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non amavamo il Palazzo né i deputati perché il loro riscaldamento

Nel documento comunicazione, giornalismo, mass-media (pagine 27-33)

– noi in casa non l’avevamo –

spargeva pulviscolo su tutto il vicinato”

Giulio Andreotti, senatore a vita, è nato a Roma il 14 gennaio 1919 e a partire dall’immediato dopoguerra ha dominato la scena politica italiana per oltre cinquant’anni: sette volte presidente del Consiglio, otto volte ministro della Difesa, cinque volte mini-stro degli Esteri, due volte delle Finanze, del Bilancio e dell’In-dustria, una volta ministro del Tesoro. Non è mai stato segreta-rio della Democrazia Cristiana. Questa intervista è stata fatta nel marzo 2006.

«Il primo ricordo dell’infanzia che mi viene in mente corrisponde al primo giorno di scuola. Mia madre mi accompagnò fin sulla soglia della classe e come è ovvio mi lasciò lì. E io ebbi un senso di vertigine per non dire un vero e proprio svenimento. Furono costretti a riaccompa-gnarmi a casa». Il trauma della separazione dalla mamma adorata non colpisce solo i bambini di oggi, come dimostra il racconto del senatore a vita Giulio Andreotti.

E d’altra parte, senatore, le sue vertigini erano comprensibili: la mamma era tutta la sua famiglia visto che suo padre era morto quando lei aveva solo due anni.

«Sì, mio padre Filippo morì nel 1921: era tornato malato dal servizio di guerra e non ce la fece. Era maestro elementare e senza il suo stipendio non ce la passavamo troppo bene. La pensione di guerra che mia madre ottenne in seguito era ben poca cosa. Mia madre, che si chiamava Rosa Falasca ed era del 1890 – è morta nel ’76 – rimase con tre figli, io ero il più piccolo. Una zia, zia Mariannina, ci ospitò in casa, ma non c’era spazio per tutti e allora mio fratello Francesco, che era il più grande essendo del

’13, fu messo in orfanotrofio. Nell’orfanotrofio romano dei padri Somaschi di San Girolamo Emiliani. Ancora

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vive, ha 93 anni! Ma tornando ad allora, io e mia sorella restammo con la mamma. Soprattutto all’inizio rice-vemmo aiuti essenziali dal parroco di Santa Maria in Aquiro. La parrocchia era come una seconda famiglia per me e il parroco non mi ha aiutato soltanto nelle fac-cende pratiche, ma mi ha anche dato indirizzi impor-tanti per la mia vita».

Dunque il primo giorno di scuola… tornò a casa.

E poi?

«Mia madre mi accompagnò il giorno seguente e tutto andò liscio. Anzi, mi divertii. Scoprii che la scuola mi pia-ceva, soprattutto per merito della maestra, che era bravis-sima. Quando è stato cambiato l’insegnante unico nella scuola primaria a me è sembrato un errore. La maestra è come una vice-mamma, non può essere intercambiabile.

Per me la mia maestra, Orsola Bruscani, resta tuttora un mito, pensi quanto è stata importante!».

Nonostante le difficoltà di quel periodo non ha mai pensato di smettere di studiare?

«Ho potuto studiare grazie alla borsa di studio di orfano di guerra, inoltre lo studio era un modo per rispettare la memoria di mio padre che, come ho detto, era maestro.

Del resto mia mamma riuscì a crescerci cavandosela benis-simo con i pochi soldi che avevamo».

Però dopo la licenza liceale andò a lavorare.

«Sì, decisi di impiegarmi. Già mia madre aveva fatto troppo fino a quel momento. Il primo impiego è del 1937:

ero avventizio all’ufficio delle imposte, in particolare addetto all’imposta sui celibi – come sa, il fascismo, a par-tire dal 1927, istituì l’imposta sul celibato – ma contem-poraneamente mi ero iscritto all’università».

A ben due università.

«Sì, in effetti mi iscrissi alla Lateranense per il Diritto Canonico e all’Università di Stato per la Giurisprudenza».

Presso quest’ultima si è laureato nel ’41 specializ-zandosi in seguito nel Diritto Canonico. E fu ancora nel 1937 che ebbe i primi contatti con la Fuci, la Federa-zione universitaria degli studenti cattolici.

«Sì, ero proprio una matricola quando per la prima volta partecipai, a Firenze, al congresso della Fuci…».

Di cui quattro anni dopo divenne presidente e dove poi conobbe Alcide De Gasperi. Ma torniamo all’in-fanzia. Che rapporto aveva con la fede da bambino?

«È sempre stata forte in me. Sono nato in una famiglia di osservanza cattolica tradizionale, spontanea, semplice.

Avere fede era naturale. Inoltre da bambino ero molto affa-scinato dalle celebrazioni liturgiche: la musica sacra, le processioni, le chiese romane bellissime. Crescendo, come ho detto, ho incontrato sacerdoti di grande spessore che non hanno fatto altro che rafforzare in me la fede. I miei amici più cari seguirono la vocazione religiosa. Io non lo feci solo perché non propenso al celibato».

Mi ha detto che suo fratello oggi ha 93 anni, invece sua sorella morì giovanissima.

«A diciotto anni, si era appena iscritta all’università.

Meningite. Era uscita con le amiche, aveva preso freddo e pioggia, pensavano al solito raffreddamento e anche quando si resero conto che si trattava d’altro non ci fu nulla da fare, a quei tempi i rimedi erano limitati. Dunque si ammalò e in cinque giorni la malattia la portò via.

Provavo per lei una grande tenerezza e la provo ancora oggi».

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Dove abitava durante l’infanzia?

«Sono nato e ho vissuto per diciotto anni a due passi da Montecitorio».

Un destino, il suo.

«A dire il vero non amavamo il Palazzo né i deputati perché il loro riscaldamento – noi in casa non l’avevamo – spargeva pulviscolo su tutto il vicinato».

Dove e a che cosa giocava?

«Roma era molto meno popolata di oggi e ovviamente le auto erano pochissime e quindi potevamo giocare a ‘pal-letta’ e cioè al calcio con una palla fatta di stracci tenuti insieme alla meglio da uno spago. E giocavamo per strada, pomeriggi interi. Anche se personalmente ero piuttosto una schiappa».

Quando è diventato tifoso romanista?

«A otto anni e cioè quando la squadra della Roma è stata fondata, nel 1927. I giocatori venivano a mangiare in una trattoria di piazza Firenze, sotto casa mia, e noi ragazzi correvamo a guardarli. E poi in quel rione tutti era-vamo romanisti. Andavo al Testaccio a vederli giocare».

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