1965.

Lo incontro letteralmente al volo nel senso che sta per imbarcarsi per Singapore.

Disegnatore, sceneggiatore, regista, amministratore delegato della Rainbow spa (la casa di produzioni multi-mediali e animate da lui fondata nel 1995). La prima cosa che mi viene da chiedergli è:

È nato prima il fantasioso creativo o l’implacabile capitano d’azienda?

«Forse sono nati insieme – risponde Iginio Straffi – cer-tamente ho cominciato a inventare e disegnare storie a fumetti quando ero molto piccolo. Alla stessa età, non andavo ancora a scuola, accadde un episodio forse signi-ficativo. Era l’epoca in cui in Italia mancavano gli spiccioli.

Dunque andai a fare la spesa per la mamma e poiché il primo negoziante mi aveva dato alcune caramelle di resto, io pretendevo di usarle per pagare il pane: “Me le ha date Guido come resto e ora te le prendi tu” dissi deciso alla for-naia, che ancora me lo ricorda!».

Fantasia ma anche senso degli affari, dunque.

«Intorno ai dodici anni capii che le due cose dovevano essere collegate e infatti dipingevo quadri che poi ven-devo. Ai vicini di casa, alle amiche di mamma. In genere erano su commissione: qualcuno voleva il tale paesaggio,

qualcun altro una scena di vita familiare, io eseguivo e ne ricavavo la paghetta».

I suoi genitori?

«Si chiamano Giuseppe e Marianna, anche se tutti la chiamano Maria. Mio padre era autista di pullman, mamma era sarta ed è da lei che ho ereditato la passione per il disegno. La vedevo disegnare gli abiti, i ‘figurini’ e la imitavo. Anche se io mi ispiravo ai giornalini che leggevo avidamente: Topolino, Soldino, il Corrierino. Guardando i quaderni su cui disegnavo allora – la mamma li ha con-servati – mi accorgo che ero molto attento alle inquadra-ture, facevo primi piani, cercavo di mettere in evidenza le emozioni dei protagonisti».

Insomma un talento naturale. Ma pronto a imparare dai grandi maestri.

«È stato soprattutto il periodo delle medie quello in cui ho imparato di più, perché a quel punto ero consapevole che quello doveva diventare il mio mestiere. Amavo moltissimo gli albi di Sergio Bonelli, ma più che Tex, mi piacevano Zagor, il comandante Mark, Black Macigno, poi leggevo il Corriere dei Ragazzi. Così il mio modo di disegnare è pas-sato dal caricaturale al realistico. Ma non leggevo solo fumetti, leggevo anche molti libri. Prima i classici di avven-tura, Isola del tesoro, Tom Sawyer. Poi, alle medie, sempre privilegiando l’avventura, sono passato a Conrad, Melville, Chatwin. Nel frattempo scoprivo Hugo Pratt, di cui mi sono innamorato, ma ho anche iniziato ad apprezzare, grazie a mia sorella, i gialli e soprattutto Simenon, non necessaria-mente Maigret, anzi preferivo gli altri suoi romanzi».

Perché grazie a sua sorella?

«Elisabetta ha un anno e mezzo più di me e lei già da piccola amava i gialli, quelli da ragazzi, quindi in casa ne

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ho sempre visti e alla fine mi ci sono appassionato anch’io.

È grazie a mia sorella, poi, che ho imparato a leggere e scrivere prima di andare a scuola. All’asilo non volevo andare. Mia madre mi ci portava, era a trecento metri da casa, e io scappavo, dopo un po’ mi vedeva tornare e non c’era modo di convincermi a frequentarlo. Volevo invece andare a scuola come mia sorella e la mamma allora, ogni tanto, quando forse non sapeva più come prendermi, chie-deva alla maestra di Elisabetta: “Me lo tiene un po’ a scuola?”. E lì stavo buono buono e imparavo davvero».

Sua mamma gliele dava tutte vinte?

«No, anzi ci teneva molto sotto controllo però era ed è una persona aperta, non rigida. Ci invitava a far venire i nostri amici a casa, preparava la merenda per tutti e ci incoraggiava a fare quello che era giusto ma che deside-ravamo».

E suo papà?

«Lui, ovviamente lo vedevo molto meno, a causa del suo lavoro. Di solito durante la settimana faceva la tratta Macerata-Roma. Ma faceva anche viaggi lunghi, portava la gente in gita e quindi stava via anche giorni. Di lui avevo l’i-dea che sapesse fare tutto. Se si rompeva la bici la mamma diceva: “Quando viene papà l’aggiusta”. Ed era così, ripa-rava ogni cosa, gli elettrodomestici, l’auto, un giocattolo.

Con lui tutto tornava a posto e io lo consideravo un po’

magico. Ma non ne avevo soggezione. Ricordo che da pic-colo picpic-colo lo tormentavo con domande tipo: “Secondo te è più forte la tigre o il leone?” e se la sua risposta non mi convinceva mi mettevo a discutere, specialmente se avevo visto documentari in tv sull’argomento. E poi ero affasci-nato dall’idea dei viaggi, mi scatenavo quando diceva:

“Vado in Germania” oppure “Vado a San Marino”. A volte diventava un problema».

Un problema?

«Io desideravo tantissimo partire con lui, forse lo desi-deravo a tal punto che i miei non volevano deludermi dicendomi subito che non era possibile. Così ogni volta che si profilava un ‘viaggio lungo’ andava in scena un pic-colo psicodramma. Intanto contavano sul fatto che la mattina – di solito partiva molto presto – io stessi dor-mendo e così speravano di cavarsela. Invece il più delle volte io restavo sveglio tutta la notte, sovreccitato, quindi ero in piedi prima ancora di mio padre. Allora facevamo colazione, la mamma preparava il cappottino, insomma sembrava proprio che stessi per partire anch’io quando con una scusa mi distraevano e papà se ne andava senza farsi vedere. Forse volevano dare la colpa al ‘caso’ evi-tando di passare per genitori cattivi che dicono no, non vai. Non si rendevano conto di quanto più bruciante fosse la delusione per me che vedevo sfuggirmi il sogno proprio all’ultimo istante. Ma chissà, magari per quanto relativa-mente crudeli, sono state esperienze che mi hanno costretto a farli con la fantasia i viaggi…».

Ma anche la tv ha contribuito a nutrire le sue fan-tasie.

«Ho visto tantissima tv, tv per ragazzi e in particolare mi piacevano gli sceneggiati. Indimenticabili per me sono stati “Il tesoro del castello senza nome” e “Nata libera”, la storia della leonessa cresciuta dai rangers in Kenya. In effetti quello che mi sarebbe piaciuto fare erano proprio i film con gli animali, i documentari. Avevo ideato e dise-gnato un elefante meccanico: esternamente doveva essere del tutto simile a un elefante vero, ma dentro in realtà

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c’ero io con due o tre telecamere in modo che potessi riprendere tutto quello che facevano gli altri elefanti, a cui mi sarei mescolato, nella savana, e avrei ripreso tutto da vicinissimo. Poi nella pratica la cosa più semplice ed economica era dare vita a tutto questo attraverso il fumetto».

Questo mi fa capire che non ha ancora finito di rea-lizzare i suoi sogni di bambino.

«È vero. Diciamo che non escludo di potermi cimentare, in futuro, in esperienze diverse da quelle del fumetto e dell’animazione».

Chi ottiene grandi successi come è accaduto a lei spesso viene accusato di essere ‘troppo commerciale’.

«Ho un bel po’ di cose da opporre a questa accusa. A me piace che le mie storie piacciano anche agli altri. Non mi interessa l’arte come qualcosa che viene apprezzato da pochi, o magari solo da chi l’ha creata. Quando ero bam-bino desideravo che il mio disegno piacesse, fosse apprez-zato, da tutti se possibile. Diversamente ci sarei rimasto molto male. Io continuo a ragionare così. In secondo luogo io con il disegno, i fumetti, l’animazione, voglio viverci.

Non mi piacerebbe l’idea di fare Arte Incompresa e dovermi trovare un altro lavoro per campare. Lo troverei scomodo e demoralizzante. Terzo punto: in un lavoro come questo, se riesci ad affermarti in maniera non effimera, significa che stai facendo bene e fare bene vuol dire lungo studio, ingobbire sul tavolo da disegno, tanta gavetta, tanti

‘esercizi’, rigore, esperienza in settori diversi e con stru-menti che vanno dalla matita ai più raffinati software.

Senza contare che in Italia niente di quello che sto facendo esisteva e le difficoltà non sono certo state poche. C’è voluta tutta la mia tenacia di marchigiano per andare

avanti: solo a sentir dire che volevo fare dei cartoon per la tv si mettevano a ridere. Infine credo che far breccia nel cuore di bambini di tutto il mondo, da quelli europei a quelli asiatici, voglia dire essere stati capaci di cogliere qualcosa di essenziale. E non mi pare un risultato da poco.

E ancora: aver portato nel mondo un marchio italiano in un settore dove non esistevamo, aver creato un indotto enorme che ha permesso a tantissime aziende italiane di entrare nel grande mercato internazionale attraverso il marchio Winx. Se tutto questo significa essere troppo com-merciale, mi va benissimo».

Ma adesso ci sveli il segreto: come fa a creare storie che piacciono tanto ai bambini?

«Torniamo all’inizio: fantasia e logica, immaginazione e scienza. A me piace ancora giocare, lo faccio con gli ami-ci, l’ho fatto con le ragazze che ho avuto e con mia moglie adesso. Lo so che rischio il reparto psichiatrico ma lo am-metto: ancora oggi mi capita di giocare a essere dentro un fumetto, o dentro un film o un romanzo, ci sono anche per-sonaggi di fantasia che interagiscono nella mia vita. È un gioco, appunto, non penso che sia vero ma a volte faccio finta che. È rilassante, divertente. D’altro canto ci sono le ricerche di mercato, lo studio delle tendenze, focus group, le analisi, i test, i sondaggi. Ci sono trattative, discussioni, contratti e sacrificio e 14 ore di lavoro al giorno e discipli-na pazzesca. Ci sono anche le delusioni, le sconfitte, ma…

secondo lei, al Lupo dell’Ontario è mai passato per la men-te di arrendersi?».

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