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Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze. 1994, Anno 53, giugno, n.2

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Spedizione in abbonamento postale - 50%

RIVISTA DI DIRITTO FINANZIARIO

E S C I E N Z A D E L L E F I N A N Z E

F o n d a ta da B E N V E N U T O G R I Z I O T T I (e R IV IS T A IT A L IA N A D I D IR IT T O

D I R E Z I O N E

ENRICO ALLORIO - EMILIO GERELLI

ENRICO DE MITA AMEDEO FOSSATI IGNAZIO MANZONI

-COMITATO SCIENTIFICO

- ANDREA FEDELE - FRANCESCO FORTE FRANCO GALLO - SALVATORE LA ROSA GIANNINO PARRAVICINI - ANTONIO PEDONE

SERGIO STEVE

COMITATO DIRETTIVO ROBERTO ARTONI - FILIPPO CAVAZZUTI - G. FRANCO GAFFURI - DINO PIERO GIARDA ITALO MAGNANI - GILBERTO MURARO - ENRICO PO TITO - PASQUALE RUSSO FRANCESCO TESAURO - GIULIO TREMONTI

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Pubblicazione sotto gli auspici del Dipartimento di Economia pubblica e territoriale dell’ Università, della Camera di Commercio di Pavia e dell Istituto di diritto pubblico della Facoltà di Giurisprudenza dell’ Università di Roma. Questa Rivista viene pubblicata con il contributo finanziario del Consiglio Nazionale delle Ricerche.

Direzione e Redazione: Dipartimento di Economia pubblica e territoriale del­ l’ Università, Strada Nuova 65, 27X00 Pavia; tei. 0382/387.406, (Fax) 387.402.

Ad essa debbono essere inviati bozze corrette, cambi, libri per recensione in duplice copia.

R edattori: Silvia Cipollina, Angela Fraschini, Giuseppe Gh essi. Segretaria di Reda- zione: Claudia Ban ch ieri.

L ’ Am ministrazioneè pressoia"casa editrice Dott. A. GITJFFRÈ EDITORE S .p.A .,

via Busto Arsizio, 4 0 - 2 0 1 5 1 Milano - tei. 3 8 .0 8 9 .2 0 0 Pubblicità:

dott. A . Giuffrè Editore S.p.a. - Servizio Pubblicità via Busto Arsizio, 4 0 - 2 0 1 5 1 Milano - tei. 3 8 .0 8 9 .3 2 4

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A bbonam ento annuo estero

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All’ Editore vanno indirizzate inoltre le comunicazioni per mutamenti di indirizzo, quest’ ultime accompagnate dall’ importo di L. 500 in francobolli.

Per ogni effetto l’ abbonato elegge domicilio presso TAmministrazione della Rivista. Ai collaboratori saranno inviati gratuitamente 50 estratti dei loro saggi. Copie supplementari eventualmente richieste all’ atto del licenziamento delle bozze verranno fornite a prezzo di costo. La maggiore spesa per le correzioni straordmane e a carico dell’ autore.

Registrazione presso il Tribunale di Milano al n. 104 del 15 marzo 1968 Iscrizione Registro nazionale stampa (legge n. 416 del 5.8.81 art. 11)

n. 00023 voi. I foglio 177 del 2.7.1982

Direttore responsabile: Emilio Gerelli__________________ __ Rivista associata all’ Unione della Stampa Periodica Italiana

Pubblicità inferiore al 50%

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Sergio Steve- La finanza di Antonio D e Viti de Marco ... 171 Antonio Cardini- Antonio D e Viti de Marco, economista e p o litico ... 187 John G. Gibson - Peter A. Watt- The Politicai Economy o f thè Failure o f

thè British r oli Tax: A Public Choice Interpretation ... qqq Gtampaoeo Ladu - Perpetuare un equivoco? Osservazioni in margine alTart.

100 della Costituzione ...

Franco Paparella - Note in margine all’applicazione dell’imposta di regi­

stro sugli aumenti di capitale sociale in occasione del ripianamento

del-... 238

APPU N TI E RASSEGNE

Gianni Paramithiotti - La teoria dell’integrazione economica e il passaggio

dal principio di destinazione al principio di origine nella tassazione in- d iretta...

Dante Luigi Gardani - I presupposti processuali nel nuovo contenzioso tri-

butano ...

Giuseppe Vanz - L ’autorizzazione del capo dell’ufficio iva per l’esercizio del­

le attività ispettive previste dall’art. 52 D .P .R . n. 633/1972 ...

272 286 296

RECENSIONI

B oixi C ., Trezzini L. e Turci M .C . - L ’impatto economico dei finanziam en­

ti -pubblici alla cultura. Spettacolo dal vivo e festival (M. Trimarchi) ...

NUOVI LIB R I

322

RASSEGNA D I PUBBLICAZIONI RECENTI

P A R T E S E C O N D A

Guglielmo Fransoni - L ’esercizio del c.d. diritto alla detrazione delTIva ap­

plicata m carenza di presupposto ...

Franco Formica - Acquisti dell’imprenditore agricolo a titolo principale:

(4)

II

Giancarlo Zoppini - Sull’inapplicabilità dell’art. 38, d.P .R . 26 aprile 1986,

n. 131, alla materia dell’Invim ... 54

SENTENZE ANNOTATE

Iva - Operazioni estranee all’ambito di applicazione dell’imposta - Rivalsa da parte del cedente - Indetraibilità dell’imposta assolta per il cessio­ nario - Esercizio dell’azione di indebito verso il cedente (Cass., Sez. I, 10 luglio 1993, n. 7602) (con nota di G. Fransoni) ... 27 Imposta di registro - Agevolazioni - Piccola proprietà contadina - Acquisto

di un terreno - Richiesta dei benefici ex L. 26 maggio 1965, n. 590 - Vendita del terreno - Decorso del decennio - Anteriorità - Decadenza dei benefici - Aliquota ridotta ex art. 1 -bis, tariffa, parte prima, alle­ gato A), D .P .R . 26 ottobre 1972, n. 634 - Applicabilità (Comm. Trib. Centr., Sez. X I X , 31 maggio 1989, n. 3910) (con nota di F. Formica) ... 45 Tributi locali - Invim - Applicazione dell’imposta ai trasferimenti posti in

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dell’amministrazione

pubblica locale

Testate di grande tradizione e più recenti iniziatiye editoriali classifieàfè e presentate a funzionari e amministratori pubblici Prenotate presso: REGIONE LOMBARDIA RIVISTA CONFRONTI Via Fabio Fiizi 22

20124 Milano - tei. 02/67654740^ e versate la somma 4 j_ _ » sul e/c m a i n

D

DIRITTO: FONTI E ATTIVITÀ’

Legislazione Giurisprudenza Ordinam m o giudiziario Ricerche e studf giuridici

ASSETTO E ORGA.

DEI.LE AUTONOMÌEToCAL”

nerali.

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Organizzazione e personale Informatica

Tributi e finanza locale

SERVIZI SOCIALI

Assistenza e sicurezza sociale Sanità

Attività e beni culturali Istruzione

Informazione Ricerche e studi sociali

PPQ ECONOMICO Agricoltura Industria Commerciò' e Turismo Assicurazione e previdenza . ■ ' Lavord*ll,l*IW1^ »..1— Sindacato

Ricerche e studi economici

ASSETTO TERRITORIALE

Urbanistica Trasporti La|pri pubblici

Edffizia economica e popolare E cfo g ia

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COSA & COME

CODICE TRIBUTARIO

PROFESSIONALE 1994

a cura di Giuseppe e Francesco Giuliani

Testi annotati articolo p e r articolo, con le m assim e di giuri­ sprudenza e con le sintesi di circolari e risoluzioni ministeriali

Con addenda di aggiornamento al 10 giugno 1994

VOLUME 1

Imposta sul valore aggiunto

Imposte dirette

Accertamento

VOLUME 2

Imposta di registro

Successioni e donazioni

Contenzioso tributario

8°, due volumi di complessive p. VII-2204, L. 120.000

AGGIORNAMENTI GRATUITI SINO AL 31 DICEMBRE 1994

GIUFFRÈ EDITORE

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ENRICO ALLORIO (1914-1994)

Il 20 aprile 1994 è mancato il professor Enrico Allorio, emerito di diritto processuale nell’Università di Milano, dopo aver dedicato la Sua vita aU’attività scientifica, all’insegnamento, alla professione forense e all’impegno politico. Egli è stato anche autorevole ed ap­ passionato condirettore di questa Rivista dal 1982.

Enrico Allorio, nato a Vercelli il 14 luglio 1914, si laurea in legge a Milano nel 1934. Libero docente di Diritto processuale civi­ le (1937-38) a Messina; a soli 25 anni straordinario (1939-40) a Ma­ cerata e successivamente ordinario a Macerata (1940-41) e a Pado­ va (1941-48).

Professore ordinario di Scienza delle finanze e Diritto finanzia­ rio presso 1 Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano) dal 1948 al 1974. Professore ordinario di Diritto processuale civile nell’Uni­ versità Statale di Milano, facoltà di giurisprudenza. Ha svolto inca­ richi di insegnamento presso le Università di Padova e di Pavia, la Scuola centrale tributaria in Roma, la Loyola University in New Orleans (Louisiana, Stati Uniti).

Ha condiretto la Giurisprudenza italiana, la rivista Jus, la Ri­

vista di diritto civile, la Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze.

Tra i Suoi studi ricordiamo la Cosa giudicata rispetto ai terzi (Milano, 1935), il Giuramento della parte (Milano, 1937), il Diritto

processuale tributario (Torino, 1969, V edizione); ha raccolto la

produzione minore in 3 volumi di Problemi di diritto (Milano, 1957), dal rispettivo titolo: 1) L ’Ordinamento giuridico nel prisma

dell’accertamento giudiziale, e altri studi; 2) Sulla dottrina della giurisdizione e del giudicato, e altri studi', 3) La vita e la scienza del diritto in Ralia e in Europa, e altri Stati.

I numerosi scritti di diritto processuale, diritto tributario e

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— 170 —

ria generale del diritto sono una testimonianza dell’impegno scien­ tifico profuso da Enrico Allorio.

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LA FINANZA D I ANTONIO DE V ITI DE MARCO (*)

di Se r g i o St e v e

Università degli studi di Rama « La Sapienza »

1. Questa relazione potrebbe avere il titolo che Gianfranco

Contini dette a una raccolta di suoi scritti su Montale: Una lunga

fedeltà.

Nel 1939 fondai sulla teoria dell’imposta del De Viti lo svolgi­ mento del tema per il concorso nazionale di assistente in scienza delle finanze. Nel 1985, nella mia ultima lezione, dissi che se non ho preso mai delle grandi cantonate quando ho studiato la politica tributaria e la teoria economica delle imposte è stato perché avevo dietro di me il lavoro di De Viti de Marco (e di Einaudi). Da loro, dissi, si impara che i motivi e gli obiettivi della finanza pubblica,

é

in particolare delle imposte, sono complessi, e non possono essere ridotti a schemi semplici. E da loro si imparano i limiti degli stru­ menti con i quali si cerca di realizzare quegli obiettivi (1).

Da questa lunga fedeltà deriva però un limite di questa rela­ zione: essa riflette idee maturate tanti anni fa. È tuttavia vero che nella rilettura, per questa occasione, delle opere del De Viti, alcuni aspetti del suo pensiero mi sono apparsi in luce nuova. E che le mie idee sull’opera del De Viti risalgano in gran parte agli anni del­ la mia formazione servirà almeno ad evitarmi di fare concessioni all usanza di vedere i nostri classici della finanza soltanto come an­ ticipatori di teorie alla moda.

Mi pare che i contributi del De Viti si possano raggruppare at­ torno a quattro temi: la teoria delle decisioni finanziarie; la teoria dell’imposta; la teoria della traslazione; la teoria della finanza

<*) Relazione al Convegno in memoria di Antonio D e Viti de Marco quantennio della morte, Lecce, 25 febbraio 199

(1) Steve S., L'ultim a lezione, Verona, 1990, p. 14.

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cin-172 —

straordinaria. Tratterò brevemente gli ultimi due temi e, di segui­ to, un poco più ampiamente gli altri due.

2. Nell’analisi della traslazione delle imposte il De Viti parte

da quelli che definisce « due errori tradizionali dell’economia clas­ sica »: l’uno « considerare i problemi della finanza come fossero completamente avulsi dai fenomeni dell’economia privata, per cui non si segue la sorte dell’imposta, una volta che sia uscita dal bilan­ cio del contribuente »; l’altro « trattare tutti i fenomeni economici, e quindi anche l’imposta, dal punto di vista del produttore, che di­ rettamente subisce l’imposta e la traduce in aumento di costo o in diminuzione dei profitti, d’onde la supposta azione immediata, per aumentare i prezzi, riducendo o minacciando la riduzione dell’of­ ferta » (2).

Pe il De Viti invece « in nessun caso l’effetto immediato del­ l’impòsta è di modificare l’offerta preesistente di beni » ma il suo « effetto immediato e necessario » è « che essa varia le precedenti curve di domanda dei beni privati, per parte dei contribuenti e per parte dello Stato. E perciò la nuova direzione della domanda dei contribuenti e dello Stato è il solo fatto necessario, che rompe il precedente equilibrio » (3). È bene avvertire (poiché si leggono tal­ volta affermazioni contrarie) che la rilevanza degli effetti dal lato della domanda non dipende dall’accettazione dell’ipotesi devitiana dello Stato fattore di produzione. Dice esplicitamente il De Viti: « è indifferente che lo Stato spenda bene o male 1 imposta, ma e neces­ sario e sufficiente che la spenda diversamente di come facevano i contribuenti » (4).

Al primo periodo, che vede le variazioni della domanda, « suc­ cede immediatamente quello della nuova distribuzione dei servi­ gi produttori, per riadattare le offerte alle nuove curve di doman­ da ». È qui che entrano in azione i produttori che adattando le of­ ferte agli aumenti e alle diminuzioni delle domande « raggiungono il nuovo equilibrio caratterizzato dal livellamento dei loro pro­ fitti » (5).

(2) De Vi t i de Marco A., Principi di economia finanziaria, Torino, 1953,

pp. 148-9 (citati d ’ora in poi com e Principi).

(3) P rincipi, cit., pp. 153-4 (corsivi del D e Viti). (4) P rin cipi, cit., p. 153.

(11)

L ’originalità e l’importanza della teoria devitiana della trasla­ zione fu colta molto bene da Duncan Black il quale osservò che c’e­ rano stati numerosi tentativi precedenti di considerare le reazioni all’imposta dal lato della domanda ma che « il tentativo di fare del­ la spesa del gettito tributario una parte della teoria generale del­ l’incidenza fu grandemente irrobustito dall’opera del De Viti, e ne sono derivati miglioramenti molto importanti ». Il Black riconduce­ va naturalmente la teoria del De Viti al metodo dell’equilibrio eco­ nomico generale e giustamente concludeva che una soddisfacente teoria dell incidenza dell’imposta generale sul reddito poteva fon­ darsi sulla combinazione del trattamento che il Colwyn Report ave­ va fatto degli effetti dell’imposta sull’offerta dei fattori della produ­ zione, con il trattamento devitiano dell’aspetto della domanda (6).

3. Sul problema della finanza straordinaria il De Viti condivi­

de la tesi ricardiana che il prelevamento straordinario non può con­ sistere che di beni presenti, e quindi rifiuta « la vecchia, ma sem­ pre viva opinione che, col prestito, a differenza dell’imposta sul pa­ trimonio, la spesa pubblica viene in parte scaricata sulle generazio­ ni future » (7).

Ma pur condividendo il punto di partenza di Ricardo, il De Vi­ ti perviene a conclusioni opposte. Infatti egli non condivide alcuna delle considerazioni accessorie in base alle quali Ricardo, dopo aver affermato l’equivalenza tra imposta straordinaria e prestito, perviene ad affermare la preferibilità dell’imposta straordinaria.

L ’argomento fondamentale di Ricardo per allontanarsi dall’af­ fermazione dell’equivalenza sta nella considerazione che l’imposta spinge, più del prestito, i contribuenti a contrarre i propri consumi, cosicché il finanziamento della spesa mediante imposta avverrebbe con minore riduzione del capitale nazionale (8).

Il De Viti non si associa a questo argomento di Ricardo, e cri­ tica « coloro i quali propugnano l’imposta straordinaria contro il

(6) Bl a c k D ., The Incidence o f Income Taxes, London, 1939, pp 111-2

Per ] inquadramento del contributo del D e Viti nel quadro delle critiche a partire dagli anni 20, alla tesi dell intrasferibilità dell’imposta generale sul r e d d it o ,^ ve­ da anche Cabiattc A ., La fin an za di Antonio D e Viti de M arco, in Giornale degli

economisti (novem bre 1928), p. 890. J

(7) P rincipi, cit., pp. 407-8.

The ° ’ °,n th* J f t p k » ° f Politicai Economy and Taxation, in

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— 174

prestito pubblico, perché quella obbliga la generazione presente a intensificare il risparmio, il che torna poi a vantaggio delle genera­ zioni future, che ereditano un patrimonio maggiore ». « Ammesso che ciò sia vero », sostiene il De Viti, « non è dimostrato che sia utile » perché « l’individuo raggiunge il massimo edonistico, quan­ do è lasciato libero di ripartire il suo reddito tra la soddisfazione dei bisogni attuali e la soddisfazione dei bisogni prospettivi, secondo il suo proprio apprezzamento. Il prestito pubblico asseconda questo principio; l’imposta straordinaria lo ostacola ». E anche rispetto al­ la collettività per il De Viti non è dimostrato che sia utile « che una prima generazione sia spinta a risparmiare al massimo, per consen­ tire ad una delle generazioni seguenti di consumare al massimo. Quel principio economico, che vale per 1 individuo, deve assumersi come vero anche rispetto all’aggregato degli individui che formano la generazione » (9).

Per il De Viti però l’interesse delle generazioni future, mentre non deve influire sulla scelta tra imposta e prestito, può consigliare « una regola politica di moderazione nelle spese straordinarie, che presentano la certezza del costo attuale e la incertezza della utilità futura » (10).

Insieme all’argomento a favore dell’imposta straordinaria, ba­ sato sugli effetti sopra la formazione di capitale, il De Viti critica anche l’argomento già avanzato pur esso dal Ricardo (11) secondo il quale l’imposta sarebbe preferibile al prestito perché opporrebbe « maggiori forze di attrito a quei governi, che cercano grandi som­ me per seguire una politica di sperperi e di guerre ». Per il De Viti « chi avesse la forza politica di imporre ad un governo di adottare l’imposta straordinaria invece del prestito, avrebbe la forza politica di impedire la spesa che ritiene dannosa al paese » (12). 9 10 11 12

(9) P rin cipi, cit., pp. 409-410. (10) P rin cipi, cit., p. 409.

(11) Ri c a r d o, Funding System, cit., p. 186: « When the pressure o f the war

is felt at once, without mitigation, we shall be less disposed wantonly to engage in an expensive contest »; p. 197: « There cannot be a greater security for the conti­ nuance o f peace than the imposing on ministers the necessity o f applying to the people for taxes to support a war ». Com e osserva Sh o u p C .S., Ricardo on Taxa­

tion, New Y ork, 1960, p. 155, questo argomento non è ripreso nei Principles. Se­

condo Sh o u p, luogo cit., su questo punto Ricardo segue forse Sm i t h A ., Wealth o f

Nations, Bk. V, Ch. I l i , edizione Cannan (6* ed.), p. 462. N el Contributo alla teoria del prestito pubblico il D e Viti ricorda l’argomento ricardiano e lo critica.

Cfr. De Vi t i d e Ma r c o A ., Saggi di economia e finanza, Rom a, s.d. ma 1898, p.

63; p. 69; p. 112 ss.

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con-Tutte le considerazioni ricordate fin qui (equivalenza ricardia- na; ìrrilevanza degli effetti sulla formazione di capitale; rifiuto del­ l’idea che l’imposta possa spingere a un maggior rigore) vanno nel senso dell’indifferenza tra imposta straordinaria e prestito. Ma il De Viti conclude invece a favore del prestito in forza dell’argomen­ to, da lui svolto con originalità e finezza, che il prestito ha il van­ taggio di prelevare le disponibilità dove si trovano liquide, mentre l’imposta straordinaria colpisce anche i contribuenti che non hanno possibilità di monetizzare il loro patrimonio se non mediante sven­

de o ricorso a prestiti privati, a condizioni più onerose che non quelle del prestito pubblico (13).

Anche su questo punto la posizione del De Viti è opposta a quella di Eicardo che concludeva per l’irrilevanza del problema della liquidità (14).

Un ultimo elemento del giudizio positivo del De Viti sul presti­ to sta in quello che egli definisce l’ammortamento automatico, cioè l’effetto del democratizzarsi del debito pubblico, vale a dire la dif­ fusione in tutti gli strati della popolazione dell’investimento in titoli di Stato. Al limite ciascun cittadino riceve in interesse quanto paga d imposta per il servizio del debito. « In questo momento » afferma ì De Viti « il debito pubblico si può considerare come estinto di

fatto » (15). La tesi dell’ammortamento automatico ha avuto, dal 13 * 15

trasto con quanto il D e Viti aveva scritto nel 1922 e cioè che il prestito « riduce al massimo tutte le forme di attrito ». M a qui il De Viti era in polemica con il m ini-O recch i e s T ° de eP° f ar’ proponeva di Pareggiare il bilancio, ancora per parecchi esercizi, con il forte indebitamento (Economia e imposta, in Problemi

ita-Z u t l L agosto 1922, ristampato in De Viti oe Marco A * Un tren ten n i d i i l

dT attriti S <i; ma p ’ P-- 443) mentre la tesi della irrilevanza delle forze di attnto e affermata ne, P-nncrfn per il caso di una guerra o di una spesa vera­ mente straordinaria. In generale, che la maggiore utilità del prestito vada intesa

Itito AM a lmP°iS^ straordmaria è dett0 nel Contributo alla teoria del pre-

r e d d Z 0^ 0’ f u ' i qUand° 11 Prelevamento può essere sopportato dal

r i t r i t i o ’ 11 n c°rrere al prestito invece che all’imposta ordinaria porterebbe ad un mutile e costosa complicazione contabile ».

(13) Principi, cit., p. 392 ss.

disnosizfoneRÌ r r^ ° ° SSerVa i Se Ìndustria’ i e Proprietari terrieri non avessero a

disposizione grand, somme d, denaro e non riuscissero a pagare l’imposta rispar ffp ir nr SU p0r0r ° COrTentef « what should hinder themTrom selling a pari o f Ì '" P™Pert>' for m oney or o f borrowing it at interest? That there are persons loans W iffd ’ ttt eV]def kfr0m the faoility with which govem m ent r a L s ,ts

u iW hdrp?' thlS great borrower from the market, and private borrowers would be readdy a c c o m o d a t i », Ricardo D „ Funding System cit. , p. 188. Mi sembra che, nonostante In grande conoscenza che Ricardo aveva dei mercati fi nanzian, la ragione stia piuttosto dalla parte del D e Viti.

(14)

— 176 —

Griziotti al Buchanan (16), ampie critiche che richiederebbero una discussione impossibile in questa sede. Ma la portata della tesi è li­ mitata almeno per due ragioni: il prelievo delle imposte ha costi amministrativi che rimangono anche se, per i singoli contribuenti, c’è compenso fra imposte pagate e interessi percepiti; gli eventuali effetti disincentivi delle imposte non scompaiono neppure nel caso che il contribuente percepisca l’equivalenza tra le imposte che paga e gli interessi che riceve: le sue decisioni sulla propria attività pro­ duttiva saranno prese sulla base del rendimento di questa attività al netto delle imposter II compenso degli interessi è irrilevante per la decisione.

Comunque, entro questi limiti, l’ammortamento automatico può essere uno dei fattori che contribuiscono a spiegare come le so­ cietà contemporanee sopportino livelli molto elevati del debito pub­ blico.

4. Nell’analisi dei processi formativi delle decisioni finanzia­

rie, il De Viti parte dalla definizione di due tipi di Stato: lo Stato as­ soluto o monopolista, nel quale la classe dirigente tende al massimo sfruttamento dei soggetti, e lo Stato popolare o cooperativo, nel quale la libera competizione dei gruppi sociali realizza condizioni vicine alla figura economica della cooperativa con identità persona­

le tra produttori e consumatori (17).

Nell’edizione definitiva dei Principi non c’è più traccia di un terzo tipo di Stato, lo Stato tutorio, che nel Carattere teorico del 1888, è definito come « l’organizzazione di classi superiori, che mi­ rano a promuovere il generale benessere delle popolazioni con au­ torità assoluta, ma paterna » (18).

Per il De Viti « queste due forme di costituzioni politiche so­ no... due casi limite, tra cui sono comprese tutte le possibili combi­ nazioni storico-concrete; ...in teoria concreta, per spiegare ì feno­ meni finanziari, bisogna di regola risalire alla combinazione delle due premesse: poiché nella realtà non esiste un governo assoluto, 16 17 18

(16) Gr i z i o t t i B., Vecchi e nuovi indirizzi nello scienza delle finanze

(1935), ristampato in Saggi sul rinnovamento della scienza delle finanze e del di­

ritto finanziario, Milano, 1953, p. 224 ss.; Buchanan J.M ., La scienza delle fin an ­

ze: The Italian Tradition in Fiscal Theory, in Fiscal Theory and Politicai Econo­ mi), Chapel Hill, I960, p. 57 ss.

(17) P rincipi, cit., pp. 40-1 (corsivo del D e Viti).

(18) De Viti de Marco, Il carattere teorico dell’economia finanziaria, Ro­

(15)

in cui la volontà del sovrano non subisca l’influenza modificatrice dell’ambiente, né una costituzione democratica, in cui la classe che governa non abbia una posizione di monopolio relativo » (19).

Nei Principi il De Viti parla di due tipi estremi, ma dedotti da due opposte tendenze storiche, e nel Carattere teorico aveva parla­ to, in modo piu articolato, di « uno Stato tipo, che riassume nei ca­ ratteri generali ed essenziali un ambiente storico determinato »; e ancora aveva scritto « presenteremo... la struttura tendenziale, ma "tipica” dello Stato moderno, confrontata con quella prevalente nell’epoca feudale e nell’antico regime, di cui ogni traccia non può dirsi ancora scomparsa » (20).

Rispetto a Francesco Ferrara che aveva anche lui definito — e definito con stupendo vigore — l’opposizione tra il concetto filosofi- co, per il quale l'imposta è necessità, giustizia ed utile generale, e il concetto storico, per il quale è rapina, oppressione, ingiustizia (21), 1 originalità del D e Viti sta nel collegamento delle due ipotesi all’e­ sperienza storica del passaggio dallo Stato assoluto allo Stato demo­ cratico, e quindi nel partire dall’ipotesi dello Stato cooperativo per spiegare la finanza pubblica dei suoi tempi. Questo è ben chiaro in una lettera del De Viti a Benvenuto Griziotti: « Il metodo d’indagi­ ne da me seguito consiste nel tentare prima la spiegazione (soltanto la spiegazione!) di ogni singolo fenomeno risalendo ai principii del valore e astraendo da cause e forze politiche, e poi passando a que­ ste quando (e qui è la regola) quelli non bastano » (22).

Nello Stato cooperativo, per il De Viti, « il rapporto che lega lo Stato produttore ai cittadini consumatori è quello dello scambio »: « ì cittadini contribuiscono beni privati che lo Stato trasforma in be­ ni pubblici ». E il De Viti polemizza contro coloro che negano que­ sto concetto perché « non amano di trattare l’obbligo di pagare im­ poste come la contropartita del diritto di ricevere servizi pubblici. Ciò ricorda, in forma attenuata, i tempi in cui l’imposta era il tribu­

to che i vinti pagavano al vincitore » (23). 19 20 21 22 23

(19) P rincipi, cit., pp. 41-2. (20) Carattere, cit., p. 91.

(21) Fe r r a r a F ., L ezioni di economia politica, Rom a, 1934, voi. I, p. 551 ss. Il rapporto fra il D e Viti e il Ferrara è colto bene da Luigi Einaudi, Francesco

rerrar a ritorna, m Riform a sociale (marzo-aprile 1935) e in Nuovi saggi, Torino,

1937, p. 403; e da Bu c h a n a nJ .M ., La scienza delle fin an ze, cit., pp. 29-30.

(22) Cfr. Gr i z i o t t i, Vecchi e nuovi ind irizzi, cit., p. 158.

(16)

de-— 178 de-—

Il rapporto di scambio avviene tra lo Stato e il consumatore nel caso dei servizi pubblici speciali; per i quali c’è domanda individua­ le; avviene tra lo Stato e la collettività dei contribuenti per i servizi pubblici generali, che non sono divisibili in unità di vendita (24).

Che il rapporto di scambio si instauri tra lo Stato e la collettivi­ tà implica che le decisioni finanziarie non possono essere intese co­ me il risultato delle valutazioni individuali. Su questo sono molto espliciti passi del Carattere teorico: nel caso dei servizi speciali « cessa ogni rapporto di scambio fra lo Stato e le private economie consumatrici ». E ancóra: « per la ripartizione sociale del costo dei servizi generali, il principio... non può essere che il calcolo edoni­ stico sociale esteso presuntivamente a tutte indistintamente le pri­ vate economie » (25).

Altre ragioni che impediscono di interpretare le decisioni fi­ nanziarie come il risultato delle valutazioni dei singoli sono espres­ se nei Principi: così le diversità di giudizio tra maggioranza e mino­ ranza, dalle quali discende tra l’altro che i beni pubblici sono con­ sumati anche da chi non li ha domandati; così la diversa partecipa­ zione dei contribuenti alla formazione del calcolo di valore collet­ tivo (26).

Come si vede il De Viti non cade nella critica che il Barone fa all’applicazione ai bisogni pubblici del calcolo individuale dei gradi finali di utilità, considerandola « uno dei maggiori pervertimenti cui sia giunta la teoria dell’utilità finale ». Nel Carattere teorico sembra anche anticipato l’argomento fondamentale della critica del Barone e cioè l’incompatibilità tra il massimo dell’utilità individua­ le nella soddisfazione dei bisogni pubblici e privati e un criterio prefissato per la ripartizione delle imposte (27). Scrive infatti in De Viti: « la presenza dell’apprezzamento finanziario dello Stato, che 24 25 26 27

stinati ai P rincipi, ma soppressi nella stesura definitiva. In essi polemizza contro i giuristi che considerano la sovranità dello Stato come fondamento delle imposte e che costruiscono lo Stato etico e giuridico, il quale per il D e Viti rientra nelle co­ struzioni che « furono (e sono) sempre nella storia il travestimento pseudo-scienti­ fico... di una verità più semplice e diretta, che, cioè, la ripartizione delle imposte è fatta dalla classe dominante... nel suo proprio interesse ». Cfr. Ca r d i n i A ., An­

tonio D e Viti de Marco: La democrazia incompiuta, Rom a, Bari, 1985, pp. 375-6.

(24) Principi, cit., p. 113.

(25) Carattere, cit., p. 103; p. 135. Cfr. anche p. 131 ss. (26) P rincipi, cit., pp. 124-6.

(27) Ba r o n e E ., Studi di economia finanziaria, in d o m a le degli economisti (aprile-maggio 1912), e Principi di economia finanziaria, Bologna, 1937, pp. 11- 13. Com e è noto la critica del Barone ha avuto la piena adesione d i Bu c h a n a n

(17)

si estrinseca nel sistema proporzionale o progressivo, toglie al sin­ golo contribuente l’opportunità di seguire il suo proprio apprezza­ mento economico e di manifestarlo in forma positiva e concreta ». E aggiunge: « il nesso tra il calcolo del singolo consumatore contri­ buente e quello dello Stato può solo trovarsi nella partecipazione e nel concorso del primo alla formazione del secondo » (28).

E qui anticipata la visione, dominante nei Principi, per la qua­ le il carattere della finanza nello Stato democratico sta tutto nella « premessa che, nella libera competizione di gruppi sociali e di par­ titi, ogni classe può arrivare al potere, e arrivatavi, deve restare sotto il sindacato continuo della collettività. Si realizzano così, « al­ meno in teoria pura, le condizioni tipiche della libera concorrenza » nella quale « in ogni momento ad un gruppo produttore se ne può

sostituire un altro, proveniente dalla massa dei consumatori » (29).

E ancora nei Principi si afferma che la condizione necessaria per una finanza democratica « non sta nel fatto che il diritto del contribuente trovasi scritto nelle carte costituzionali, ma nel grado di forza con cui è sentito dal popolo e nella conseguente efficacia con cui è esercitato dai parlamenti. Non basta che sia una norma di legge, occorre che sia una forza operante » (30).

Il De Viti ha tenuto ferma fino alla edizione definitiva dei

Principi questa visione della democrazia come confronto fra un

gruppo al potere e un’opposizione attuale o potenziale, senza consi­ derare il fenomeno, da lui ampiamente e lucidamente analizzato in altri scritti, del disgregarsi del sistema politico in gruppi che sono rappresentanza di interessi particolari tra i quali « la maggioranza si forma » come egli scriveva, « di accordi e reciproche concessio­ ni, in modo che il risultato finale non coincide con l’interesse gene­ rale del paese ». E affermava, in questo scritto del 1890, essere « vecchia osservazione che i parlamentari sono in un grandissimo numero di casi rappresentanze di interessi particolari — di classi o di regioni » (31).

Questo motivo è frequentemente ripreso dal De Viti, da ultimo nel 1930, nelle splendide pagine introduttive agli scritti raccolti in 28 29 30 31

(28) Carattere, cit., pp, 157-8.

(29) P rincipi, cit., pp. 40-41 (corsivi del D e Viti). (30) P rincipi, cit., pp. 122-3.

(18)

Un trentennio di lotte politiche, dove si legge tra l’altro che in Italia

« con la unità conseguita, si esaurì la funzione storica e la vitalità dei vecchi partiti. Restarono, bensì, i vecchi raggruppamenti di persone legate da vincoli di tradizionale convenienza; ma subito si manifestò, nell’interno di cascuno di essi, la più grande confusione di idee e di metodi » (32). E dopo la guerra mondiale, in appunti inediti, probabilmente del 1920-21, riportati nel bel volume di An­ tonio Cardini, il De Viti aveva scritto: « l’aver vissuto di debiti fa pensare a molti che abbiamo vissuto di reale ricchezza, di mezzi nostri e fa credere che si possa continuare. Così, si è determinata la lotta tra l’universale parassitismo dei gruppi e la massa dei con­ tribuenti » (33). E ancora, in altri appunti inediti: « lo Stato attuale va abbandonando la forma e la sostanza delle organizzazioni coope­ rative e si avvia nuovamente verso il tipo monopolistico; alcuni gruppi se ne sono impadroniti e realizzano sopraredditi di mono­ polio » (34).

Ci si può chiedere perché la percezione amara della degenera­ zione del sistema parlamentare non trovi posto nei Principi, dove i caratteri della finanza democratica sono presentati come reali, sia pure commisti a residui dello Stato monopolista. Non credo sia pos­ sibile dare spiegazioni che possano essere sottoposte a verifica. Ma si può suggerire che il De Viti avesse sperato, fino all’avvento del fascismo, che si potessero ricostruire le condizioni di una finanza democratica. Infatti scriveva ancora nell’agosto 1922, contro l’idea che fosse necessaria una dittatura per salvare il paese: « la via maestra... è che la LEGA DEI CONTRIBUENTI, con un piccolo sforzo elettorale, riprenda in mano il governo della cosa pubblica... e faccia del parlamento elettivo il mandatario della sua volontà pre­ cisa e della burocrazia l’organo esecutivo della volontà parlamenta­ re. I cittadini che pagano imposte sono l’enorme maggioranza di fronte alla minoranza trascurabile dei gruppi privilegiati che vivo­ no sulle spese. Si contino! » (35). E nel settembre scriveva a Giu­ stino Fortunato che il movimento di riscossa doveva partire dai contribuenti e solo poteva ancora salvare l’Italia (36). 32 33 34 35 36

— 180 —

(32) De Vitid eMarcoA ., Un trentennio di lotte politiche, cit., p. VI. (33) Cfr. Cardini, Antonio D e Viti de Marco, cit., p. 344.

(34) Cfr. Cardini, op. cit., pp. 375-6. Secondo il Cardini, questo appunto sarebbe stato destinato ai Principi ma soppresso nella stesura definitiva.

(35) De Viti de Marco A ., Economia o imposta?, cit., p. 446 (maiuscolo del De Viti).

(19)

Dopo aver constatato la disfatta, il De Viti intese forse che nei

suoi Principi restasse la testimonianza della finanza democratica. r f o

5. Come abbiamo visto, per il De Viti c’è un rapporto df)

scambio tra lo Stato produttore dei servizi pubblici generali e collettività dei contribuenti. Da questo concetto si sviluppa la teori; devitiana dell’imposta, cioè, come egli dice, la ricerca della legg_ del prezzo-imposta, ossia del prezzo che ogni cittadino paga allo Stato per coprire la quota-parte del costo dei servizi pubblici gene­ rali che egli consumerà » (37), e che « sono strumentali per la pro­ duzione ed il godimento dei beni privati » (38).

Poiché per i servizi pubblici generali manca la domanda indivi­ duale, il loro consumo da parte dei singoli contribuenti è un’inco­ gnita che viene risolta procedendo per presunzioni, e cioè suppo­ nendo 1) che tutti i componenti della collettività siano consumatori dei servizi pubblici generali; 2) che il reddito di ogni cittadino sia

,QÌì

indice della sua domanda di tali servizi. Si può così, secondo il De Viti, « accettare con sufficiente tranquillità la proposizione: il con­

sumo dei servizi pubblici generali è proporzionale al reddito di ogni cittadino » (39).

A questo punto occorre definire il reddito: per il De Viti esso è la massa dei beni diretti prodotti e consumati. Questa massa deve essere ripartita fra gli agenti della produzione e i contribuenti in modo che la somma dei redditi individuali sia uguale al reddito na­ zionale, senza duplicazioni né salti (40).

Poiché « ogni particella di reddito prodotto contiene la quota- parte di costo che lo Stato ha sostenuto per la produzione dei suoi servizi produttivi; e poiché l’imposta è il corrispettivo di questo co­ sto, ... segue che ogni particella di reddito nasce gravata dal relati­

vo debito tributario » (41).

Questa teoria dell imposta è impeccabile nei suoi limiti, cioè, in primo luogo, la dipendenza dall’assunzione che si abbia un rappor­ to di scambio tra Stato e contribuenti: abbiamo visto che per il De Viti questa assunzione ha un valore politico essenziale, perché al di 37 38 39 40 41 Marco, cit., p. 351. Non figura in Giuslino Fortunato. Carteggio 1912/1922, R o­

ma, Bari, 1979.

(37) P rincipi, c it., p. 114.

(38) P rincipi, cit., p. 150, e passim.

(39) P rin cipi, cit., pp. 114-117 (corsivo del D e Viti). (40) P rin cipi, cit., pp. 218-22.

(20)

182

fuori di essa c’è il regresso allo Stato assoluto; in secondo luogo il carattere statico della costruzione, che non fa posto ad elementi di previsione e all’incertezza (42).

L ’ambito della statica entro il quale si muove il De Viti com­ porta una radicale differenza della sua trattazione del reddito ri­ spetto a quella dell’Einaudi. L ’Einaudi nelle sue critiche al concet­ to di reddito effettivo ha fatto leva proprio sull’arbitrarietà che, nella valutazione del reddito in un esercizio finanziario, risulta dal­ la necessità di fare ipotesi su eventi che si verificheranno in eserci­ zi futuri. Questi problemi sono estranei al De Viti, che rimane rigo­ rosamente entro i limiti della statica.

La differenza tra i concetti di reddito del De Viti e dell’Einaudi sembrerebbero contraddire il giudizio di quest’ultimo che a propo­ sito del De Viti parla di « un’analisi stupenda del reddito lordo so­ ciale e della sua scomposizione in redditi netti individuali » (43).

Ma la contraddizione non c’è, perché l’Einaudi vedeva l’affini­ tà tra il metodo di lavoro del De Viti e il proprio, il metodo cioè di partire dalle ipotesi, per valutare se, e in che misura, gli istituti tri­ butari concreti si possano spiegare con i principi postulati dalle teo­ rie. La somiglianza tra il suo metodo e quello del De Viti è affer­ mata esplicitamente dall’Einaudi nelVOttima imposta (44).

Quindi che il concetto di reddito del De Viti fosse diverso dal suo, non significava che l’Einaudi non ne potesse ammirare la ca­ pacità di spiegare i fatti.

E in effetti dai suoi postulati, pur nei loro limiti statici, il De Viti ha potuto pervenire alla più rigorosa sistemazione teorica del concetto di reddito prodotto, proprio delle legislazioni tributarie dell’Ottocento e in primo luogo di quelle italiana e britannica, alle quali egli era soprattutto attento. E la sua costruzione gli ha con­ sentito di interpretare come organismo tributario (45) le nostre leg­ gi d’imposta. Purtroppo oggi nessun De Viti potrebbe ridurre a or­ ganismo tributario le nostre leggi d’imposta. 42 43 44 45

(42) Questo aspetto della costruzione devitiana è discusso nel mio Sul con­

cetto d’imposta generale, in Giornale degli economisti (novembre-dicembre 1947),

p. 601 ss.

(43) Ei n a u d i L ., Contributo alla ricerca dell’ottima imposta, in Annali di

economia (1929), ristampato in Saggi sul risparmio e l’imposta, Torino, 1958, p. 271.

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6. Il concetto di reddito imponibile come reddito prodotto ha un carattere oggettivo, e del resto già nel Carattere teorico il De Viti aveva scritto che il reddito netto è « l’indizio medio, l’equipol­ lente più sicuro non della “ capacità contributiva” ma della “ capaci­ tà di domanda” dei servigi pubblici » (46).

A questo concetto di reddito sembrerebbe doversi associare un criterio oggettivo di ripartizione delle imposte.

In effetti il De Viti dà grande rilievo alla funzione dell’imposta proporzionale quale strumento della finanza neutrale e del supera­ mento dei privilegi tributari di classe, propri dei vecchi regimi. « L ’imposta proporzionale, egli scrive, « è l’istituto tributario che rispetta al massimo la produzione della ricchezza e l’accumulazione del capitale ». Infatti essa non esercita alcuna influenza né sulla produzione della ricchezza, perché grava in misura costante ogni nuova unità di ricchezza prodotta, né sulla ripartizione, perché non crea ragioni di scambio relativamente più favorevoli per le piccole o per le grandi fortune (47).

E critica, il De Viti, l’imposta progressiva riprendendo dalla teoria, a lui contemporanea, l’argomento che « il principio del valo­ re subiettivo non consente confronti di sensibilità tra individui di­ versi » (48).

E più in generale il De Viti non prende in considerazione i ten­ tativi di fondare la ripartizione delle imposte sulla teoria dell’utilità marginale: nel Carattere teorico parla di « arbitrarie elucubrazio­ ni » (49) e nei Principi afferma che l’imposta progressiva non può nascondersi « dietro il paravento del valore subiettivo » (50).

Secondo il De Viti l’indeterminatezza delle regole distributive, che si possono dedurre dai principi del sacrificio, risulta ancora ac­ cresciuta se si tien conto che « in tema di valore non si può prescin­ dere dal confronto tra l’apprezzamento utilitario di ogni successiva dose di reddito e il sacrificio corrispondente di ogni successiva dose di costo », e che quindi « il rapporto fra i godimenti crescenti ed i corrispondenti costi crescenti accenna all’idea della proporzione, e non della progressione » (51). 46 47 48 49 50 51

(46) Carattere, cit., p. 136.

(47) P rin cipi, cit., pp. 185-6. Cfr. anche pp. 192-4. (48) P rin cipi, cit., pp. 124-5.

(49) Carattere, cit., pp. 156-7.

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Il De Viti ha anche pagine notevoli sui limiti che derivano al­ l’imposizione progressiva dal fatto che « la politica che tende al li­ vellamento delle fortune è in conflitto con quella che tende a porta­ re l’onere tributario dalle classi povere alle classi ricche » e che « il punto massimo di rendimento di questa politica si ha, a) applicando un’aliquota proporzionale dalle medie fortune in sopra, così da non ostacolare gli stimoli al risparmio, e ò) sgravando gradualmente le fortune inferiori, a misura che l’accumulazione della ricchezza assi­ cura automaticamente redditi crescenti allo Stato » (52). Queste idee ispirano anche il' giudizio del De Viti sull’imposta complemen­ tare progressiva sul reddito introdotta in Italia nel 1923, che secon­ do lui avrebbe dovuto essere abolita e sostituita da un’aumento del­ le aliquote di tutte le dirette, a guisa di una sovrimposta, che avrebbe dovuto prevedere l’esonero totale o parziale dei redditi inferiori (53).

La valutazione del De Viti sembrerebbe condurre alla scelta dell’imposta proporzionale, ed egli stesso osserva che dalle sue premesse « parrebbe che si possa senz’altro dedurre il principio dell’imposta proporzionale »: se il consumo dei beni pubblici è pro­ porzionale al reddito, anche l’imposta dovrebbe essere proporzionale. Ma per arrivare a questa conclusione bisognerebbe che nell’e­ conomia pubblica come nella privata valesse il principio del « prez­ zo unico ». Invece nell’economia finanziaria non sono necessaria­ mente operanti le cause che portano al prezzo unico nell’economia privata di concorrenza. Perciò, conclude il De Viti, dalla presun­ zione che ogni cittadino consumi servizi pubblici in proporzione al suo reddito « non deriva necessariamente l’imposta proporzionale. Manca l’anello intermedio del prezzo unico. Dunque il principio del valore obiettivo o dell’equivalenza economica non spiega l’imposta proporzionale » (54).

Così, con non comune scrupolo intellettuale, il De Viti rinuncia a trarre dalle sue premesse la deduzione apparentemente ovvia dell’imposta proporzionale, e afferma che il regime proporzionale e il progressivo non possono essere considerati come corollari della teoria del valore ma soltanto « come fatti primi di tendenza politi­ ca, conformi rispettivamente all’interesse delle classi dominan- 52 53 54

— 184 —

(52) P rincipi, cit., p. 195. Si vedano anche le pp. 200-202. (53) P rincipi, cit., p. 317.

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ti » (55). Non è una visione ristretta questo ricondurre l’imposta progressiva al contrasto di interessi, perché il De Viti afferma an­ che che « 1 aspirazione verso l’eguaglianza degli uomini è una forza incoercibile » (56); riconosce i casi di altruismo collettivo (57); af­ ferma che la redistribuzione mediante benefici speciali può elimi­ nare mah sociali, « il che rappresenta un bisogno anche delle classi che pagano » (58).

7. Ci sarebbe molto da dire sull’analisi che il De Viti fa del-

1 intreccio fra imposizione progressiva, benefici speciali e spese so­ ciali, inquadrandolo negli sviluppi della finanza pubblica dall’epoca delle grandi rivoluzioni ai suoi tempi. Sviluppi che segnano il pas­ saggio da un periodo nel quale i problemi della produzione prevale­ vano su quelli della ripartizione a un periodo in cui « per il grande slancio che la produzione e l’accumulazione della ricchezza hanno di fatto compiuto, si è cominciato a dare di nuovo importanza re­ lativamente maggiore ai problemi della ripartizione della ric­ chezza » (59).

La valutazione di questo sviluppo è nel De Viti positiva. Egli vede gli aspetti favorevoli dell’espansione delle spese sociali, e in generale della spesa pubblica (60). Non c’è nel De Viti, come non c e nell’Einaudi, alcuna propensione per lo Stato minimo. Ma c e nel De Viti, come nell’Einaudi l’avversione alle leggi sociali calate dall alto (61) anziché conquistate attraverso la lotta e c ’è la denun­ cia del pencolo « che domandino aumenti di spese coloro che non pagano imposte e che paghino imposte coloro che non domandano aumento di spese » (62).

Nella visione del De Viti la finanza democratica è una finanza nella quale le decisioni devono essere prese responsabilmente.

8. Anche se il pensiero del De Viti si è formato in tempi assai

lontani, 1 originalità e il rigore della costruzione teorica e la profon- 55 56 57 58 59 60 61 *

(55) Principi, cit.,p. 183 (corsivo del De Viti). (56) Principi, cit.,p. 187.

(57) Principi, cit., p. 167. (58) Principi, cit.,p. 190. (59) Principi, cit., p p . 185-6.

(60) Cfr. in particolare Principi, cit.,pp. 66-7. (6 1 ) Ca r d i n i, De Viti de Marco, cit.,p. 63. (6£) Principi, cit.,p. 191.

(24)

— 186 —

da consapevolezza storica fanno tuttora del suo lavoro un punto di riferimento fondamentale per gli studi finanziari.

L ’opera del De Viti ha evidentemente dei limiti, ma i libri non vanno giudicati per quello che non ci si trova, e quindi e sempre valido il giudizio che l’Einaudi dette nel 1934 presentando l’edizio­ ne definitiva dei Principi: « Quella parte della realtà la quale è compresa nel suo sistema è significativa, è logica, è perfetta ed è piena di luce. Or questo è il vanto dei libri, i quali, suscitando con­

sensi e contrasti, segnano una nuova via all indagatore » (63). 63

(25)

ANTONIO DE VITI DE MARCO, ECONOMISTA E POLITICO (*)

di An t o n i o Ca r d i n i

Università degli studi di Siena

U patriottismo dei quarantottisti che noi della generazione nostra non abbiamo visto, si adduce per ottenere la impunità di una banda di affaristi e di svaligiatori pubblici che noi della generazione nostra conosciamo » (1), scriveva nel 1897 De Viti de Marco, in oc­ casione delle celebrazioni per il cinquantenario del 1848, alludendo alla classe politica del suo tempo: una critica corrosiva, pronunziata mentre era intento a spiegare i perché di tale situazione.

Il cammino scientifico di De Viti si dipanò infatti attraverso le diverse edizioni del suo trattato di scienza delle finanze, ed il per­ corso politico si svolse in difesa dalla democrazia liberale. Erano due itinerari che anziché procedere in modo separato e parallelo si intrecciarono e si integrarono a vicenda. Le battaglie politiche, che nacquero da indagini e riflessioni scientifiche assai accurate, di no­ tevole livello tecnico, fornirono sovente una base sperimentale alla ricerca teorica che d’altra parte gli consentiva una veduta generale sulla natura ed il dover essere dello stato.

Assieme a Maffeo Pantaleoni, suo compagno di studi, cui fu le­ gato da fraterna amicizia per tutta la vita, De Viti si accostò da so­ lo, da studente, alla letteratura economica anglosassone, soprattut­ to a Stanley Jevons, avvicinandosi in tal modo al marginalismo, al­ l’inizio degli anni ottanta.

I primi articoli di De Viti, il primo è del 1879, mostrarono in­ vece una formazione storica, giuridica, economica insieme,

secon-( ) È il testo, riveduto e corredato di note, della relazione tenuta alVUni-

versità di Lecce in occasione del « Convegno in memoria di Antonio D e Viti de

M arco nel cinquantenario della morte » (Lecce, 25-26 febbraio 1994).

(26)

— 188 —

do i modelli dell’epoca. Appariva chiaro al giovane scrittore che l’ottocento recava in sé una partecipazione sempre più intensa e destinata ad estendersi della pubblica opinione agli atti di governo, in conseguenza delle rivoluzioni inglese e francese. Ed individuava perciò due modi di governare, ovvero due stati, quello autocratico rimesso alla volontà o all’arbitrio del sovrano, o della casta domi­ nante, e quello fondato invece sul consenso o la cooperazione popo­ lare, tendenzialmente democratico (2).

Si laureò in giurisprudenza nel 1881 e scongiurò la prospettiva di esercitare la professione legale, cui voleva destinarlo il padre, tenendo lezioni di economia a Napoli, sotto gli auspici di Antonio Ciccone, allora l’economista più importante dell’ateneo parteno­ peo. Iniziò così la sua lunga carriera accademica, durante la quale insegnò scienza delle finanze a Camerino, Macerata, e poi a Pavia, « sotto gli auspici » di Luigi Cossa, allora guida indiscussa della scienza economica italiana; De Viti lo frequentò assiduamente, così come altri due economisti: Fedele Lamperico ed Angelo Messeda- glia (conosciuto all’Università di Roma) coloro cioè che Francesco Ferrara considerava le guide della scuola storica italiana.

Nel 1885 De Viti subì la perdita del fratello maggiore, Girola­ mo, e del padre; ereditò perciò le tenute pugliesi, di Casamassella, Taurisano, San Pietro Vernotico, cui si aggiunse l’eredità di uno zio con la tenuta « I veli » a Cellino San Marco. Era divenuto un gran­ de proprietario e badò sempre alla conduzione delle sue terre, ma non lasciò gli studi.

Proprio nel 1885 uscì il suo primo libro Moneta e prezzi. Esso conteneva un’ampia ricognizione intorno ai cicli economici del se­ colo X I X nella piena consapevolezza dei caratteri della « lunga de­ pressione » del 1873-1896 in cui era immersa l’economia interna­ zionale. Il libro manifestava adesione a Stanley Jevons e critiche agli economisti tedeschi di scuola storica, gli « statolatri », senza tuttavia nessuna simpatia per i liberisti alla Bastiat. Moneta e prez­

zi conteneva la teoria dei cicli e rivolgeva a Marx una delle prime

repliche in Italia fondate sull’utilitarismo, posto implicitamente co­ me caposaldo del liberalismo contro il socialismo. « I l valore di scambio di due merci » — obiettava infatti De Viti in un lungo

esa-(2) De Viti de Ma k c o A ., Qualche considerazione sulle vicende della diplo­

(27)

me de] primo libro del Capitale -— « è determinato non dal quanto di lavoro che racchiudono, ma dal grado di utilità che arrecano al consumatore » (3).

De Viti dava inoltre ampio spazio storico alla sua indagine la­ sciando posto alla descrizione della rivoluzione industriale inglese, alla formazione a metà ottocento di un mercato mondiale, al nesso esistente tra vicende politiche e mutamenti economici negli ultimi trenta anni, all’espansione del 1848-1872, ed alla depressione suc­ cessiva, nel corso della quale gli investimenti erano rimasti costan­ ti, o si erano allargati, i consumi aumentavano e lo sviluppo indu­ striale, spinto dalle nuove applicazioni tecnologiche proseguiva an­ che m periodo di prezzi bassi, similmente a quanto era avvenuto in precedenza con un periodo di prezzi elevati. Prendeva posizione sulle scuole economiche del suo tempo, mostrandosi contrario tanto al laissez-faire quanto al socialismo della cattedra, in vista del mar­ ginalismo.

La scelta fu ribadita nel 1888, con un contributo fondamentale su II carattere teorico dell’economia finanziaria (4). Il manoscritto del lavoro fu letto e commentato da Maffeo Pantaleoni. Secondo De 'Viti gli stati contemporanei si muovevano verso una partecipa­ zione collettiva all’amministrazione della cosa pubblica, che rende­ va ogni cittadino interessato all’esercizio dell’« industria governati­ va » (5). I compiti dello stato potevano essere dunque anche molto estesi m corrispondenza di quanto i singoli individui sapevano valu­ tare caso per caso in merito all’utilità ed ai costi della funzione pub­ blica ed all onere relativo che all’economia privata ne sarebbe deri­ vato. D altronde De Viti stesso dichiarava che l’insieme dei servizi statali consentiva lo svolgimento dell’attività privata, ed era un fat­ tore di produzione, cui corrispondeva un prezzo.

Con tali criteri la compagine statale cessava di essere sovrap­ posta all economia ma si integrava e si poneva al servizio di questa, trasformandosi in « economia sociale cooperativa » (6).

(3) De Viti de Marco A

rapporto alla questione monetaria,

delle teorie di Marx, pp. 19-31. (4) De Viti de Marco Rom a, Pasqualucci, 1888.

., Moneta e prezzi, ossia il principio quantitativo in Citta di Castello, Lapi, 1885, p. 23; per l’esame A ., Il carattere teorico dell’economia finanziaria,

(28)

— 190 —

Veniva così delineata la tipologia dello stato monopolista o as­ soluto, e dello stato democratico o cooperativo, i due esempi estre­ mi della esclusione o partecipazione popolare alle scelte finanziane dello stato. C ’era un richiamo alla « società militare » e alla « so­ cietà industriale » di Spencer, secondo la moda del tempo. De Viti non nascondeva che le sue preferenze andavano agli stati nei quali il popolo era chiamato a compiere in modo diretto le proprie scelte, e le campagne politiche da lui condotte erano applicate sulla falsa­ riga di questi modelli teorici. Criticava peraltro chi si batteva affin­ ché l’azione pubblica'fosse limitata a prescrizioni puramente nega­ tive. « Il quale principio » — osservava De Viti — « è in evidente contraddizione col fenomeno costante e permanente dello stato mo­ derno, le cui attribuzioni si estendono ogni giorno di piu a prescri­ zioni positive » (7). De Viti proponeva invece di superare total­ mente le antiche discussioni sui compiti dello stato nell economia prestando attenzione alle forme di controllo sulle decisioni pubbli­ che ed alla partecipazione efficace ed effettiva della maggioranza all’esercizio del potere, per quanto concerneva le decisioni finan­ ziarie. Per definire uno stato democratico quale emergeva dalle analisi devitiane del 1888 era dunque fondamentale constatare m che misura i cittadini riuscivano a trasmettere le proprie scelte eco- nomico-fmanziarie all’apparato pubblico. Se ne aveva un riscontro preciso nella legislazione tributaria, finanziaria, economica adottata e nell’utilizzazione della spesa. La crescente influenza dell appara­ to statale doveva essere di conseguenza sottoposta al controllo dei cittadini, in modo che ognuno sapesse scegliere l’utile relativo deri­ vante da ciascuna decisione, mentre il perseguimento de benesse­ re (benessere e democrazia) diventava l’obiettivo generale politico

da perseguire. . , „ , , , „

De Viti de Marco inquadrava i problemi dello stato e della fi­ nanza pubblica nel processo dei mutamenti profondi avvenuti nel periodo delle trasformazioni tecnologiche e delle concentrazioni in­ dustriali I primi lavori di economia applicata (sull’industria dei te­ lefoni) mostrano totale conoscenza dei fenomeni del momento, *

trusts, le economie di scala, le società per azioni, le nuove forme

aziendali. , .i„

Nel 1887-1888 quando divenne straordinario di scienza d

finanze nella facoltà di giurisprudenza dell’Università di Roma

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ve sarà ordinario nel 1898 e dove rimarrà sino al suo ritiro) aveva inoltre maturato con Pantaleoni il preciso disegno di introdurre il marginalismo in Italia. A questo scopo i due economisti presero contatto con Léon Walras nel 1889 per fondare una apposita rivi­ sta, che rafforzasse l’indirizzo aperto con i loro libri. Ad essi si unì Vilfredo Pareto, conosciuto nel 1889 al congresso per la pace orga­ nizzato da Teodoro Moneta (8). De Viti e Pantaleoni si rivolsero contemporaneamente a Felice Cavallotti per lanciare un program­ ma liberaldemocratico di stampo anglosassone, nel 1890. Ma Ca­ vallotti non accolse le loro proposte e proseguì nel suo programma varando il Patto di Roma.

La rivista dei marginanti e liberisti fu poi dal luglio 1890 il « Giornale degli economisti », da allora acquistato e diretto assie­ me ad Ugo Mazzola, e sottratto ad Alberto Zorli, il direttore prece­ dente, che aveva dato alla rivista un indirizzo storico-amministrati­ vo. La redazione si trovava nella casa romana di De Viti, a palazzo Orsini in via Monte Savello. De Viti mostrava perfetta consapevo­ lezza che la scienza economica doveva essere improntata a « spe- ciahsmo », a differenza che nel passato, e utilizzava questa defini­ zione disciplinare a scopo politico. Con Mosca e Orlando lo specia- lismo a fine anni ottante investì tutte le scienze dello stato non solo l’economia, ma la giuspubblicistica e la politica. Esse nascevano dalla critica alla Sinistra ed al parlamentarismo e dalle delusioni delle prime prove date dallo stato unitario. Queste scienze avevano l’intento di riformarlo, assegnando al liberalismo una solida base scientifica ed alla politica una netta impostazione sui temi della li­ bertà e deH’autorità. Orlando con il suo Rechtsstaat, adottava, per fornire delle risposte, il modello tedesco, così come Ricca-Salerno con la sua scienza delle finanze ricalcava il modello di Sax, favore­ vole all’autorità; De Viti, Pantaleoni e Pareto proponevano invece la democrazia liberale.

D e Viti congiungeva gli elementi che gli derivavano dall’orien­ tamento politico e dalle convinzioni teoriche maturate in quegli an­ ni, all osservazione diretta delle vicende parlamentari italiane. Dal « Giornale degli economisti » impostò una campagna

politico-eco-isqo ' n-ki- ettera dl, D ®. Vltl de M arco a Ubaldino Peruzzi, del 29 luglio

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nomica fondata su marginalismo e liberalismo che investì diretta- mente l’Italia degli anni novanta. « È vecchia osservazione — dice­ va _ che i Parlamenti sono in grandissimo numero di questioni

rappresentanze di interessi particolari di classi o di regioni e

che in questi casi la maggioranza si forma di accordi o di reciproche concessioni, in modo che il risultato finale non coincide con l’inte­ resse generale del paese (•■•). Ciascuno tanto piu energicamente lotta per ottenere un porto, una strada, una stazione, un ufficio te­ legrafico, quanto più è convinto che il costo sara sopportato da tutto intero il paese » (9).

Gli attacchi erano rivolti a Crispi ed agli economisti tedeschi che ne improntavano l’azione di governo dal 1887. Nel 1891 De Vi­ ti compiva una complessiva analisi della politica economica e della spesa pubblica italiana, sostenendo che l’indirizzo autoritario non poteva reggere il confronto con il mondo industriale moderno. Sol­ levò il problema finanziario, tributario, doganale dell’Italia dopo il 1887 e la questione del Mezzogiorno, impostando i vari temi sulla base di applicazioni concrete della scienza economica, come non era stato fatto sino ad allora, in termini nuovi quindi. Valendosi de­ gli « indici misuratori del movimento economico » fornitogli da Lui­ gi Bodio, sosteneva che la crisi non era limitata al nostro paese, aveva carattere internazionale. Le tariffe doganali se consentivano, nella crisi internazionale, di mantenere i prezzi stabili, deprimeva­ no al tempo stesso la domanda aggiungendosi agli effetti della pres­ sione fiscale esercitata per mantenere una politica estera « gran­ diosa ». È interessante l’analisi aggregata dell’economia del suo tempo che sia pure con gli strumenti dell epoca era capace di com­ piere.

Intanto Leo Wollemborg aveva ricevuto copia della relazione Alvisi Biagini sulla Banca Romana, tenuta nel cassetto dal 1889 dal ministro competente, e la consegnò a Pantaleoni il quale assieme ai suoi amici la affidò a Napoleone Colajanni purché questi la rendes­ se nota in Parlamento. De Viti accompagnò l’esplosione dello scan­ dalo con una nutrita serie di articoli sul « Giornale degli economi­ sti » intorno al riordino del sistema creditizio italiano e alla questio­ ne delle banche di emissione. Ammesso come socio all’Accademia

(9) De Viti de Marco A ., L ’industria dei telefoni e l’esercizio di stato, in

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