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Poi forse proprio l’aver superato quel problema mi ha fatto venir voglia di esibirmi

Nel documento comunicazione, giornalismo, mass-media (pagine 53-61)

davanti al pubblico e parlare parlare parlare…”

Paolo Bonolis è nato a Roma il 14 giugno 1961, ha iniziato la sua carriera televisiva con la tv dei ragazzi per poi passare al varietà, al talk-show e fino al Festival di Sanremo (2005 e 2009).

Figlio unico, nato da padre milanese e madre salernitana, ha cin-que figli, l’ultima, Adele, nata nel 2007, è stata chiamata così in ricordo di zia Adele dichiarata beata dalla Chiesa. I successi tele-visivi di Paolo Bonolis vanno da Bulli e pupe a I cervelloni, da Beato tra le donne a Ciao Darwin. Con lui, nella stagione 2003-2004 la striscia pre-serale di Raiuno Affari tuoi ha segnato il suo record di ascolti. L’intervista è stata fatta nell’agosto 2007.

«Il ricordo remoto: dunque, vado indietro indietro indie-tro… e mi viene in mente una scena di quando abitavamo vicino alla ferrovia: sono in cucina, piccolissimo, con mia madre e quello che non volevo mangiare cioè il cervello bollito e dovevo mangiarlo tutto sennò non potevo vedere il treno passare dalla finestra».

Un incubo ricorrente quello del cervello cucinato e inflitto dalle mamme di una volta ai bambini perché “fa diventare intelligenti”. Ma se la vittima dell’odioso piatto è Paolo Bonolis bisogna credere alle sue proprietà nutritive visto che l’acutezza di questo Gemello (è nato a Roma il 14 giugno 1961) guizza e si impone quanto il suo slavinico e slalomico modo di parlare. Non potendolo riprodurre inte-gralmente invito il lettore a far uso di immaginazione aggiungendo qua e là ardite (ma sempre corrette) costru-zioni di congiuntivi e condizionali, frequenti quanto effi-caci espressioni in romanesco, battute a raffica, una buona dose di amarezza, momenti di intensa malinconia. E uno di questi arriva subito, quando Paolo parla di suo padre Sil-vio, venuto a mancare sei anni fa: «Ti leghi di più a una persona che scompare, perché ti manca, a differenza di quella che c’è (si riferisce alla mamma, Alba Lucia) e da cui prendi tutto l’amore del mondo ma della quale non avverti la mancanza. Normale, no?».

Che facevano i suoi genitori quando lei era bam-bino?

«Mamma era segretaria in un’impresa di costruzioni, papà scaricava il burro ai mercati generali, poi è diventato rappresentante di prodotti alimentari: due persone bellis-sime, non mi hanno tolto niente, intendo a livello di affetti, e mi hanno dato tutto».

Continuiamo a far scorrere la pellicola del passato…

«Alle elementari veniva a prendermi papà, mamma restava in ufficio, ma poiché anche lui doveva tornare al lavoro mi portava dai nonni, Carlo e Lina, i nonni paterni, solo qualche volta dai genitori di mia madre. Giocavo a pallone in strada e poi giocavo a carte con nonno, a scopa, di 5 e 10 lire. Non ricordo moltissimo della scuola ele-mentare, i ricordi forti cominciano alle medie e poi alle superiori, però stavo bene a scuola, è un po’ una mia carat-teristica da soprammobile, dove mi metti sto e sto bene, non ambisco a più di quello che ho né mi preoccupo se ho meno di quello che presumo di desiderare”.

I giochi dell’infanzia?

«Ero solo – i miei decisero di non avere più figli per un problema di incompatibilità di RH del sangue a quel tempo irrisolvibile – e quindi mi arrangiavo parecchio, con i sol-datini, figurine, leggevo molto. I primi libri significativi sono i classici dell’avventura, Salgari, Verne. Un po’ più grande mi sono appassionato alla fantascienza, avevo biso-gno di trasferirmi in qualcosa che non fosse così tremen-damente monotono, nel senso dell’ovvietà degli accadi-menti, come già mi sembrava di intuire potesse essere la realtà. Durante l’adolescenza hai piacere di mettere a repentaglio, almeno in forma di sogno, quello che ti vor-rebbero fornire come il bene di consumo più prezioso,

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cioè la sicurezza: dunque la fantascienza – Asimov, Dick, Palmer. Poi al terzo anno di liceo, grazie soprattutto al mio professore di italiano, ho cominciato ad apprezzare tutta la letteratura, ma anche la saggistica. Ci fece cono-scere, ad esempio, “La nascita di una controcultura” di Theodor Roszak, che per me è stato un libro importante.

Mi affascinava molto l’idea di un mondo che potesse pre-vedere qualcosa di diverso dall’attuato, mi affascinavano determinati tipi di valori, l’assenza della necessaria orto-dossia su ogni cosa, la voglia di leggere le cose in un altro modo. Avevo 16 anni, che caspita dovevo fare?».

Che cosa sognava di diventare ‘da grande’?

«Esploratore. Il mio desiderio più grande era quello di mettere piede per primo in una terra completamente sco-nosciuta, almeno a quelli della mia cultura».

E questo fino a quando?

«Fino a quando ho scoperto che si erano esplorati tutto e allora mi sono indirizzato su un qualcosa che è total-mente ancora da esplorare: l’essere umano. Anche perché è in continua mutazione, in funzione delle culture, delle epoche, delle età, delle tecnologie, dei desiderata indotti o dedotti. È un mondo piuttosto vasto, forse avrei dovuto fare e mi sarebbe piaciuto fare lo psichiatra, lo psicologo.

Sicuramente l’essere umano mi attira, ma mi attirano mol-tissimo ancora il mondo, la natura. Ho viaggiato sempre molto, ho fatto l’istruttore di trekking, l’istruttore subac-queo, però ‘la terra vergine’ non mi è stato dato modo di rintracciarla e quindi…»

Tutto questo che c’entra con la tv?

«All’inizio non si è coniugato, è stato un caso. Da bam-bino ero balbuziente e quindi non potevo permettermi di sognare una carriera come conduttore televisivo, del resto in

casa mia si guardava molto poco la tv. Poi forse proprio l’a-ver superato quel problema mi ha fatto venir voglia di esi-birmi davanti a un pubblico e parlare parlare parlare… ad ogni modo è stato, almeno apparentemente, tutto molto casuale. Dopo la gavetta, dopo la tv dei ragazzi, mi sono reso conto che esistevano dei programmi, detti ‘Giochi’, dove venivano persone che non facevano televisione per mestiere e queste persone erano poste in situazioni di “stress”, risul-tavano più o meno esacerbate nella loro natura e mi diver-tiva molto valutare le diverse personalità, come reagivano al meccanismo coatto del gioco. Ma la cosa non poteva essere fine a se stessa, volevo che avesse un significato».

Per esempio?

«Per esempio ‘Ciao Darwin’: è stato un laboratorio di antropologia allo stato puro, il trionfo dell’umano, è un gioco, ci si diverte, si fanno cose fessacchiotte ma si incon-trano le persone nel loro specifico. La trasmissione è nata con un’idea precisa, la condanna mia e dell’altro autore Stefano Magnaghi nei confronti della volontà di dicotomia che c’è nel mondo che è poi una delle armi principali del potere: tu fai parte di una schiatta, io ti costruisco gli avver-sari, tu li odi, ne hai paura e quindi vieni a farti difendere da me che detengo il potere. Noi abbiamo esemplificato questo meccanismo: belli contro brutti, atei contro credenti, maschi contro femmine, bianchi e neri, omosessuali contro etero… tutte queste assurdità in cui veniamo allevati. Tu vedi persone che si dichiarano appartenenti a una categoria e pensano, veramente, nella realtà, non in tv, che esiste un’altra categoria pericolosa per loro, il nemico. Nel gioco televisivo ci si rende conto di quanto è stupida questa divi-sione, si scopre anzi che le persone stanno insieme benis-simo anche se appartengono a ‘categorie’ diverse. Con

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sto: non è che ho pensato di cambiare il mondo con ‘Ciao Darwin’, mi sono limitato a essere televisivamente onesto”.

Che significa ‘televisivamente onesto’?

«Faccio un esempio al contrario: io non riesco a guar-dare uno che dice “e ora attenzione, questa persona potrebbe vincere diecimila euro, il momento è grave…”. Se prendi sul serio un gioco in tv vuol dire che stai mentendo ecco perché io prendo le distanze da tutti quei giochi, e anche da certi reality, dove si vuole far credere che quello che accade è terribilmente importante: perché comunque la tv manda un messaggio, rende davvero ‘importante’ qua-lunque cosa, agli occhi di chi guarda. Se tu gli fai credere che una cazzata è importante, be’ sei disonesto. Io mi reputo onesto perché se faccio un gioco faccio un gioco, se faccio una trasmissione seria mi concedo di dire quello che penso e non dico – come capita in certe trasmissioni tra-vestite da serie – quello che si presume la gente voglia ascoltare venga detto. E nemmeno quello che i tuoi man-danti vorrebbero tu dicessi».

Quando dice trasmissione seria parla de “Il senso della vita”.

«’Il senso della vita’ era una trasmissione dove si diceva quello che si riteneva opportuno dire. Non per niente al

‘Senso della vita’ non si è dato alcun risalto nonostante i risultati di audience. Il perché è semplice: le forme di man-cato asservimento mettono paura, nel senso che coloro che sono asserviti dicono: perbacco, se facciamo vedere che c’è qualcuno che non è asservito poi ci tocca non essere asserviti pure a noi e invece si sta tanto comodi da asser-viti, si guadagna molto di più…».

Con il grande successo negli ultimi anni sono arri-vate anche le delusioni, le battaglie, i bocconi amari…

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la dose di rabbia che emerge dalle sue risposte sembra confermarlo.

«È ovvio che dal punto di vista professionale, comples-sivamente, non mi posso né mi voglio lamentare, sarei un pazzo e un ingrato se lo facessi. A questo si aggiunga che certi eventi che ti capitano nella vita privata, come è suc-cesso a me, alla mia famiglia, rendono tutto il resto asso-lutamente relativo e sostanzialmente insignificante. Ma anche se non volessimo considerare tutto ciò, nel profondo resto sereno poiché a me non interessa lavorare in tv».

Come dice?

«Non mi interessa lavorare in tv: lo faccio perché, per qualche ragione, è il mio lavoro, così come lei che scrive sui giornali o scrive libri, come il presidente del consiglio o il papa, tutta gente che tira a campa’: imbocca un binario e va avanti per passa’ il tempo sennò che cacchio fanno per tutta la vita? Vale anche per me: io faccio la tv, mi diverto a farlo, sono contento di farlo, ma non ci credo cieca-mente, perché non è possibile credere ciecamente a qual-cosa, però lo faccio con affetto, con attenzione, ma non ne dipendo e allora quando faccio qualcosa, se la debbo fare, voglio fare qualcosa in cui credo. Lo so, lo so benissimo: la trasmissione non è mia, la faccio in casa d’altri, devo addi-venire a compromessi logici e tuttavia la trasmissione deve restare qualcosa in cui credo. Se mi devo mettere sola-mente a leggere un copione – non ho mai letto un copione in vita mia – se devo ripetere stancamente un mantra di ovvietà, sto a casa, è meglio. Mi rendo utile in qualche altro modo, ma non solo alla collettività, mi rendo utile in qualche altro modo a me stesso. Non essendo ricattabile dal punto di vista: “se non fai questo non lavori”, allora non lavoro, pazienza, farò qualche altra cosa».

Nel documento comunicazione, giornalismo, mass-media (pagine 53-61)