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chiamiamo ancora il desco”

Nel documento comunicazione, giornalismo, mass-media (pagine 43-53)

Giuseppe Raimondo Vittorio Baudo è nato a Militello in Val di Catania il 7 giugno 1936. Laureato in Legge, già da studente comincia a frequentare il mondo dello spettacolo come attore e come presentatore, studia pianoforte e alla fine degli anni Cin-quanta entra come pianista e cantante nell’orchestra Moon Light con cui fa la sua prima apparizione televisiva nel 1959. Da allora non ha mai abbandonato il palcoscenico televisivo se non per bre-vissimi periodi. Ha condotto tutti i più importanti varietà della Rai, dal mitico Settevoci fino al recente Serata d’onore. Ha condotto per 13 volte il Festival di Sanremo. Questa intervista, inedita, è stata realizzata nel maggio 2006.

Narra la leggenda televisiva che il giorno prima di lau-rearsi in Giurisprudenza, Giuseppe Baudo detto Pippo, si recò a Erice per presentare una serata dedicata a Miss Sicilia. Lo spettacolo terminò assai tardi e il giovanotto, privo di mezzo proprio, trovò un passaggio su un camion-cino che trasportava frutta e verdura. Riuscì persino a dormire in mezzo alle cassette di arance e zucchine, giun-gendo a Catania appena in tempo per recarsi all’università a discutere la tesi. Era il 1959, Pippo aveva dunque 23 anni essendo nato il 7 giugno 1936 a Militello in Val di Catania. Per sua fortuna al tempo non possedeva ancora giacche con i lustrini, e l’abito scuro da presentatore fece la sua figura anche davanti alla commissione di laurea.

Suo padre, l’avvocato Giovanni, che lo attendeva nel-l’androne della facoltà, quel mattino era comprensibil-mente un po’ in ansia anche se ormai da tempo sapeva che il suo unico figlio non aveva nessuna intenzione di eserci-tare la professione di famiglia. Anche le lacrime di mamma Enzia non era soltanto di gioia per il diploma appena otte-nuto. C’era, in quelle lacrime di commozione, pure un po’

di rimpianto: lei infatti avrebbe voluto – come ogni mamma al mondo – che il suo ragazzo diventasse dottore, nel senso di medico. Ma lui – strano giovane – aveva

inten-zione di darsi allo spettacolo e anzi meditava addirittura di tentare la strada della televisione.

Fin da piccolo aveva avuto quella mania di cantare, bal-lare, suonare, organizzare spettacolini che conduceva per familiari e vicini in piedi sul tavolo di cucina. Ma i coniugi Baudo pensavano fosse una passione di fanciullo estro-verso, non certo l’esternarsi di un talento precoce né tan-tomeno i prodromi di quello che sarebbe divenuto il suo mestiere. Ma a partire dal ’56, da quando in casa era arri-vato quel nuovo elettrodomestico chiamato televisore, Pippo si era fatto sempre più determinato: voleva diventare come quell’americano dei quiz, quel Mike Bongiorno, e ancora di più voleva diventare come Mario Riva, il con-duttore del Musichiere.

«È vero – ci racconta Pippo Baudo subito dopo la mara-tona di Domenica In – i miei era un po’ sconcertati. Ero figlio unico e quindi tutta l’attenzione era concentrata su di me, ero molto responsabilizzato da questo punto di vista.

Per mio padre avvocato sembrava naturale che dovessi anch’io fare l’avvocato tanto più che studiavo Legge. La mamma invece sognava che diventassi medico.E quindi scegliere la carriera dello spettacolo non è stato sempli-cissimo sebbene i miei abbiano sempre rispettato le mie scelte. Ma anche se non me l’hanno fatto pesare, so di avere dato loro un dolore scegliendo un lavoro così lontano dalla loro realtà, così incerto come doveva sembrare ai loro occhi e come effettivamente era. Poi grazie al cielo le cose sono andate bene e io ho avuto la fortuna e il tempo di dare ai miei molte soddisfazioni e – non è un vanto, ma una semplice testimonianza – anche di essere molto gene-roso: sono stato così fortunato non solo da poter restituire quello che avevo avuto, ma anche da dare loro quello che

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non avevano mai avuto prima. In questo modo penso di averli ripagati anche per l’iniziale delusione sofferta».

Un rapido ritratto della sua famiglia così come la ricorda ai tempi della sua infanzia.

«Una famiglia borghese, la mamma una casalinga, mio padre molto aperto per essere un siciliano nato ai primi del Novecento: moderno, amava molto leggere e anche a me ha cercato di trasmettere l’importanza dello studio. Già in terza media ricordo che leggevamo insieme la storia della letteratura del De Sanctis che non ho mai più dimenti-cata. Mia madre era bellissima: alta, belle gambe. Mio padre se ne innamorò a prima vista e dopo un mese dal primo incontro erano già sposati. Lui era un gran signore, con baffi e occhiali, il classico avvocato, elegantissimo».

Lei è nato a Militello, in provincia di Catania. Fino a quando ci ha vissuto?

«Fino a 14 anni, poi ci siamo trasferiti a Catania in modo che io potessi proseguire gli studi al liceo classico e poi all’università. Però quello da Militello è stato un distacco graduale. In quinta ginnasio abitavo dalla zia a Catania e facevo molto il pendolare, poi però i miei deci-sero di venire loro stessi in città in modo da facilitarmi la vita. E credo che poi si sia rivelata una scelta buona anche per i miei perché mio padre a Catania ha potuto allargare i suoi affari, come avvocato ha avuto maggiori soddisfazioni».

Come era la casa dove abitava da piccolo?

«La casa di quando ero bambino, quella di Militello, la ricordo benissimo: era una casa a raggiera. Si entrava e a destra c’era la sala da pranzo con una grande dispensa dove tenevamo il pane e la cucina contigua, in pratica

un’unica stanza divisa da un arco dove da una parte sta-vano i fornelli e dall’altra il tavolo e le sedie; a sinistra c’e-rano il salotto e lo studio di mio padre, in fondo la camera dei miei. Io non avevo una camera, fino a 14 anni ho dor-mito con i genitori!».

La sua stanza preferita?

«Quella che mi piaceva di più di quella casa era la lavan-deria, il piano di sopra dove si lavavano e si stendevano i panni. Era un luogo magico per giocare. Ci passavo interi pomeriggi. Ero un bambino libero».

Giocava da solo?

«No, avevo molti amici. Oltre alla lavanderia, tutto il paese era il nostro campo di gioco. Non c’erano pericoli, io e i miei amici potevamo correre ovunque, nasconderci, sparire per ore. Giocavamo a sottomuro, cioè a lanciare la monetina contro il muro e poi a pallone, spesso senza scarpe oppure con le scarpe vecchie che stavano strette per non rovinare quelle nuove. Certamente è stata un’in-fanzia molto spartana. Oggi verrebbe definita povera, ma non la sentivamo come tale. Oltre al calcio la nostra pas-sione era la bicicletta: ci dividevamo in coppiani e barta-liani, tifosi di Coppi e tifosi di Bartali, e facevamo corse a non finire da un capo all’altro del paese. Ricordo che andavo a letto molto presto e mi addormentavo imme-diatamente, sfinito».

E la scuola?

«Mio padre non volle mandarmi a scuola dalle suore sebbene quella fosse considerata una scuola migliore rispetto a quella pubblica. Voleva per me un’istruzione laica. Ero bravo quasi in tutte le materie, ero negato sol-tanto per la matematica».

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Il libro di quell’epoca che ricorda meglio?

«Il primo libro che ho letto o che almeno ricordo è stato Gulliver, sì, Le avventure di Gulliver della casa editrice La Scuola. Mi colpì perché io ero già più alto dei miei coeta-nei e allora quell’uomo gigantesco mi rimase impresso, in qualche modo sentivo di potermici identificare e poi c’e-rano i viaggi, le avventure, lo ricordo come un libro molto bello, su cui fantasticavo».

E il cibo?

«Del cibo ricordo soprattutto le grandi trovate di mia madre: riusciva ad usare tutti gli scarti e creava cose buo-nissime: soprattutto il pane non veniva mai buttato. Ricordo allora il pancotto, la zuppa… la carne la mangiavamo una volta al mese, la domenica al massimo c’era la trippa. Però il piatto preferito della mia infanzia era la caponatina di mamma, con le melanzane, i peperoni, le zucchine. Man-giavamo in cucina, in quella che veniva chiamata sala da pranzo ma che come ho detto era il tinello contiguo alla cucina, insomma quello che noi di una certa età in qualche angolo della memoria chiamiamo ancora il desco».

Come erano le feste?

«Ricordo soprattutto le feste del paese, la festa della Madonna e del Cristo e la festa di Carnevale. Da noi poi la Befana, la vecchia che porta i regali ai bambini, è per i Morti, ai primi di Novembre. Di quella festa ricordo la Pasta Reale, preziosissima fatta di mandorle e zucchero modellata in varie forme e colorata. Poi c’era la mostarda di vino, i fichi d’India, la frutta secca».

Prima della televisione che cosa facevate la sera?

«La sera, soprattutto il sabato e la domenica, i grandi gio-cavano a carte, a volte erano solo gli uomini, a volte invece venivano anche le vicine e allora giocava anche mia madre.

Si riunivano ora in una casa ora in un’altra. Noi ragazzi, che eravamo stati fuori tutto il giorno, crollavamo a letto oppure facevamo i compiti che non avevamo fatto nel pomeriggio.

In estate invece c’era il rito delle visite, andavamo dai vicini, dalle zie. Per percorrere poche decine di metri ci impiega-vamo ore, ad ogni porta ci fermavano e gli adulti si scam-biavano convenevoli, sempre gli stessi… no, decisamente non c’erano ritmi televisivi durante quelle serate».

Quale indicherebbe come il momento più bello della sua infanzia?

«Il momento più bello della mia infanzia? È curioso, ma credo che si sia materializzato quando ero già adulto e anche assai ben avviato nella professione. È stato quando il paese di Militello mi ha insignito di una medaglia d’oro proprio a ragione della mia carriera. C’è stata una grande cerimonia con il sindaco e per i miei genitori e per zia Rosa è stata una grandissima commozione. In fondo l’avermi visto in televisione per loro non era così importante come vedermi omaggiato nel nostro piccolo paese. Credo che a loro sembrasse una cosa più vera, più reale, e poi c’erano tutti quelli che ci conoscevano, non era il successo ano-nimo della tv, era quello concreto perché riconosciuto dai vicini e dai parenti. I miei erano così felici che anche per me è diventato un momento di grandissima emozione e, sì, mi sono sentito un po’ come se fossi tornato indietro negli anni, come quando ricevevo le lodi da ragazzino che tanto mi inorgoglivano».

Zia Rosa: per lei è stata una figura molto importante.

«Sì, zia Rosa è donna Rosa, proprio quella a cui poi ho dedicato la canzone divenuta celebre. Per me è stata una specie di seconda mamma».

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Che cosa pensa di avere imparato dalla sua famiglia?

«Da mio padre ho imparato il rigore, la preparazione, il dovere di fare bene quello che si decide di fare. Lo ricordo ancora prima delle cause che doveva andare a discutere:

studiava e studiava come fosse stato un esordiente anche negli ultimi anni in cui ha esercitato. Voleva sapere tutto, non farsi mai trovare impreparato, anzi, doveva sapere sempre una cosa in più del pubblico ministero o persino degli stessi giudici. Quindi rigore, serietà sul lavoro e senso dell’onore. Dalla mamma invece credo di avere imparato il senso dell’economia. Non sono un avaro, ma non sono nemmeno uno spendaccione, non mi piace lo spreco, ed è più una questione etica che economica».

Quanto sono presenti i suoi genitori nella sua vita attuale?

«Penso a loro ogni giorno. Ho le loro foto in ufficio, li sento sempre molto vicini. Io non ho abbandonato loro e sono certo che neppure loro hanno abbandonato me: sono convinto che pur negli alti e bassi della vita, per come mi sono andate le cose, mi sono sempre rimasti vicini, anche dopo la loro scomparsa».

Nel documento comunicazione, giornalismo, mass-media (pagine 43-53)