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la moglie del vinaio…”

Nel documento comunicazione, giornalismo, mass-media (pagine 69-79)

Manlio Cancogni, di famiglia versiliese, è nato a Bologna nel 1916, ha vissuto a Roma, dove si è laureato, poi a Firenze, a New York. Attualmente vive con la moglie Rori, sposata nel 1943, a Marina di Pietrasanta. Inviato speciale per L’Europeo e per L’E-spresso, non ha però mai tradito il primo amore, la narrativa. Il libro che lo ha confermato scrittore di razza è stato, nel 1956, La carriera di Pimlico. Tra i suoi romanzi pluripremiati Parlami, dimmi qualcosa; Allegri, gioventù; Quella strana felicità. Tra i più recenti Gli scervellati e Sposi a Manhattan. L’intervista è del gennaio 2006.

1943, l’Italia è in guerra. Per l’Asse si delinea la sconfitta che diverrà ben presto irreparabile. Molti se ne rallegrano e in particolare una generazione di giovani italiani «tra i venti e i trent’anni, più o meno artisti, letterati o filosofi, antifascisti per temperamento più che per una ragionata scelta politica…». Tra loro c’è Manlio Cancogni, giornalista e futuro mirabile acutissimo scrittore. «Dovevano passare anni, decenni, prima che io cominciassi a riflettere sull’a-nomalia di una situazione – psicologica e morale, prima ancora che politica – per cui una parte dei figli di un paese (e non i peggiori forse), erano toto corde contro la patria. E la consapevolezza che la sconfitta avrebbe comportato una rovina senza pari per l’Italia, non solo per il fascismo, anzi-ché frenare questo desiderio, lo dilatava». Così riflette Man-lio Cancogni. Una generazione di antifascisti, dunque, ma anche di anti-italiani: un tema di enorme importanza per la nostra storia recente e su cui assai poco si è riflettuto e che Cancogni ha affrontato in diversi suoi libri autobiografici, in particolare Gli scervellati e il più recente Sposi a Manhat-tan dove raccoglie ricordi che sono stalattiti della memoria tanto sono fusi forma e contenuto: belli, aguzzi, leggeri e portentosi, trasparenti quanto intimamente rattenuti. E legati magicamente dal ‘libro dei libri’, I promessi sposi, una lettura che accompagna Cancogni fin dall’infanzia.

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In Sposi a Manhattan c’è la guerra ma c’è anche l’a-more giovanissimo per Rori, appunto ‘sposa promessa’.

Un legame quello tra Manlio e Rori nato prima della guerra e che dura a tutt’oggi, dopo sessantatre anni di matrimo-nio. Ci sono gli anni dell’insegnamento, ad Atene e poi a New York. E c’è l’ultimo drammatico capitolo, quello in cui, per la prima volta, Cancogni parla della morte della figlia Annapaola – la Pimpi, come veniva chiamata in fami-glia – nel 1993 in un ospedale di Manhattan.

Dell’infanzia, invece, Manlio Cancogni scrive poco, solo qualche accenno, indizi che tocca disseppellire da sotto una coltre di riservatezza fattasi più ruvida con il dolore, con l’età, il disincanto.

Ma merita davvero di essere rievocato il suo primo ricordo: è addirittura la Marcia su Roma!

«Avevo sei anni – racconta mentre dalla porta finestra della sua casa a Fiumetto, Marina di Pietrasanta, guar-diamo il furioso mare d’inverno che pare voler divorare la spiaggia deserta – e vivevamo, appunto, a Roma, in via Donizetti. Rammento la vigilia della marcia, era piovoso, uscimmo per accompagnare la mamma a fare compere.

Mia sorella Maria Grazia, che era di poco più grande di me, era eccitatissima e continuava a dire che sarebbe scop-piata la rivoluzione. Il giorno dopo fummo svegliati dalle grida della donna di servizio: in via Scarlatti – che vede-vamo dalle nostre finestre – c’erano uomini armati che puntavano i fucili intimando di chiudere persiane e scuri.

Ricordo il suono di una tromba in lontananza. Nel pome-riggio uscimmo di nuovo: c’erano i fascisti accampati sui marciapiedi con fiaschi di vino, mangiavano, bevevano. Da quel momento, a sei anni, mi considerai indubitabilmente antifascista. Come mio padre. Soltanto molti anni dopo ho

preso coscienza di quel mio antifascismo che era in realtà soprattutto un anti. E, dopo essere stato socialista, comu-nista, liberale e altro ancora, ho finito come anti».

In uno dei suoi libri lei ricorda la morte di suo padre, Giuseppe, avvenuta nel 1967: “… trovandomi in America non avevo fatto in tempo a rivederlo, per chiedergli per-dono delle mie colpe nei suoi confronti, come più volte m’ero ripromesso di fare, assicurandolo del mio affetto».

Perché sentiva il bisogno di chiedergli perdono?

«Da piccolo avevo paura di mio padre, mi sembrava severo, lo temevo molto. In casa non parlavo, non comu-nicavo con nessuno. Neppure con mia madre. Ho comin-ciato a parlare con mio padre attorno ai diciotto anni ma solo per contestarlo, per discutere, per litigare. Poi non c’è stato più modo di chiarirsi, neppure quando io, adulto, ho capito che in realtà era soprattutto timido, chiuso. Tal-volta era collerico, ma fondamentalmente un buon uomo, intelligente, colto, leggeva molto, aveva una passione per l’arte. Mi portava a visitare musei, gallerie, a vedere affre-schi. Da lui ho ereditato l’amore per la natura, per il mare, le montagne. Il giorno, la luce. Camminare, la sensazione di stupore davanti all’esistenza. La sera dopo cena ave-vamo l’abitudine di leggere tutti attorno al tavolo. Quando eravamo piccoli lui leggeva a voce alta ed è dalla sua voce che ho ascoltato per la prima volta I promessi sposi. Forse mio padre avrebbe potuto essere anche un uomo felice ma il matrimonio con mia madre lo aveva modificato, era diventato taciturno, solitario, pessimista».

Perché sua madre, Maria, com’era?

«Una donna triste, nevrastenica, depressa. Magra, con un viso melanconico. Non avevo un rapporto sereno nep-pure con lei. Si occupava soprattutto di Maria Grazia che

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era cagionevole di salute, io stavo molto per conto mio. In seguito ho capito che era intelligente, penetrante, ma sem-pre troppo tardi. Pesava su quei rapporti l’anno in cui ero stato dato a balia a Forte dei Marmi. Il primo anno di vita, infatti, lo avevo trascorso con Ademia, la moglie del vinaio, che stava proprio in piazza, dove ora c’è l’Hotel Bristol. Mia madre non aveva latte. I miei erano a Roma, ma essendo originari della Versilia mi avevano dato a balia qui. Però quando tornai in quella che era la vera famiglia per me fu un trauma. Così mi hanno sempre raccontato. Piangevo continuamente. Mio padre, mia madre e anche le due sorelle – dopo di me nacque Franca – erano degli estranei, non ero affezionato, diciamo che non ero affettivo. Del resto entrambi i miei genitori erano sostanzialmente aso-ciali. E anch’io lo sono, mi imbarazza stare con gli altri, sto volentieri solo. Da mia madre ho ereditato la malinconia, la tendenza all’introspezione, l’ansia. Proprio stanotte li ho sognati, i miei genitori. Eravamo in viaggio in Israele».

Un’infanzia non troppo felice, illuminata però dalle estati.

«L’estate era il momento della felicità perché da Roma venivamo a Fiumetto, al mare. Per tutto l’anno vivevo nel-l’attesa di poter prendere il treno per Viareggio, il 15 di giu-gno. Restavo fino a metà settembre. La vacanza al mare era il caposaldo della mia vita. Qui c’era la mia vera casa anche se in realtà non avevamo affatto una casa, ne prendevamo una in affitto diversa ogni anno. Però c’era quella della zia Annetta, con le cugine Carolina e Antonietta, ed era quello per me il centro del mondo. E il ritorno a Roma, che allora odiavo, era un giorno di disperazione, ero paraliz-zato dalla tristezza».

Cosa faceva al mare?

«Andavamo in spiaggia mattina e pomeriggio. Io gio-cavo con i ragazzini del posto e con i figli dei rari villeg-gianti. A calcio, poi la pista con le palline dei ciclisti, ero un campione. E poi corse, salti… a otto anni mi ruppi un braccio saltando da un patino. Invece non ho mai imparato bene a nuotare… insomma stavo a galla, ma l’acqua non era il mio elemento. Nel periodo in cui ci raggiungeva mio padre facevo con lui lunghe passeggiate sulla spiaggia.

Una volta, avrò avuto otto anni, vidi una donna annegata sulla riva. Era coperta da un telo, ma mio padre per non so quale curiosità chiese che fosse sollevato. Così la vidi: era vestita completamente, aveva un paio di stivaletti, gli occhi aperti, straniera, dissero, con i capelli raccolti in una croc-chia stranamente ancora ben pettinata, in ordine».

Com’era la Versilia nei primi anni Venti?

Le dune di sabbia arrivavano a lambire la soglia delle case che qui, a Marina di Pietrasanta, erano poche. Solo nel

’31-’32 fecero il viale che separò la spiaggia dalle abitazioni.

Prima c’erano giardini, orti. E dietro la macchia, anzi un vero e proprio bosco ceduo. Solo una parte era pineta, poi c’era una foresta fitta e intricata di olmi, ontani, pioppi, platani, aceri, con un odore forte, fresco. Sul mare pochis-simi gli stabilimenti balneari. Per il resto ciascuno si faceva la propria capanna col falasco, il legno di pino, il tetto di fo-glie. A fine estate le capanne venivano bruciate. E poi c’era-no le ‘razze’ che erac’era-no stuoie rigide tenute su da un lato da un puntello e servivano per fare ombra. Una volta a stagio-ne andavamo a piedi, lungo la riva, a Viareggio. C’erano lunghi tratti di spiaggia completamente deserti, poi arriva-vamo a Viareggio e pareva che ci fosse una folla enorme. C’e-ra il tC’e-ram a una rotaia che portava fino a Forte dei Marmi».

76 Com’era la cucina in casa sua?

«Ottima, si mangiava benissimo sia a casa mia sia da zia Annetta e da zia Adele, a Motrone. Ero golosissimo dei ‘cro-stini alla provatura’ che oggi non si usano più. Si facevano con la mozzarella e la salsa d’acciughe. Ricordo il cavolo ripieno, le cotolette di maiale con le rape e i tordelli veri, quelli con la pasta sottile sottile e il ripieno semplice di bie-tole, rosso d’uovo e parmigiano. La zia Annetta faceva dei dolci stupendi e una volta a stagione, a Sant’Anna, organiz-zava un pranzo con moltissime persone che finiva con un dolce con la crosta di cioccolata glassata. Una volta ne man-giai così tanto che stava per venirmi un colpo apoplettico».

E il primo giorno di scuola lo ricorda?

«Lo ricordo fin troppo bene. A Roma, alla scuola Prin-cipe di Piemonte sulla via Salaria. Prima di entrare ci radunarono tutti nel cortile e fecero l’appello inviando via via i ragazzi nelle classi. Tutti salirono, rimasi solo nel cortile: non esistevo, ero sgomento. Un bidello si impietosì e mi fece fare il giro delle classi e finalmente trovai una col-locazione. Avevo dato gli esami per entrare direttamente in seconda, con la maestra Balbolani, molto premurosa».

Oltre a I promessi sposi che altri libri ricorda del-l’infanzia e dell’adolescenza?

«Salgari. I pirati della Malesia fu un’emozione enorme.

Invece da piccolo Pinocchio non mi piacque. Ricordo che preferivo Lucignolo. E mi piaceva Ciuffettino e poi Il gior-nalino di Gian Burrasca. Ma i miei libri preferiti erano gli atlanti. Con l’atlante viaggiavo viaggiavo…».

Quando ha cominciato a pensare alla scrittura?

«Tardi. Ero destinato a fare l’ufficiale di Marina, me lo avevano sempre detto in casa che sarei andato all’Accade-mia di Livorno. Invece a 18 anni, studiando per la

matu-rità, mi calò improvvisamente la vista e dovetti rinunciare all’Accademia. A quel tempo c’era un professore di ita-liano al liceo, Nicola Barone, che mi suggeriva di andare a Lettere classiche. Accennai questa cosa in famiglia ma dis-sero subito di no, se non potevo andare all’Accademia allora dovevo fare Legge come mio padre che era impie-gato al Ministero delle poste ma era avvocato. E così fu.

Però da laureato in Legge vinsi un concorso per insegnare Storia e Filosofia e a 24 anni venni assegnato a una scuola a Sarzana».

A questo punto Cancogni, con l’aiuto della dolcissima ma inflessibile moglie Rori che vigila su di lui come una farfalla, mi mostra alcune, poche, foto della sua infanzia.

Il suo sguardo è profondamente triste, in ogni ritratto. Mi viene in mente una frase che ha scritto parlando del bam-bino Alessandro Manzoni: «Chi non riceve nell’infanzia l’amore, è difficile, raro, che possa a sua volta ridarlo. L’a-more ricevuto riscalda, protegge, aiuta».

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