• Non ci sono risultati.

Anche col prurito”

Nel documento comunicazione, giornalismo, mass-media (pagine 127-136)

Sergio Zavoli, che Indro Montanelli definì “il principe del gior-nalismo televisivo”, è una figura di primo piano della comunica-zione d’autore. Con le sue inchieste televisive, i suoi saggi, i suoi libri e i suoi articoli ha attraversato mezzo secolo di storia, di costume, di cronaca del nostro Paese. Nato a Ravenna nel 1923 e cresciuto a Rimini, di cui è cittadino onorario, Sergio Zavoli è stato condiret-tore del Telegiornale al tempo in cui era unico, diretcondiret-tore del GR1, pre-sidente della RAI, direttore del quotidiano «Il Mattino». Tra i suoi programmi che negli anni hanno segnato la storia della tv pubblica ricordiamo qui solo la grande inchiesta sul terrorismo degli anni 70 e 80, “La Notte della Repubblica”. Moltissimi i libri, tra saggi e narrativa, dati alle stampe e le collaborazioni con quotidiani e set-timanali. Oggi Sergio Zavoli è Senatore della Repubblica e Presi-dente della Commissione di vigilanza sulla Rai. L’intervista è del maggio 2007.

Sergio Zavoli, nato a Ravenna nel 1923… continui lei, senatore.

«Sono nato in via Cavour, nell’appartamento che stava sopra il “Caffé dei cacciatori”, gestito da mio padre. Come venni al mondo gli avventori brindarono alla salute mia e di mia madre con una batteria di bottiglie tenuta pronta in attesa dell’evento. L’indomani, dalla loggetta in ferro battuto del palazzo di fronte, il celebre avvocato Poletti – più volte ricordato anche dal poeta vernacolo Stecchetti, cioè Olindo Guerrini – come vide aprirsi le nostre finestre si affacciò per brindare a sua volta da un lato all’altro della strada. Tutti quegli evviva, sia pure con un plausibile pretesto, dovettero ricordare alla mamma che il mio nonno paterno era Gigg de Marasco’, titolare di una can-tina all’inizio del Candiano, il porto-canale, famoso per avere disinfettato – grazie al marascone, un vino ingar-bugliato, di uve greche e pugliesi – una generazione di por-tuali, per i quali il mio avo aveva predisposto un servizio di carrozze, dell’agenzia Stinchi, che faceva il su e giù dalla cantina a Piazza d’Armi con gli ubriachi a bordo. E fu dunque quel ricordo che consigliò a mia madre di pra-ticarmi una specie di lavaggio del sangue, non si sa mai, facendomi bere qualche ettolitro di latte fino all’età di diciassette anni».

130 Ci racconti di suo padre.

«A mio padre avevano dato un nome nobile, Edgardo, ma la mamma lo accorciava un po’, forse per ridurne l’im-portanza, chiamandolo soltanto Gardo. Suo marito non fu da meno e Clara si assottigliò in Clarina fino a diventare Rina, più svelto e andante. Il babbo, da ragazzo, fu scriváno presso i Conti Rasponi per via di una calligrafia lussureggiante, tutta curve e svolazzi; poi, dopo essere andato volontario in guerra, nel ’15, commerciò per un paio d’anni con il fratello di mia madre, Giannetto, in sto-viglie da tavola ungheresi, quindi si dedicò al caffè che s’è detto e in seguito divenne il gerente – a Borgo Maggiore, nella Repubblica di San Marino – della Società Elettrica dell’Alto Savio. Infine scendemmo a Rimini, dove sarebbe diventato il cassiere del Monte di Pietà. In quell’ufficio dal nome dolente vidi sfilare le donne vestite quasi tutte di cotonina nera, la divisa dei poveri, e rammento che mi inorgoglivano le mani di mio padre alle prese con il maz-zetto di carta-moneta che faceva scorrere tra pollice e indice a una velocità spettacolare».

E la mamma?

«Mia madre era piccola, graziosa e chiara come il suo nome. Mio padre la chiamava Rina, e quando le si rivol-geva con il vero nome, Clara, c’era in giro qualcosa di grave, cioè una disgrazia, un dolore. Ma succedeva anche per i malumori di giornata. La mamma conservava un vocabolario enorme, il Rigutini-Fanfani, e ogni tanto leg-gevo quelle pagine per fantasticare sulle parole sottoli-neate con un inchiostro color seppia, per esempio amore, sesso, copula, parto, in cui leggevo il percorso della sua vocazione materna, così assoluta e serena. Aveva fatto le magistrali, scriveva con gusto e limpidezza. Si dedicò al

decoro della famiglia, votandosi alla normalità; ma seppe governarla anche negli anni difficili, per esempio la guerra, e mi prende ancora una punta di commozione nel ricor-dare quando, durante il mio esame di maturità, non mancò giorno che non andasse, a piedi, fino alla chiesa di Santa Rita, “la santa dei miracoli”! Ma come si fa a dire della madre, del padre, dei fratelli, sia pure nello spazio gene-roso di un giornale?».

Qualche fotografia dei suoi.

«Lui era più alto della mamma, aveva un corpo svelto e forte, gli invidiavo la fronte alta, il sorriso e gli occhi di un misto verde-grigio-celeste. Dopo la guerra, tornato da Roma, dove già lavoravo, per una breve vacanza, indugiai dentro la mia città alla ricerca delle sue ferite rimargi-nate. E fu nella pescheria – con le donne dietro al bancone di pietra, vestite ancora di nero – che una loro piccola delegazione, come mi vide, raccolto il pesce per il bro-detto si fece avanti dicendomi: “Lei non sa quanto bene ha fatto suo padre alla povera gente!”. In parte lo sapevo, per-ché l’avevo visto nelle gallerie del trenino elettrico Rimini-San Marino, con la guerra sempre più vicina, distribuire il pane agli sfollati, alle quattro di notte, e pareva che por-tasse a ciascuno l’eucarestia. Era equo e sollecito. Lungo la strada, tanto si occupava di tutto e di tutti, l’avevano chia-mato il “podestà di via Trento”, e noi bambini ne eravamo un po’ fieri. La domenica sbucava dalla curva al fondo della strada tenendo tra le dita il pacchetto delle paste che gli ciondolava sul fianco, ogni volta arrivava a quell’ora e noi lo aspettavamo fuori dal cancello. La mamma, dalla terrazza, era come in vedetta e ci segnalava l’arrivo sempre un po’ prima che fossimo noi ad annunciarglielo. Da lui avemmo tutto ciò che non poteva darci la mamma, con le

132

sue tenere protezioni, cioè un esempio forte, coraggioso, solidale dell’esistenza».

Il ricordo più nitido.

«Fu un viaggio a Ravenna, la città natale dei genitori, della sorella e mia, per far visita agli zii e alle cugine. Par-timmo la mattina presto, il treno si fermava lungo una coroncina di stazioni, spesso per raccogliere un solo pas-seggero, io mi sporgevo dal finestrino e ogni tanto avevo bisogno di stropicciarmi gli occhi per via della fuliggine espulsa dalla locomotiva. A Ravenna ci imbarcammo sul Gradenigo, un vaporetto tenuto insieme, si sarebbe detto, dalla crosta di infinite mani di bianco passate sullo scafo.

A poppa, guardavo la mia città che rimpiccioliva via via e mio padre, alle spalle, mi cingeva con un abbraccio che non ho più scordato. Dentro quel golfo, così sicuro, sentivo che la mia vita avrebbe avuto, sempre, dove rifugiarsi».

Fratelli, sorelle?

«Avevamo una sorella, l’abbiamo perduta da diversi anni. Per fortuna ho un fratello. Un giorno gli ho detto:

“Mettiti qui, guardiamoci. Proviamo a pensare come ci mancheremo. Io e te siamo gli ultimi testimoni di una sto-ria che un giorno, chi dei due rimarrà, non potrà più ri-cordarla a nessuno. Non so se fece, sotto sotto, uno scon-giuro per entrambi, ricordo però che aveva gli occhi lucidi».

I suoi giochi.

«Giocavo a pallone, ero il portiere di una squadra espressa da un piccolo territorio chiamato “Zona infetta”.

I nostri rivali si chiamavano “Topi grigi”. Questo, per dire dell’amenità del paesaggio! La mamma mi aveva imbottito i lati delle mutandine, perché buttandomi non mi facessi male, il che accadeva di rado perché segnavano anche da lontano; e quando me li trovavo di fronte ricordo che, non

appena li vedevo calciare, mi voltavo dall’altra parte. Da piccolo, invece, mi piaceva copiare, su un grande foglio bianco, la prima pagina del Corriere della sera, senza capire nulla, ovviamente, di ciò che stavo riproducendo. Un giorno saprò dalla mamma che mio padre le aveva detto:

“Questo figlio, vedrai, sarà un giornalista!”».

Il primo giorno di scuola?

«Bellissimo, la ricerca del compagno e del banco, l’odore del sillabario, la stoffa nera per asciugare il pennino, e la cartella di cuoio, finto, ma era bella lo stesso».

Gli amici.

«Gli amici erano gente del mio ceto, cioè medio, più pic-colo che borghese. Ma riservavo una certa ammirazione ai ragazzi di censo, quelli con la penna stilografica, la rac-chetta, gli sci, le scarpe di para, i pantaloni alla zuava, i guanti di pelle. E l’ombrello. La distinzione tra noi e i nostri coetanei di rango stava in questa diversità: noi ci si arrampicava sulla vita, gli altri l’avevano già garantita. I figli dei notai, dei medici, degli avvocati, e così via, avreb-bero ereditato gli studi dei padri. L’ho scritto in “Roman-za”: la loro vita, insomma, voleva dire crescere, la nostra venir su».

Che cosa voleva fare “da grande”?

«Da piccolo dicevo lo scriventista».

È stato un balilla?

«Ero di più, ero un “balilla moschettiere”, la differenza stava nei guanti neri alla D’Artagnan, nel portare il gagliar-detto o fargli la scorta, nel montare la guardia in occasioni solenni, e via così. Frequentavo, ogni settimana, il “sabato fascista”, partecipavo ai saggi ginnici e agli agonali. Ri-cordo il pizzicore provocato dai calzettoni fatti di una lana asprigna, che pungeva, e dai calzoncini che arrossavano le

134

cosce e ancor più su. Un supplizio. “Vivere pericolosa-mente”, ci veniva detto. Anche col prurito. Le ore più alle-gre erano quelle divise con le “piccole italiane” in occasione delle grandi adunate, ad esempio per i discorsi del Duce o le prove dei saggi ginnici. Noi maschi sceglievamo canzoni inneggianti, grossolanamente, alla nostra virilità. In genere, impuniti. Eravamo “la maschia gioventù”! Le mamme si vergognavano un po’, le ragazze fingevano di non ascoltare, i gerarchi lasciavano fare. Tutto, del resto, coincideva con la giovinezza, che era anche il nostro inno: “Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza…” Il Duce venne a Rimini solo una volta, la piazza non nereggiava a suffi-cienza, cominciò a preferire Riccione. In casa nostra, mio padre diceva: “Io non sono e non sarò mai fascista, io sono mussoliniano. Mezz’ora dopo la caduta del Duce, il 25 luglio del ’43, fu di parola: prese la divisa, andò nell’orto, fece una buca e vi seppellì la militanza più incongrua e mite che io conosca. “E non se ne parli più”, disse. Difatti sarà ostile a ogni reminiscenza».

La gioia più grande del bambino Sergio.

«La vita, in una famiglia fatta apposta per essere felici».

Il dolore più grande.

«La scomparsa di chi l’aveva generata e tenuta viva, sempre, nella buona e nella cattiva sorte».

Finito di stampare in Firenze presso la tipografia editrice Polistampa

Marzo 2009

Nel documento comunicazione, giornalismo, mass-media (pagine 127-136)