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il vino, da mangiare”

Nel documento comunicazione, giornalismo, mass-media (pagine 117-127)

Il cardinale Ersilio Tonini è nato il 20 luglio 1914 nella frazione di Centovera del comune di San Giorgio Piacentino. Entra a 11 anni in seminario a Piacenza, viene ordinato sacerdote nel 1937.

Studia Diritto Civile e Canonico all’Università Lateranense di Roma e nel 1953 è nominato parroco a Salsomaggiore. Nel 1968 diviene rettore del seminario dove ha studiato. L’anno dopo Paolo VI lo eleva alla dignità episcopale; il 2 giugno 1969 è eletto Vescovo di Macerata. Nel 1975 gli viene affidata la cattedra di Sant’Apolli-nare nell’arcidiocesi di Ravenna. A settantacinque anni Tonini inoltra le dimissioni da vescovo. Il 26 novembre 1994 Giovanni Paolo II gli conferisce la porpora cardinalizia. L’intervista è stata realizzata nel dicembre 2005.

«La Chiesa è contro la libertà? Che inganno terribile!

Non è così, non è affatto così! La Ragione e la Religione affermano le stesse cose. Senta cosa dice Kant». E mi legge con fervore di ragazzo una pagina sull’istituzione del matrimonio dalle Lezioni di Etica. Il libro, una vecchia edi-zione Laterza, è pieno di sottolineature e annotazioni a lapis. Naturalmente non oso interromperlo, anzi neppure mi viene in mente perché il suo eloquio è talmente entu-siasta, la sua cultura così sorprendente e strabiliante la memoria, che non si può fare altro che ascoltarlo.

Piccolo e sottile, svelto, come un passero saltella in uno studiolo – il suo, presso le suore dell’Istituto di Santa Teresa del Bambin Gesù di Ravenna, dove vive – sopraf-fatto dai libri che lo ingombrano tutto e in cui lui, il car-dinale Ersilio Tonini, si districa senza esitazione.

Ecco che afferra in alto a destra il Purgatorio dantesco e, senza leggere, recita il passo sul libero arbitrio del XVI canto. Si sposta verso l’altra parete e, mentre apre una parentesi sulla religiosità intrinseca alla filosofia precri-stiana, afferra un consumato Fedone, poi cita Plotino e Luciano di Samosata, Pirandello e l’astrofisico Hawking.

La libertà come responsabilità e scelta. L’origine e lo scopo. I buchi neri e l’etimologia di necessario. La pro-creazione – “creare al posto di Dio” – il miracolo della

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smissione della vita, il ruolo dei genitori nell’educazione all’amore.

Ecco, Eminenza, i suoi genitori hanno svolto piena-mente questo ruolo: insegnare l’amore…

«Sì, sì, ha ragione, lei è qui per l’intervista. Bene, comin-ciamo dall’inizio: sono nato il 20 luglio 1914 in un picco-lissimo paese, un gruppo di cascine: Centovera, nei pressi di San Giorgio Piacentino. I miei erano contadini e io sono il terzo di cinque figli: Luigi era il più grande, poi Giu-seppe, io, e dopo arrivarono Bianca e Maria».

Il primo ricordo?

«Avevo due anni. Sono io in braccio a Suor Giuseppina, è caldo, è l’ora del dopopranzo e lei cammina lungo un cor-ridoio ombreggiato tenendomi in collo: mi sta portando a dormire».

Suor Giuseppina?

«Quando avevo due anni mio papà, Cesare, fu chia-mato in guerra, andò a combattere sul Grappa. La mamma, Celestina, si trovò da sola con tre figli proprio nel-l’epoca della mietitura e della trebbiatura. Doveva lavo-rare e allora chiese al parroco se io e i miei fratelli pote-vamo stare dalle suore, nell’asilo che in quel periodo, essendo estate, era chiuso. Ci presero. Poi in autunno, con il ridursi del lavoro nei campi, tornammo a casa».

E a fine guerra tornò anche suo padre. Che ricordo ha della sua famiglia in quegli anni?

«Serenità. È la parola che riassume l’atmosfera della nostra casa. Non ho mai sentito papà alzare la voce, né con noi ragazzi né con nessun altro. Era un salariato agricolo, al tempo si diceva capo-bifolco, si occupava dei buoi. Però era di una delicatezza incredibile. Non parlava molto ma faceva spesso battute scherzose. Era sempre pronto ad

ascol-tarci, ad aiuascol-tarci, a capirci. È stato un grande educatore.

Bastava un suo sguardo per placarci. E del resto era stimato da tutti. Aveva trenta contadini sotto di sé e li guidava con una mansuetudine che riusciva anche ad essere autorevo-lezza. Lo stesso faceva con noi figli. La domenica mi accom-pagnava in paese a messa e tutti lo salutavano – Buongiorno Cesarino – e io mi sentivo molto orgoglioso di lui».

E la mamma?

«La mia grande maestra di cuore. Mi ha dato il gusto, il piacere per la conoscenza, lo stupore. Dicevamo assieme le preghiere del mattino e non dimenticava mai di ricor-darmi che cosa meravigliosa fosse l’esserci e avere tutto il mondo a disposizione. Quando ebbi quattro anni mi disse:

è l’ultima volta che preghiamo insieme, ti ho ricevuto dalle mani di Dio, mettiti ogni mattina nelle sue mani e sarai al sicuro. Ma mi è rimasto lo stupore, anche adesso, a 91 anni, non mi sono ancora abituato ad esserci e ogni mat-tina al risveglio mi sorprendo di essere qui con questo uni-verso attorno».

Sua madre ha avuto un ruolo nella sua scelta di di-ventare sacerdote?

«Il primo a parlare del mio futuro sono stato io. Avevo sei anni, mio padre stava girando la polenta al camino e io, infilandomi tra lui e il fuoco, gli ho chiesto: papà, ci vogliono molti soldi per studiare da prete? Lui ha risposto solo sì. Ma la mamma ha aggiunto: è ancora presto, ci pen-serai. Però non parlarne con nessuno perché poi non saresti più libero di scegliere. Non ne parlai più ma io sentivo che il mio futuro era quello. Due anni dopo la mamma riprese il discorso: preparati – mi disse – perché il Signore ha del bene da farti fare. Era il tempo dei giochi, ero un bambino felice e quelle parole non mi spaventarono affatto, al

con-trario. Tutto infatti accadde naturalmente. Avevo comin-ciato la scuola e di solito da noi si smetteva una volta fatta la terza elementare. Ma io avevo una gran voglia di sapere, di conoscere, e allora chiesi a mio padre di poter conti-nuare. Ma la quarta elementare non c’era da noi, per fre-quentarla dovevo fare 7 chilometri a piedi. E la quinta era ancora più lontana e allora mi comprarono la bicicletta.

Ma allora non c’erano o non ci si poteva permettere quelle per bambini. Era una bicicletta da adulti e io non ci arri-vavo. Papà dovette legarmi il sellino più in basso con fil di ferro e saldature. Ma il pensiero di poter andare in semi-nario mi dava forza per superare qualsiasi fatica».

Quali sono i primi valori che ha assimilato?

«Mio padre ci ripeteva sempre che le tre cose più im-portanti nella vita sono: pane, volersi bene e la coscienza netta. Mia madre ci ha insegnato a prenderci cura di noi stessi, ad essere responsabili. Mi riconosco nel cardinal Federigo, in quello che scrive di lui il Manzoni nel capi-tolo XXII dei Promessi Sposi: … badò fin dalla puerizia a quelle parole… e a’ veri beni che vengono trasmesse da una generazione all’altra, nel più elementare insegnamento del-la religione».

Ci racconti della sua casa di bambino.

«Come ogni casa contadina: la grande cucina col cami-no, una scala di legno che portava di sopra dove avevamo tre camere, una per i genitori, una per i fratelli maschi e l’altra per le bambine. E poi c’era il mondo fuori, era fuori che trascorrevamo la maggior parte del tempo».

Con quali giochi?

«Ogni giorno aveva il suo gioco, ogni stagione il suo.

D’inverno c’era la neve con cui costruivamo case e perso-naggi. Poi c’erano le stalle con più di cento mucche, dieci

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cavalli, dodici buoi. Ogni giorno c’era qualcosa che li riguardava e per gli adulti era lavoro ma per noi ragazzi erano giochi e meraviglie. La primavera voleva dire arram-picarsi sugli alberi a mangiare ciliegie. L’estate era cor-rere nei prati con l’erba alta, rotolarsi. Erano giochi anche i piccoli lavori che ci davano da fare, per esempio racco-gliere le foglie di gelso per nutrire i bachi, guardare giorno dopo giorno il formarsi del bozzolo».

E il Natale com’era?

«Non c’erano ‘cose’ particolari, cibo, o regali, nemmeno il presepe. C’era invece una forte preparazione spirituale:

verrà a trovarci colui che ci ha fatto, mormoravamo emo-zionati».

Della guerra ’15-’18 ricorda qualcosa oltre all’assen-za di suo padre?

«Ho visto passare i soldati attraverso i nostri campi dopo Caporetto. Alcuni si fermarono a dormire nelle nostre stalle. Li rifocillammo: ciascuno di noi bambini ne adottò uno, portavamo loro l’acqua, il vino, da mangiare».

Degli anni che seguirono?

«Subito dopo la guerra quelli che erano stati anti-inter-ventisti, soprattutto i socialisti, insultavano i reduci. Ricordo che anche mio padre fu molto amareggiato da un episodio del genere. E poi gli scioperi del ’20-’22. Paura. Violenza.

Non dimenticherò mai lo sciopero dei mungitori: centinaia di mucche che muggivano di dolore perché avevano il latte da scoppiare, ho ancora il loro bramare nelle orecchie, un urlo che strappava il cuore. Il fattore voleva mungerle da se stesso per dare un po’ di sollievo alle povere bestie ma arrivò un corteo dal centro comunale che gli circondò la casa. Lui aveva una figlia morente, i familiari lo costrinsero a nascon-dersi in una cassapanca ma una donna lo denunciò:

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rono, lo trovarono, lo portarono di borgo in borgo sotto la pioggia come un trofeo. Poi c’erano gli altri…»

I fascisti.

«Abbiamo visto l’orrore al mio paese. Li ho visti entrare nelle osterie e tirare fuori quelli che non erano dei loro, li picchiavano con le verghe di saggina e con i manganelli fatti di pelle e riempiti di sabbia per non lasciare i lividi. L’olio di ricino. Pretendevano di fare i moralizzatori ma era chiaro anche ai miei occhi di bambino che ogni cosa era solo un pretesto per esercitare la violenza. E più che mai sentivo l’importanza della famiglia come rifugio, l’oratorio, la par-rocchia. Per me la chiesa era il luogo della pace. Ad un certo punto mio padre fu mandato a lavorare in un’altra cascina e ci trasferimmo. Però nella nuova chiesa i posti da chierichetto erano tutti occupati e allora ogni domenica facevo quattro chilometri a piedi per andare dal ‘mio’ par-roco a servire messa».

Eminenza, mi perdoni, possibile che da bambino sia sempre stato così buono al punto da non ricordare neppure un rimprovero?

«No, no, mi rimproveravano e sempre per la stessa cosa:

arrivavo tardi a cena perché con gli amici, giocando, per-devo la dimensione del tempo».

E a cena?

«Ricordo il profumo del pane, la minestra d’inverno e d’estate tutta quella frutta meravigliosa: ciliegie, pesche, meloni e soprattutto angurie. Per guadagnare un cocomero dovevamo raccoglierne sacchi e sacchi, lavorare almeno due o tre ore. Ma a mia mamma piaceva tanto il cocomero e allora ci davamo tutti da fare. Come le piaceva! Arrivava a mangiare persino il bianco!».

E dopo la cena?

«La mamma si metteva a lavare i piatti, papà attorno al fuoco. Pregavamo. La mamma con le mani nell’acqua non poteva tenere il rosario e allora contava in dialetto… ricor-do che una delle prime volte che tornai dal seminario e la sentii dire roseri io dissi sussiegoso: si dice rosario! e lei: va, va, lasciami dire come sempre ho detto che il Signore mi ca-pisce lo stesso».

A quanti anni è entrato in seminario?

«A 11 anni. I miei fecero un debito di 600 lire con una zia. Che poveretta, non è che fosse ricca, faceva la dome-stica! Però sentivo la responsabilità. Volevo esser bravo per dare soddisfazione ai miei genitori. Il primo anno vinsi un premio e quando arrivai alla cascina lo feci subito vedere alla mamma che stava trebbiando: Premio Scolastico per l’allievo Tonini Ersilio. La vedo come fosse adesso: corre in cucina prende la scopa e si mette a ballare intorno al tavolo cantando».

Ha perduto presto sua mamma.

«Avevo 18 anni. E anche lei era così giovane! Ma era pre-parata. Ero in terza liceo e durante la mietitura si ammalò di peritonite. La operarono, sembrava che fosse salva, ma dopo qualche mese dovette essere operata di nuovo, suben-trò la setticemia. La sera prima chiamò mio padre e gli disse: diciamo insieme il rosario perché domani sera morirò.

E domattina portami i miei figli e le mie gallinelle – chiamava così le mie sorelle. Ci parlò ad uno ad uno. A me affidò i miei due fratelli che pure erano più grandi: trattali – disse – ciascuno alla sua maniera. E voleva dire che dovevo aver pazienza specialmente con Luigi che era di carattere un po’

nervoso. Verso le otto di sera mormorò: cari miei ragazzi…

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e spirò. Quieta, serena. Anche se lasciava 5 figli si affidava alla volontà di Dio».

Dunque non è riuscita a vederla diventare sacer-dote.

«Mancavano ancora cinque anni. Alcuni giorni prima di andarsene mi aveva detto: non ti vedrò prete, forse non ne sono degna. È un’umiltà la sua che ho cercato di non dimenticare. A Salsomaggiore, al mio primo incarico da parroco avevo paura di non essere all’altezza e allora mi dicevo: non guardare i bravi con occhi teneri e i cattivi con occhi irosi, guarda tutti i tuoi parrocchiani come tuo padre e tua madre guardavano te e i tuoi fratelli. Con amore, con pazienza, con comprensione».

Nel documento comunicazione, giornalismo, mass-media (pagine 117-127)