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oggi mi avrebbero accusato di bullismo”

Nel documento comunicazione, giornalismo, mass-media (pagine 79-87)

È una delle menti più brillanti della comunità scientifica ita-liana: prima donna a dirigere un osservatorio astronomico, ha svolto e svolge anche un’importante attività di divulgazione. Mar-gherita Hack, nata a Firenze il 12 giugno 1922, si è laureata in Fisica nel capoluogo toscano con una tesi di astrofisica sulle cefeidi, una classe di stelle variabili. Il lavoro fu svolto all’Osser-vatorio astronomico di Arcetri dove cominciò a occuparsi di spet-troscopia stellare, quello che sarebbe diventato il suo principale campo di ricerca. Dopo aver insegnato presso le università di Firenze e di Milano, nel 1964 fu chiamata a insegnare all’ateneo di Trieste diventando direttore dell’Osservatorio astronomico della città. Alla scrittura di testi universitari – alcuni dei suoi trattati sono a tutt’oggi considerati fondamentali dalla società scientifica internazionale – ha sempre alternato quella di testi divulgativi.

L’intervista è del giugno 2007.

Anticonformista, ironica, sincera fino ad essere ruvida, lontana anni luce – è il caso di dirlo – da ogni retorica, che si parli di stelle o che si parli della mamma.

«Il ricordo più remoto che ho di mia madre? Avrò avuto due anni e mezzo, mio padre tornava tardi dal lavoro, e ogni sera, mentre lo aspettavamo, la mamma suonava il pianoforte. Male. Non aveva nessuna predisposizione, ma lo suonava lo stesso. E mi faceva venire tanto sonno. Una barba! Mi ricordo questo gran sonno ed è un sonno che provo ancora quando sento suonare un pianoforte, anche a distanza».

Margherita Hack, nata a Firenze il 12 giugno del 1922, deve essere stata una bambina piuttosto vivace. A dir poco.

Nel salotto della sua casa di Trieste occupato quasi intera-mente da stalagmiti di libri che parlano di comete e di poeti, di buchi neri e di filosofia (i volumi umanistici appartengono al marito letterato Aldo De Rosa), racconta di aver girato sette o otto asili all’età di quattro, cinque anni. Un paio di giorni e poi, suore o laiche, le maestre invitavano la mamma a non portarla più.

«Ma io – dice ridacchiando – non ricordo di essere stata così tremenda. Probabilmente ero diversa dalle altre bam-bine perché i miei credevano in un’educazione improntata alla libertà, anche di movimento. E infatti io salivo sugli

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alberi, sognavo di volare… vicino a casa mia, nel quartiere di Campo di Marte a Firenze, c’era una pista di atterraggio per piccoli aerei, quelli con le ali di tela. Mi infilavo nel cer-chio ma invece di farlo girare imitavo il rumore del motore dell’aereo, decollavo… no, adesso non dica che ero già attratta dal firmamento. Tutti i bambini sognano di volare».

Membro dell’Unione Atei e Agnostici Razionalisti, figuriamoci se crede alle coincidenze astrali. Dunque è soltanto un caso che sia nata sull’angolo di via Cen-tostelle e che la sua seconda casa fosse in via Leo-nardo Ximenes, astronomo. Va bene. Torniamo alla sua famiglia.

«Mia madre, Maria Luisa Poggesi, classe 1887, era mae-stra e diplomata alle Belle Arti, ha insegnato e poi si è impiegata al telegrafo fino a che non sono nata io. Il babbo, Roberto, era impiegato alla Valdarno, una società per l’e-nergia elettrica (il nonno era svizzero-tedesco, per questo il cognome Hack). Ma nel ’27 il babbo fu licenziato perché non aveva voluto prendere la tessera del Partito fascista.

Così la mamma dovette cercarsi un lavoro e si ingegnò come miniaturista agli Uffizi, copiava i capolavori e li ven-deva ai turisti. È così che ha campato la famiglia fino a che non mi sono laureata e ho ottenuto il primo incarico».

I suoi erano affiliati alla Società Teosofica e anche questo ha inciso sulla sua educazione.

«Inizialmente la mamma era cattolica e papà prote-stante, ma nessuno dei due era soddisfatto. Vicino alla nostra casa abitava Gennaro, un teosofo napoletano che li avvicinò a questa filosofia per certi versi simile all’indui-smo: erano vegetariani, credevano nella reincarnazione, ma per loro non esistevano differenze di razza, di etnia,

religiose, tanto meno di casta. Io sono cresciuta in quel-l’ambiente ma mi hanno fatto conoscere anche la religione valdese e la cattolica. E comunque io poi ho lasciato tutto, sono diventata atea».

Figlia unica, all’asilo non la volevano, anche i primi tre anni di scuola li ha fatti da privatista, a casa.

Ricorda di aver sofferto di solitudine?

«Quella della scuola non fu una scelta. Il primo anno la feci a casa perché non avevo ancora compiuto i sei anni e poi c’era il babbo a cui forse faceva piacere potersi occu-pare della mia educazione visto che era disoccupato. Ma mi aiutava anche una maestra, Cecilia Bartoli, che ci dava il programma, i libri. L’anno seguente mi ammalai di bron-chite e per quello non mi mandarono più a scuola e lo stesso successe in terza. Però nel frattempo avevamo cam-biato casa e in via Ximenes c’era un giardino con molti bambini. Giocavamo ai pirati, dicevamo: All’arrembaggio!

C’era una specie di cantina scura dove ci si poteva nascon-dere. Insomma, non ricordo momenti di solitudine».

Ma quel cambio di abitazione non fu del tutto indolore.

«Probabilmente gli impiegati della società elettrica ave-vano l’energia a prezzi favorevoli o magari gratis, perché nella mia prima casa mi ricordo tanta luce, uno sfavillio di lampadari in tutte le stanze. Dopo il licenziamento do-vemmo lasciare l’appartamento perché non potevamo più permetterci l’affitto. Andammo in una vecchia casa che era appartenuta al mio nonno materno, in un quartiere popolare. E lì c’erano lampadine fioche, sembrava sempre buio. Non c’era riscaldamento. Il gabinetto era fatto da una lastra di marmo con due buchi e sopra una ciambella di paglia, senza sciacquone. E non passava più il venditore di

dolci, quello che gridava: “Donne comprateli oggi che domani vo’ in Perù”».

Fu in quel periodo che cominciò ad andare a scuola regolarmente.

«La presidentessa della società teosofica a quel tempo era la contessa Gamberini Cavallini a cui era morta una figlia. Per qualche ragione, siccome mio padre fungeva da segretario e io ero spesso a casa della contessa, sede della società, lei voleva assumere un ruolo di guida nei miei confronti. Fu lei che insistette perché andassi in quarta ele-mentare dalle suore di Nevers, scuola privata piena di ragazzini tutti perbene, dei signorini. Io ero abituata a giocare per strada, quelli erano diversi, non mi piacevano, non mi trovavo bene e a dirla tutta non sopportavo nem-meno la contessa».

È stata una Piccola Italiana?

«Eccome! Anzi nel periodo in cui facevo la scuola da privatista non partecipavo alle attività e ero molto invi-diosa. Mi mettevo una gonna nera e la camicetta bianca e poi mi facevo un distintivo di cartone bianco rosso e verde e lo attaccavo al taschino per imitare le mie coetanee. Poi, frequentando la scuola, presi ad andare alle adunate e mi divertivo tantissimo a marciare, sfilare, destra, sinistra, col mantello lungo fino ai piedi e la papalina nera. E poi c’erano i saggi ginnici, fu così che cominciai l’atletica…».

Ottenendo risultati importanti nel salto in alto e nel salto in lungo. Ma c’era un altro luogo di ritrovo per i ragazzi che lei frequentava e dove ha conosciuto suo marito.

«Il Giardino del Bobolino. Avevo undici anni quando fui avvicinata da un gruppetto di ragazzi tra cui, appunto, un tredicenne di nome Aldo. Siccome io avevo il pallone mi

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proposero di giocare insieme. Formammo un gruppo e Aldo e io ci trovavamo bene insieme, facevamo a guardie e ladri e noi due eravamo sempre i ladri. Poi il padre di Aldo fu trasferito e anche lui se ne andò e non lo rividi per quasi dieci anni. Ci siamo ritrovati all’università e abbiamo cominciato a parlare, parlare, anzi a litigare, a discutere di politica, di religione, di tutto, e non abbiamo più smesso».

Le vacanze?

«Finché il babbo ha lavorato siamo andati d’estate a Castiglioncello. Ricordo lunghe passeggiate in pineta. È lì che mio padre mi ha insegnato a conoscere e ad amare i cani, come avvicinarli, come fare amicizia. Poi ricordo dei ragazzi che avevano delle barchette a vela e io li invidiavo tanto e allora prendevo i gusci dei pinoli e facevo galleg-giare quelli, il resto lo immaginavo».

Andiamo adesso al ginnasio e poi al liceo classico.

«Ero già una capo-popolo. A Carnevale facevamo scherzi terribili a quelli che consideravamo ‘vecchi’… poi il clima cambiò. Nel ’38 vidi cacciare da scuola la mia insegnante di scienze, Enrica Calabresi, perché ebrea. La incarcerarono e lei si uccise. E con lei furono cacciati anche alcuni com-pagni di classe. Fu lì che diventai anti-fascista. Avrei dovuto dare la maturità nell’estate del ’40, ma siccome in giugno eravamo entrati in guerra, l’esame fu cancellato. Avevo stu-diato tanto! Quasi quasi mi dispiacque».

E non pensava neppure lontanamente alle stelle, nemmeno a una facoltà scientifica.

«In casa mia avevo sentito parlare solo di Lettere. Si può dire che non sapevo nemmeno dell’esistenza di altre facoltà. E poi ero brava a scrivere, mi divertito a fare le cro-nache delle partite della Fiorentina. I miei pensavano che avrei fatto la giornalista sportiva. Insomma mi iscrissi a

Lettere. Andai alla prima lezione, quella di Giuseppe De Robertis che parlò dei ‘Pesci rossi’ di Emilio Cecchi. Ma fu una lezione così noiosa che uscii e mi dissi: ma che me ne importa a me di questa roba? Capii di aver sbagliato strada. E allora, un po’ perché mi piacevano Fisica e Mate-matica, un po’ perché la mia compagna di banco, che conoscevo dalle elementari, si era iscritta a Fisica, anch’io optai per quella facoltà. Quanto alle stelle mi ci sono dedi-cata per caso: il mio professore mi propose una tesi di astrofisica e dà lì è cominciato tutto».

E la sua compagna?

«Tina Schwaner. Il padre era americano e infatti quando l’America entrò in guerra lei lasciò l’Italia. Ma l’ho incon-trata molti anni dopo, a Princeton. Non si era laureata in Fisica, bensì in Letteratura ispanica e faceva la bibliote-caria. È morta l’anno scorso. Siamo rimaste sempre in contatto. A dire la verità quando eravamo bambine io la facevo impazzire: lei aveva una treccia lunghissima, le arrivava sotto il ginocchio. Io stavo nel banco dietro a lei e con questa treccia la tormentavo: la tiravo, la inzuppavo nel calamaio… lei piangeva, sua madre venne a lamen-tarsi dalla mia per questo comportamento… oggi mi avreb-bero accusato di bullismo».

E poi sostiene di non sapere perché l’hanno cacciata da tutti gli asili del Regno.

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