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Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze. 1994, Anno 53, settembre, n.3

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SETTEMBRE 1994 Pubblicazione trimestrale Anno LIII - N. 3

RIVISTA DI DIRITTO FINANZIARIO

E S C I E N Z A D E L L E F I N A N Z E

Fondata da BENVENUTO GRIZIOTTI

(e R I V I S T A IT A L IA N A D I D I R I T T O F IN A N Z IA R IO )

D I R E Z I O N E

ENRICO ALLORIO - EMILIO GERELLI

COMITATO SCIENTIFICO

ENRICO DE MITA - ANDREA FEDELE - FRANCESCO FORTE AMEDEO FOSSATI - FRANCO GALLO - SALVATORE LA ROSA IGNAZIO MANZONI - GIANNINO PARRAVICINI - ANTONIO PEDONE

SERGIO STEVE

COMITATO DIRETTIVO

ROBERTO ARTONI - FILIPPO CAVAZZUTI - AUGUSTO FANTOZZI

G. FRANCO GAFFURI - DINO PIERO GIARDA - EZIO LANCELLOTTI

ITALO MAGNANI - GILBERTO MURARO - LEONARDO PERRONE

ENRICO POTITO - PASQUALE RUSSO - GIULIANO TABET

FRANCESCO TESAURO - GIULIO TREMONTI - ROLANDO VALIANI

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territoriale dell’ Università, della Cam era di Commercio di Pavia e dell’Istituto di diritto pubblico della Facoltà di Giurisprudenza dell’ Università di Roma. Questa Rivista viene pubblicata con il contributo finanziario del Consiglio Nazionale delle Ricerche.

Direzione e Redazione: Dipartimento di Economia pubblica e territoriale del­ l’ Università, Strada Nuova 65, 27100 Pavia; tei. 0382/387.406, (Fax) 387.402.

Ad essa debbono essere inviati bozze corrette, cambi, libri per recensione in duplice copia.

Redattori: Silvia Cipollina, Angela Fraschini, Giuseppe Ghessi. Segretaria di Reda­ zione: Claudia Banchieri.

L ’ Amministrazione è presso la casa editrice Dott. A. GIUFFRE EDITORE S .p.A ., via Busto Arsizio, 4 0 - 2 0 1 5 1 Milano - tei. 3 8 .0 8 9 .2 0 0

Pubblicità:

dott. A. Giuffrè Editore S.p.a. - Servizio Pubblicità via Busto Arsizio, 4 0 - 2 0 1 5 1 Milano - tei. 3 8 .0 8 9 .3 2 4

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Per ogni effetto l’ abbonato elegge domicilio presso l’ Amministrazione della Rivista. Ai collaboratori saranno inviati gratuitamente 50 estratti dei loro saggi. Copie supplementari eventualmente richieste all’ atto del licenziamento delle bozze verranno fornite a prezzo di costo. La maggiore spesa per le correzioni straordinarie è a carico dell’ autore.

Registrazione presso il Tribunale di Milano al n. 104 del 15 marzo 1968 Iscrizione Registro nazionale stampa (legge n. 416 del 5.8.81 art. 11)

n. 00023 voi. I foglio 177 del 2.7.1982 Direttore responsabile: Emilio Gerelli

Rivista associata all’ Unione della Stampa Periodica Italiana Pubblicità inferiore al 50%

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IN D IC E -S O M M A R IO

P A R T E P R I M A

Ma r io Le c c is o t t i - Mi c h e l e Be r n a s c o n i - La nozione di « capacità contri­ butiva ». Una prima indagine conoscitiva fra i cittadini romani ... 337 Ma r io S . Ca t a l a n i - Giu s e p p e F . Cl e r ic o - Scelta criminale e deterrenza.

E ffetti delVinterazione tra precauzione privata ed intervento pubblico ... 3 7 5 Gu g l ie l m o Fr a n s o n i - Prime riflessioni sulla costituzione in giudizio della

parte resistente nella nuova disciplina del processo tributario... 386 Al e s s a n d r o Gio v a n n in i - Associazioni e società fra professionisti nel diritto

tributario... 4 33

APPUN TI E RASSEGNE

Ba r b a r a Ro s s i - Il parere dell’ordine professionale nel procedimento di eso­ nero dalla « m inim um ta x » ... 471 Da n t e Lu i g i Ga r d a n i - La sospensione cautelare nel nuovo contenzioso tri­

butario ... 475

RECENSIONI

Fa r n e t i G . - R bilancio dell’ente locale. Determinazioni preventive e con­ suntive (G . La d u) ... 484

NUOVI LIB R I ... 486

RASSEGNA D I PUBBLICAZIONI RECENTI ... 489

P A R T E S E C O N D A

Fr a n c o Fo r m ic a - La presunzione di trasferimento delle accessioni nella im­ posta di registro ... 64 Fa b r iz i o Fe r r i - Sull’accertamento sintetico ed instaurazione del contraddit­

torio ... 7 1 Ma r i a Ce c i l i a Fr e g n i - Ipotesi di estensione analogica di una norma di fa ­

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Imposta di registro - Trasferimenti immobiliari - Art. 23, D .P .R . 26 otto­ bre 1972, n. 634 - Presunzione di trasferimento delle accessioni - Co­ struzione di fabbricato da parte di un terzo - Anteriorità rispetto al­ l’acquisto dell’area - Prova contraria alla presunzione - Esibizione del contratto di appalto - Inidoneità (Cass., Sez. I, 7 maggio 1991 n. 5026) (con nota di F. Formica) ... .. ...’ Accertamento delle imposte sui redditi - Accertamento sintetico - Reddito

complessivo - Determinazione - Elementi e circostanze di fatto certi - Individuazione - Contraddittorio con il contribuente - Necessità - Esclusione.

Accertamento delle imposte sui redditi - Accertamento sintetico - Imponi­ bile accertato - Anno di riferimento - Investimenti ed acquisti - Ante­ riorità - Irrilevanza - Situazione di possidenza - Continuità (Cass., Sez. I civ., 27 agosto 1991, n. 9198) (con nota di F. Ferri) ... ’ ’ Tributi in genere - Art,

15

, L. 29 dicembre 1990, n. 408 - Controversie

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Guida ai periodici

per le professioni

dell ’amministrazione

pubblica locale

Testate di grande tradizione

e più recenti iniziative editoriali

classificate e presentate

a funzionari

e amministratori pubblici

D

DIRITTO: FONTI E ATTIVITÀ’ Legislazione

Giurisprudenza Ordinamento giudiziario Ricerche e studi giuridici

A

ASSETTO E ORGANIZZAZIONE

DELLE AUTONOMIE LOCALI Profili generali

Regioni ed Enti locali - -Organizzazione e personale Informatica

Tributi e finanza locale

Prenotate presso: REGIONE LOMBARDIA RIVISTA CONFRONTI Via Fabio Filzi 22

20124 Milano - tei. 02/67654740' e versate la somma .di lire 10Q.I sul c/e postale n. 10951218, in ti LA TIPOGRAFICA/VARESE Via Tonale 49 21100 Varese I É

I

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. § X

S

SERVIZI SOCIALI Assistenza e sicurezza sociale Sanità

Attività e beni culturali Istruzione

Informazione Ricerche e studi sociali

E

SVILUPPO ECONOMICO Agricoltura Industria Commercio^ Turismo Assicurazione e previdenza Lavoro’ " Sindacato

Ricerche e studi economici

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ASSETTO TERRITORIALE

Urbanistica Trasporti ria Lavori pubblici

■ Edilizia economica e popolare Ecologia

Energia

P

RICERCHE E STUDI POLITICI Attualità e interventi

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BALDASSARRE SANTAMARIA

PROF. DIR. TRIBUTARIO UNIV. ROMATOR VERGATA

LE ISPEZIONI

TRIBUTARIE

TERZA EDIZIONE

I poteri ispettivi hanno assunto sempre più un ruolo essen­

ziale nelle fasi di controllo, costituendo il momento autorita-

tivo dell’accertamento tributario che si manifesta in una mol­

teplicità di fasi e atti espressi nello schema procedimentale

detto appunto procedimento di accertamento o di imposizio­

ne. Questo però non può considerarsi finalizzato a se stes­

so o avere una mera funzione di controllo; esso riveste

invece carattere essenzialmente strumentale ai fini della

constatazione storica del presupposto Impositivo e del con­

trollo degli adempimenti connessi o prodromici alla determi­

nazione del prelievo.

Di tali problematiche si è fatto carico il testo che, in questa

nuova edizione, tiene conto di tutte le novità legislative in

materia, con abbondanti riferimenti dottrinali e giurispruden­

ziali.

8°, p. XVI-488, L. 48.000

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R ivista di diritto fin a n zia rio e scienza delle fin a n ze, Lì

§

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LA NOZIONE D I « C A PA C ITÀ (

UNA PRIM A IN D A G IN E CONOSCITIVA FR A I C IT T A D IN I ROM ANI (*)

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•P-di Ma r i o Le c c is o t t i * e Mic h e l e Be r n a s c o n i * *

* Istitu to di S cienze delle F inanze, U niversità La Sapienza di Roma

* * D ipartim ento di Econom ia Pubblica e Territoriale, U niversità di Pavia

So m m a r i o: 0 . Premessa. — 1. Una breve rassegna dei problemi teorici. - 1.1. Ca­ pacità contributiva o controprestazione? - 1.2. L ’indice della capacità con­ tributiva. - 1.2.1. Reddito effettivo o reddito normale? - 1.2.2. Reddito co­ me prodotto o reddito come entrata? - 1.2.3. Imposta sul reddito o imposta sulla spesa? - 1.3. La discriminazione qualitativa dei redditi. - 1.3.1. Reddi­ to o patrimonio? - 1.3.2. La progressività. - 1.3.3. L ’unità contributiva. — 2. L ’indagine campionaria. - 2.1. Gli obiettivi dell’indagine e le caratteristi­ che del campione. - 2.2. I risultati dell’indagine. — 3. Conclusioni: il contri­ buente medio che emerge dall’indagine. — Appendice. — Bibliografia.

0. Premessa.

I sistemi tributari dei moderni stati si ispirano in genere ad una qualche nozione della capacità contributiva, che richiede che 1 onere fiscale sia ripartito in base alla capacità di ogni cittadino di contribuire al pagamento delle spese pubbliche. Ad esempio, la no­ stra Costituzione, all’art. 53, afferma che « tutti sono tenuti a con­ correre alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contribu­ tiva ».

La Corte Costituzionale ha interpretato il dettato costituzionale come direttamente applicabile, facendo riferimento in tutte le sue decisioni al concetto di capacità contributiva come ricchezza. Que­ sto fatto ha portato a concludere che, « il concetto di capacità con­

( * ) G li A u tori desiderano -ringraziare il P rof. A lberto Z u lian i, che ha forn ito la necessaria collaborazione p er la determ inazione del cam pione. Un vivo ringra­ ziam ento va anche a Chiara A tripaldi, Francesco B onatti, A lessandra Cara, S tefa­ no Catalani, M arisa L eon e e P a trizia M agnani, i quali, oltre a partecipare alla ste­ sura del qu estion ario, hanno m aterialm ente condotto le in terviste. Si ringraziano in fin e i 600 cittad in i rom ani che hanno risposto al questionario p er la collaborazio­ ne e disponibilità.

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tributiva lungi dall’essere privo di significato ha un proprio conte­ nuto concreto: il riferimento ad una forza economica » (Moschetti, 1973; p. 21). Lo stesso Moschetti successivamente ha cercato di precisare tale concetto, rilevando la « non identificazione tra capa­ cità economica e capacità contributiva e la rilevanza della qualifi­ cazione della prima alla luce anche di altre norme costituzionali » (Moschetti, 1993; p. 25), in particolare dell’art. 2 della Costituzio­ ne, che « pone in prima luce la qualificazione della capacità contri­ butiva in termini di solidarietà » (Moschetti, 1993; p. 6).

Nella sua prima sentenza la Corte Costituzionale ha negato la validità della distinzione fra norme precettive e norme programma­ tiche, quale sarebbe ad esempio quella riguardante la capacità con­ tributiva — norme non immediatamente applicabili, in quanto dei meri concetti astratti, il cui contenuto sarebbe determinato in se­ guito dal legislatore, e solo allora diverrebbero precettive. La Cor­ te però, oltre a ricordare anche che la capacità contributiva rappre­ senta una specificazione dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge richiesta dall’art. 3 della Carta Costituzionale, e nel sostene­ re che debba costituire la base dell’imposizione ed il limite della stessa, tende a precisare che essa vada determinata dal legislatore, in base « all’esercizio della discrezionalità garantita » (sentenza n. 159, 6-23 maggio 1985) a lui. La più recente posizione della Corte tende a sfumare ulteriormente detta impostazione, con un sempre minore riferimento all’art. 53 nella valutazione della costituzionali­ tà o meno delle norme tributarie.

« Ricchezza » o « forza economica » sono però concetti difficili da definire senza incorrere in mere tautologie. « Col dire che i costi dei servizi pubblici di carattere indivisibile devono essere ripartiti tra i contribuenti secondo le rispettive attitudini a sopportare il ca­ rico d ’imposta, non si fa che una tautologia: le parole “ capacità contributiva” senza alcuna specificazione non danno un concetto scientifico; esse né ci offrono un metro per determinare la presta­ zione del contribuente e per adeguarla a quella degli altri cittadini, né ci dicono se esista e quale sia il limite dei prelievi dello Stato. Trattasi di una scatola vuota che può essere riempita del più diver­ so contenuto; di un’espressione ambigua, che si presta alle più sva­ riate interpretazioni » (Giardina, 1961; p. 3).

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di-— 339 di-—

versità di vedute su cosa costituisca « capacità contributiva », o ca­ pacità di un cittadino di contribuire alle spese pubbliche. Lo Steve (1976) così riassume le conclusioni del dibattito: « il contenuto so­ stanziale che rimane alla formula della capacità contributiva come criterio di distribuzione delle imposte si limita ad escludere la disu­ guaglianza nella distribuzione dei tributi... e ad escludere gradua­ zioni del carico tributario che non siano da ricondurre a differenze nella condizione economica dei soggetti » (pp. 256-7). Tale impo­ stazione sembra vicina a quella più recente della Corte Costituzio­ nale, che — come indicato — tende a richiamarsi all’art. 3 della Costituzione, e lascia essenzialmente al legislatore il compito di in­ dividuare il contenuto di capacità contributiva.

Tuttavia, nel fissare nuove imposte o nel modificare quelle esi­ stenti teorici ed operatori pubblici fanno regolarmente riferimento alla « capacità contributiva », come intesa dalla maggioranza dei cittadini. Scopo di questo lavoro, pertanto, è quello innanzitutto di verificare se effettivamente il concetto di capacità contributiva ab­ bia presso i cittadini un contenuto più pregnante di quello di una mera « scatola vuota », che, viceversa, sembra prevalere tra gli economisti; e, nel caso di una risposta affermativa, tentare quindi di dare una prima formulazione di ciò che questa astratta nozione in concreto esprime.

Il lavoro è organizzato in tre sezioni principali. Nella prima parte presenteremo una rassegna dei problemi teorici più rilevanti in materia di capacità contributiva. La seconda sezione descrive l’indagine campionaria e presenta i risultati. La terza parte conclu­ de tentando di individuare (per quanto possibile) le caratteristiche principali del contribuente medio che emerge dalla nostra indagine.

1. Una breve rassegna dei -problemi teorici.

1.1. Capacità contributiva o controprestazione?

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trambi detti principi sono stati validamente sostenuti dalla lettera­ tura (1) e trovano accoglimento nella legislazione. Come accennato nell’introduzione, in epoche moderne si tende a dare maggiore rile­ vanza al principio della capacità contributiva, in conseguenza an­ che al fatto che la spesa pubblica ha assunto un prevalente caratte­ re di spesa volta ad assicurare determinati servizi sociali, con un contenuto fortemente redistributivo, piuttosto che quello della for­ nitura di beni e servizi.

Recentemente però il principio del beneficio è stato in qualche misura rivalutato ed accolto, ad esempio nella riassegnazione agli enti locali italiani di un autonomo potere impositivo, in luogo di una finanza quasi esclusivamente di trasferimento dallo Stato centrale, in base all’affermazione che i servizi locali debbano essere pagati da chi ne gode. A nostro modesto parere, il sistema tributario do­ vrebbe attribuire una maggiore rilevanza al principio del beneficio. Anche il nostro parere però va sottoposto al vaglio del giudizio dei cittadini.

Prima di concludere questo breve paragrafo desideriamo ricor­ dare come il principio del beneficio non comporta necessariamente un’imposta proporzionale, per cui consente in ogni caso di attuare importanti trasferimenti di ricchezza fra i componenti la collettivi­ tà. La ragione risiede nel fatto che gli individui ricavano una diver­ sa utilità marginale dalla spesa pubblica, per cui presentano una di­ versa elasticità della domanda, rispetto al prezzo e rispetto al red­ dito, del bene o servizio offerto dallo Stato (cfr. Leccisotti, 1994; pp. 342-345).

Il principio del beneficio può anche essere esteso all’intera at­ tività dello Stato. Una tale concezione è reperibile già nel contrat­ tualismo di H obbes e Locke, dove l’onere fiscale rappresenta il prezzo per la protezione accordata dallo Stato, ed è stata di recente riformulata da N ozick (1974). La più completa applicazione del principio del beneficio a giustificazione del sistema tributario si tro­ va però in Antonio D e Viti de M arco, per il quale « l’imposta è il prezzo che ogni cittadino paga allo Stato per coprire la quota-par­ te di costo dei servizi pubblici generali che egli consumerà » (1959, p. 114; 1988). Il D e Viti de Marco presumeva che tutti i

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— 341 —

ti la collettività fossero consumatori dei servizi pubblici generali, in proporzione al proprio reddito. Da tale assunto, tuttavia, egli non concludeva in favore di un’imposta proporzionale, in quanto l’utili­ tà marginale del reddito è decrescente. D a ciò non derivava nean­ che una precisa indicazione in favore della progressività, che ri­ chiederebbe l’ulteriore assunzione che detta utilità marginale sia uguale per tutti i soggetti.

1.2. L ’indice della capacità contributiva.

Il principio della capacità contributiva è stato sostenuto da nu­ merosi Autori con una grande varietà di argomenti (cfr. Giardina, 1961; e Groves, 1974), il che conferma la mancanza a livello teorico di un ben definito e generalmente accolto indice di detta capacità contributiva. La scelta dell’indice è strettamente legata allo stato di sviluppo del sistema economico ed all’organizzazione della società. Fra i nomadi la capacità contributiva è essenzialmente connessa al numero di capi di bestiame posseduti; in un’economia pastorale es­ sa varia con la superficie dei terreni da pascolo, e così via. Nel mondo antico e prima della rivoluzione industriale, la capacità con­ tributiva era di solito collegata alla ricchezza o patrimonio. Dallo sviluppo della società capitalistica, invece, in seguito all’accresciuta importanza del reddito da lavoro o da impresa rispetto a quelli de­ rivanti da proprietà, 1 indice di detta capacità contributiva in misu­ ra prevalente è stato individuato nel reddito. Questo però può esse­ re definito in maniere diverse.

1.2.1. Reddito effettivo o reddito normale? — In primo luogo,

è possibile fare riferimento al reddito effettivo che il contribuente avrebbe nella realtà conseguito, in una delle diverse concezioni che vedremo tra breve, o al reddito medio o normale che un individuo potrebbe ottenere. I moderni sistemi fiscali in genere accolgono una nozione di reddito effettivo, che sembra offrire una migliore e più diretta espressione della capacità contributiva dei cittadini di contribuire alle spese pubbliche, anche se non mancano esempi di imposizione in base al reddito normale, come nel caso del catasto, o in quello più recente dei coefficienti presuntivi del reddito.

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ra completa ed efficiente, o che non abbia alcuna responsabilità so­ ciale del modo in cui vengono usate. « Tuttavia, esiste un modo concettualmente differente di guardare al reddito, il quale assegna all’individuo una qualche responsabilità sociale, che dà un signifi­ cato più specifico al principio della capacità contributiva. In effetti, il reddito potrebbe essere definito come i guadagni che ci si può at­ tendere che l’individuo generi nel periodo mediante un impegno “ pieno” e giudizioso delle sue risorse totali socialmente accettabile. Esso, pertanto, è un indice della sua capacità di guadagnare, assu­ mendo uno sforzo normale e medio » (Tanzi, 1990; p. 29).

Tale nozione di capacità contributiva assume particolare rile­ vanza nei paesi in via di sviluppo, quali la Lombardia del ’700 — ai tempi dell’introduzione del catasto milanese giustamente lodato da Einaudi (1924, 1959) — o quelli dell’epoca presente, dove i grandi proprietari non sempre si preoccupano di utilizzare in maniera pro­ duttiva le proprie terre, spesso destinate esclusivamente o preva­ lentemente a scopi di piacere personale, quali la caccia, residenze temporanee, e così via. Ritengono i cittadini preferibile che il fisco incoraggi un tale uso delle risorse della società, non tassando quelle lasciate improduttive?

Come accennato, pur accogliendo un concetto di reddito effet­ tivo, nel caso dei lavoratori autonomi e delle piccole e medie im­ prese, il fisco, nella valutazione di detto reddito, al fine di evitare evasioni — che si presentano relativamente agevoli in un sistema di imposizione di massa basato sulle risultanze contabili, per l’im­ possibilità di effettuare un numero adeguato di accertamenti — tende a fare riferimento ad un qualche reddito medio o normale. In proposito, oltre agli esempi stranieri, quali il forfait francese o il ta-

chshiv israeliano (2), occorre ricordare l’esperienza dei coefficienti

presuntivi del reddito adottati nel nostro paese per fini prevalente­ mente di accertamento del reddito, ma che in tal modo contribui­ scono alla determinazione dello stesso.

1.2.2. Reddito come prodotto o reddito come entrata? — Come

accennato nel precedente paragrafo, nelle moderne nazioni la base imponibile delle imposte dirette è essenzialmente costituita dal red­ dito effettivo. Ai fini fiscali però questo può essere definito in vario modo. Le principali definizioni che è dato reperire nella letteratura

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e che in qualche misura sono accolte nei moderni sistemi fiscali, spesso simultaneamente, sono quelle di reddito come prodotto, co­ me entrata o come consumo. Rinviando al prossimo paragrafo la valutazione della scelta fra una delle prime due definizioni, che in seguito, per comodità, denomineremo tout-court imposta sul reddi­ to, e quella come consumo o spesa, un notevole contrasto nella let­ teratura e nella pratica realizzazione in campo tributario, si riscon­ tra fra il concetto di reddito come prodotto e quello come entrata.

La concezione del reddito come prodotto è stata la prima ad essere identificata ed adottata, in conseguenza anche dell’iniziale prevalere della tassazione dei singoli cespiti su base reale, median­ te imposte cedolari. La più compiuta giustificazione teorica di que­ sta nozione di reddito è quella ricordata del D e Viti de Marco, per il quale l ’imposta rappresenta il prezzo che ogni cittadino paga allo Stato per coprire la quota del costo dei servzi pubblici che consu­ ma. Lo Stato è un fattore della produzione ed ogni particella di quanto prodotto dai privati contiene una quota parte di questo co­ sto, per cui l’imposta va commisurata a detto prodotto, che costitui­ sce quindi il reddito imponibile.

Tale definizione di reddito è stata da più parti criticata di tra­ scurare un importante elemento della capacità contributiva, quello costituito dall’incremento nel patrimonio nell’arco di tempo. Si os­ servi, infatti, che un soggetto con reddito prodotto di L. 3.000.000 si trova in una situazione diversa da chi ha avuto un uguale reddito prodotto, ma al tempo stesso ha goduto di un apprezzamento nel capitale, ad esempio di L. 10.000.000. Il secondo presenterebbe chiaramente una maggiore capacità contributiva (3). Pertanto, la letteratura sembra sostanzialmente concorde nel ritenere preferibi­ le una definizione di reddito come entrata, che rifletta « l’incre­ mento nel potere di un individuo di soddisfare i propri desideri in un determinato periodo » (Haig, 1921; p. 54).

Trascurando il problema dei trasferimenti a titolo gratuito, la cui inclusione nel reddito presenterebbe notevoli difficoltà ammini­ strative per la loro identificazione e valutazione, e problemi di equità nel caso di un’imposta progressiva, per cui sono in genere soggetti ad un’imposizione separata, il reddito come entrata

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sce da quello come prodotto essenzialmente per la tassazione degli incrementi di valore patrimoniale.

Il valore di un bene è dato dall’utilizzazione dei redditi netti che esso promette, per cui variazioni nel suo valore possono verifi­ carsi solo in seguito a variazioni di uno di tali elementi. Pertanto, trascurando il fattore rischio, di difficile quantificazione ai fini fi­ scali, un incremento di valore patrimoniale può aversi solo in se­ guito a:

1) variazioni nel valore reale dei redditi futuri; 2) variazioni nel tasso d ’interesse;

3) variazioni nel valore della moneta, che modificano il valo­ re nominale dei redditi futuri e del capitale;

4) variazioni intenzionali nel cespite, che ne accrescono il va­ lore.

Tecnicamente, con il termine « incrementi del valore patrimo­ niale » si intendono solo i primi tre elementi su ricordati, e cioè tut­ ti « gli incrementi inaspettati nel prezzo di determinati cespiti » (Romani, 1964; p. 19), i quali non derivano da qualche modifica ap­ portatavi da un individuo, ma dall’incertezza, e cioè dal fatto che gli eventi futuri non possono essere correttamente previsti. La quarta categoria non costituisce un incremento di valore patrimo­ niale vero e proprio, come in precedenza definito, ma un distinto atto d ’investimento, che come tale non andrebbe tassato quale red­ dito, in quanto questa tassazione com porterebbe un’evidente dop­ pia imposizione, una prima volta come plusvalenza, una seconda sui maggiori redditi prodotti dalle modifiche apportate al cespite, che ne hanno determinato l’incremento di valore.

La tassazione degli incrementi di valore patrimoniale pone un duplice ordine di problemi, fra loro distinti, anche se strettamente collegati. In primo luogo, occorre stabilire se includerli nella defini­ zione di reddito, o meno (4). Una volta che si sia deciso che la ca­ pacità contributiva venga meglio soddisfatta da una definizione di reddito come entrata, diviene necessario stabilire quali delle ricor­ date forme di incrementi di valore patrimoniale vadano tassate e quali no. Mentre esiste un’unanimità di vedute riguardo alla prima categoria, derivante da una variazione nel valore reale dei redditi

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345 —

futuri, che vanno tassati, ed una sostanziale concordanza sugli in­ crementi puramente monetari, che andrebbero esenti, un notevole contrasto di opinioni sussiste riguardo agli incrementi derivanti da riduzioni nel tasso d ’interesse.

Per quel che riguarda l’ultimo, spurio, tipo di plusvalenza, che — ricordiamo =-- non costituisce tecnicamente un incremento di va­ lore patrimoniale, e quindi in teoria non dovrebbe essere tassato, sussistono però in pratica problemi per distinguerlo dagli altri, per cui finisce per costituire una delle principali argomentazioni a dife­ sa della tassazione degli incrementi di valore patrimoniale, al fine di evitare possibilità di elusione dell’imposta, trasformando redditi tassabili in incrementi di valore. Il caso più rilevante è fornito dal­ l’impresa che, invece, di distribuire i dividendi, trattiene gli utili e li reinveste. M a com e distinguere l’incremento nel valore delle azioni derivante dall’autofinanziamento da quello prodotto da inat­ tese variazioni nei redditi futuri o nel tasso d ’interesse? Nel dub­ bio, tassiamoli tutti! si dice. In proposito, giova però osservare che gli utili trattenuti verranno in ogni caso tassati nel futuro sui mag­ giori dividendi distribuiti dall’impresa, per cui il tassarli anche co­ me incrementi di valore patrimoniale costituirebbe un’evidente doppia imposizione, come su indicato.

La tassazione degli incrementi di valore patrimoniale, pur se sostenuta con vigore dalla maggioranza della letteratura e degli operatori pubblici, incontra però gravi limitazioni di carattere pra­ tico, che inducono il fisco ad una grande cautela. In primo luogo, esistono problemi di certezza dell’imposta, derivanti dal notevole margine di discrezionalità dell’Amministrazione nel determinare il valore iniziale e quello finale del cespite. Per questo motivo, invece di tassare gli incrementi di valore nel momento in cui maturano, e cioè quando il prezzo del cespite aumenta, si preferisce tassarli solo in quello in cui sono realizzati in moneta. Tale soluzione produce rilevanti conseguenze, sia perché, nel caso di un’imposta progressi­ va, tende a comportare un sensibile aggravio dell’onere fiscale, sia perché facilita l ’elusione dell’imposta. In ogni caso restano in vita importanti problemi di carattere amministrativo nella determina­ zione dell’imposta, e conseguenti costi per l’Amministrazione e per il contribuente.

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ci un plctíi, delle minusvalenze, che l’investitore rimane libero di vendere i propri cespiti nel momento più opportuno, in modo da programmare il tempo di realizzo delle plusvalenze o delle minu­ svalenze, in base alle convenienze fiscali, nonché operare sul mer­ cato dei cespiti in modo da evitare l’imposta. Considerando tali fat­ tori, Stiglitz, (1983) conclude che, in un perfetto mercato dei capita­ li, « l’individuo è in grado di evitare il pagamento di qualsiasi im­ posta, non solo quella sul suo reddito da investimento, ma anche quella del suo reddito da salario » (p. 259).

Per questi motivi, praticamente in tutte le nazioni l’imposizio­ ne degli incrementi di valore patrimoniale o non viene affatto effet­ tuata, o è soggetta a norme particolari. Pertanto, data la regola del­ la tassazione nel momento del realizzo, data la violazione dell’equi­ tà che questa comporta nel caso di un’imposta progressiva, dato il trattamento di favore accordato, data la ricordata possibilità di elu- sione, data la difficoltà di distinguere le diverse cause di incrementi di valore, risulta molto dubbio che la loro tassazione riesca a soddi­ sfare una qualche nozione di « capacità contributiva ». La risposta però spetta ai cittadini, non a noi.

1.2.3. Imposta sul reddito o imposta sulla spesa? — La terza

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sui suoi frutti, e viola il principio dell’equità nella distribuzione del carico fiscale.

Kaldor ha pure sostenuto che un’imposta sulla spesa, con esen­ zione del risparmio, costituisce il miglior indice della capacità con­ tributiva, che a parere dell’autore viene comunque intesa come « capacità di spesa », e cioè « la capacità o potere che un individuo ha di soddisfare i propri bisogni » (1962, p. 33). Tale « capacità di spesa » verrebbe data dal reddito come entrata, e cioè dall’incre­ mento della ricchezza fra due periodi di tempo, integrato dal patri­ monio, il quale fornisce di per se stesso capacità di spesa, indipen­ dentemente dal reddito che produce. Per le difficoltà indicate nel precedente paragrafo riguardo al reddito entrata e in quello che se­ gue per quel che concerne l’imposta sul patrimonio, il Kaldor con­ siglia l ’adozione di un’imposta sulla spesa, « in quanto un’imposta basata sulla spesa effettiva valuta la capacità di spesa di un qual­ siasi individuo secondo l’unità di misura che egli applica a se stes­ so » (1962, p. 54).

Tuttavia, come ha dimostrato il Romani (1966), la spesa offre un indice altrettanto arbitrario della « capacità di spesa » di un sog­ getto, in quanto l’equità orizzontale sarebbe rispettata da un’impo­ sta sulla spesa soltanto qualora la spesa fosse proporzionale alla « capacità di spesa », in un’ipotesi che lo stesso Kaldor non è di­ sposto ad accogliere, poiché afferma che « non c ’è fra le due un rapporto rigidamente lineare; quanto maggiore è la capacità di spe­ sa di un individuo, tanto più la spesa effettiva risulta inferiore ad essa » (Kaldor, 1962; p. 55).

In senso contrario ad un’imposta sulla spesa si esprime il T e ­ soro degli Stati Uniti, ritenendo che l’equità fiscale « viene proba­ bilmente valutata anno per anno al momento del pagamento del­ l’imposta piuttosto che sull’intero arco della vita dell’individuo » (U.S. Department o f thè Treasury, 1984; p. 209). A parità di valore attuale di prelievo con l’imposta sul reddito, quella sulla spesa gra­ va maggiormente nei periodi in cui i guadagni di un individuo sono inferiori, nei primi e negli ultimi anni di vita, all’inizio della carrie­ ra e nell’età della pensione.

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verrà l’onere fiscale al presente, lo accresce nel futuro, quando consumato o trasmesso in donazione o successione.

Esistono, quindi, argomentazioni in favore ed altri contro l’a- dazione di una definizione di reddito come consumo. Cosa ne pen­ sano i cittadini?

1.3. La discriminazione qualitativa dei redditi.

In numerosi paesi, il fisco tende ad attuare una discriminazio­ ne qualitativa dei redditi, in favore dei redditi da lavoro e contro quelli da capitale. jV d esempio in Italia, prima della riforma tribu­ taria del 1974, l’imposta sulla ricchezza mobile tassava il reddito da lavoro con aliquote minori; mentre, dopo la riforma, i redditi da la­ voro sono esenti dall’Ilor.

A parte le ragioni di lotta di classe o la funzione istituzionale dei sindacati in difesa dei lavoratori, la discriminazione dei redditi ha l’importante effetto di realizzare una forma di progressività nel sistema tributario, in quanto il capitale è in mano ai maggiori reddi­ tieri, in una misura che, per la legge del Benini (1906), aumenta di 3 volte al raddoppio del reddito. Sul problema della progressività torneremo nel paragrafo 1.3.2; qui ci limitiamo a ricordare che esi­ stono due autonome argomentazioni in favore di una discriminazio­ ne qualitativa dei redditi da parte del fisco (cfr. Cosciani, 1991), che si basano: i) sul fatto che il lavoro comporta una penosità che tende a non riscontrarsi nei redditi da capitale, e ii) sulla constata­ zione che esso ha un carattere temporaneo, per cui il lavoratore è costretto a risparmiare in misura maggiore del capitalista o reddi­ tiere e, quindi, viene maggiormente discriminato dalla doppia im­ posizione del risparmio, ricordata nel paragrafo che precede.

Le precedenti argomentazioni però si basano su alcune assun­ zioni che negli stati moderni tendono a non verificarsi sempre. Al­ cuni impieghi procurano al lavoratore soddisfazione e piacere, mentre, d altro canto, il capitale richiede al proprietario un’attività di Amministrazione sempre più impegnativa e penosa. I lavoratori sono poi coperti da estesi e generosi sistemi pensionistici per la vecchiaia, che godono di benefici fiscali nel trattamento dei contri­ buti e delle prestazioni.

1.3.1. Reddito o patrimonio? — Anche se nei moderni sistemi

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ruolo prevalente, numerosi paesi non rinunciano a tassare anche il patrimonio. L ’imposta ordinaria sul patrimonio è un’imposta an­ nuale commisurata al valore del patrimonio netto del contribuente, con tasso moderato, in modo che l’onere sia inferiore al rendimento medio, per cui incide sul reddito e non sul patrimonio. Pertanto, essa rappresenta « un’imposta sui redditi patrimoniali, commisura­ ta ad un parametro (valore del patrimonio) diverso da quello del reddito » (Cosciani, 1991; p. 344). Perché, quindi, adottare una pa­ trimoniale, invece di tassare direttamente il reddito, attuando for­ me di discriminazione qualitativa — come indicato nel paragrafo precedente — in favore dei redditi da lavoro e contro quelli da capitale?

Questo dubbio ha indotto il nostro legislatore, al tempo della riforma degli anni ’70, a preferire un’imposta sui redditi da capita­ le, l’Ilor, alla patrimoniale, inizialmente proposta dalla stessa Com­ missione per lo studio della.riforma tributaria (cfr. Cosciani, 1967).

In prima approssimazione, la tassazione dei redditi patrimo­ niali o del valore del patrimonio parrebbe indifferente, in quanto il secondo è dato dalla somma dei primi attualizzati. Tale conclusione va però soggetta a numerose ed importanti qualificazioni. Trascu­ rando quelle relative ai problemi di determinazione dell’imponibile ed a quelli amministrativi, l’identità fra le due imposte non può ve­ rificarsi per una serie di motivi: i) alcuni redditi non hanno un valo­ re patrimoniale di mercato; ii) alcuni patrimoni non danno un red­ dito monetario; iii) il tasso di sconto delle diverse forme di reddito non è identico; iv) i redditi non presentano un andamento costante e perpetuo; v) gli individui non sono indifferenti fra il possedere un patrimonio e la promessa di un reddito perpetuo (5).

Come indica il passo del Kaldor ricordato nel paragrafo 1.2.3,

è opinione corrente nella letteratura che il patrimonio vada tassato,

in aggiunta al reddito che produce — oltre che per attuare la ricor­ data discriminazione qualitativa dei redditi ed accentuare la pro­ gressività del sistema — in quanto il patrimonio procura un vantag­ gio di per se stesso, poiché accresce l’indipendenza, il prestigio, il potere, eccetera, di chi lo possiede. In termini formalmente più ri­ gorosi, si sostiene, quindi, che l’utilità di un individuo sia funzione sia del suo reddito che del patrimonio da cui esso deriva. Pertanto,

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il patrimonio costituirebbe un indipendente indice della capacità contributiva dei soggetti, nell’ovvio senso che il proprietario ha una più elevata possibilità di pagare le imposte, ed in quello più tecnico che egli gode di una maggiore utilità rispetto a contribuenti con uguale reddito, ma minore o nessun patrimonio.

Musgrave e Musgrave (1973, pp. 319-22) però respingono un simile ragionamento. Essi osservano, infatti, che un individuo che ha accumulato un capitale paga già l’imposta sul reddito sui suoi frutti, e « non sarebbe corretto aggiungere un’ulteriore imposta sul suo capitale, poiché la stessa opportunità di accumulazione era aperta » agli altri individui. Anche riguardo al patrimonio ricevuto per donazione o successione, la patrimoniale non sarebbe giustifi­ cata, in quanto esso è già stato tassato come reddito, nel caso si ac­ cogliesse un’ampia definizione di questo che includa ogni entrata, o dalla speciale imposta su donazioni e successioni.

Resta quindi in teoria irrisolto il quesito se la capacità contri­ butiva sia data dal reddito o dal patrimonio, oppure dalla somma di entrambi.

1.3.2. La progressività. — Negli ultimi due paragrafi abbiamo

accennato al problema della progressività, che costituisce una con­ seguenza della discriminazione qualitativa dei redditi e della tassa­ zione del patrimonio o del suo reddito. In questo considereremo il quesito del se e della misura in cui la nozione della capacità contri­ butiva richieda l’adozione di una qualche progressività delle singo­ le imposte, o del sistema fiscale nel suo complesso, come dettato dall’art. 53 della nostra Costituzione.

Il principio della progressività costituisce ormai un solido fon­ damento dei moderni sistemi fiscali, e trova un generale accogli­ mento nella letteratura e, si sostiene, nell’« opinione comune ». Tuttavia, i tentativi effettuati per trovare una giustificazione eco­ nomica della progressività si basano su numerose assunzioni, diffi­ cilmente accoglibili (6). I principali argomenti in favore della pro­ gressività sono stati individuati nel principio del sacrificio, soprat­ tutto in quello del sacrificio minimo, con il quale si è tentato di dare un contenuto concreto alla nozione della capacità contributiva. La

(6) Una rigorosa valutazione critica degli argomenti portati in favore della progressività può essere reperita in Bl u m- Ka l v e n (1953). Per un riassunto a scopi

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giustificazione della progressività richiede che l’utilità marginale del reddito sia identica per tutti i componenti la collettività, decre­ scente, misurabile cardinalmente, confrontabile, e, infine, che la funzione del benessere sociale sia data dalla somma ponderata del­ le utilità individuali. Senza soffermarci ulteriormente sul problema,' il lungo elenco di per se stesso è indice della difficoltà di ottenere un generale consenso.

Identico risultato si verifica nel caso del principio del benefi­ cio, come già accennato nel paragrafo 1.1. In particolare, la pro­ gressività dipende dal fatto che l’elasticità della domanda rispetto al reddito sia superiore a quella rispetto al prezzo, o, nel caso del­ l’attività generale dello Stato, dal fatto che l’utilità marginale del reddito sia decrescente ed uguale per tutti i componenti la collettività.

In conclusione, quindi, non esiste a priori una valida giustifica­ zione teorica per la progressività delle imposte. Questa viene stabi­ lita in base a ragioni essenzialmente politiche e sociali in favore di una politica di redistribuzione del reddito e della ricchezza. Al soli­ to, cosa ne pensano in proposito i cittadini? In particolare, come giustificano quella forma di progressività attuata mediante una de­ trazione iniziale dall’imponibile o dall’imposta, che ha anche la fun­ zione di concedere ad ogni contribuente uno sgravio per le spese essenziali per la vita e per le persone a carico?

1.3.3. L ’unità contributiva. — Connesso al problema della

progressività è quello della determinazione del soggetto d ’imposta. Nel caso di un’imposta proporzionale, sarebbe del tutto indifferen­ te tassare l’individuo o la famiglia, in quanto l’onere fiscale non ne sarebbe influenzato in maniera sostanziale. In un’imposta progres­ siva, invece, detto onere dipende da numerosi fattori, quali la struttura della progressività vigente, la composizione della famiglia stessa, il numero dei redditieri al suo interno, la diversità o meno dei redditi dei componenti la famiglia, ed altri (cfr. Longobardi-Pa- trizii, 1993). Questi fattori, ovviamente, variano a seconda dell’uni­ tà contributiva stabilita, per cui l’imposta complessiva pagata dai componenti una famiglia dipende dalla scelta di detta unità contri­ butiva.

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fosse iniquo, in quanto discriminava contro le famiglie con più per­ cettori di reddito. L ’imposta costituisce una « tassa sul matrimo­ nio », e penalizza le coppie regolarmente sposate, si diceva. Il me­ todo del cumulo è stato abolito e sostituito da una tassazione dei singoli individui, ma le proteste sono subito ricominciate. L ’imposta discrimina contro le famiglie monoreddito e, fra coppie di ugual reddito complessivo, contro quelle con redditi differenziati. Inoltre, l’abbandono del cumulo avvantaggia maggiormente i più ricchi, fa­ cilita l’elusione fra i componenti il nucleo familiare e l’intestazione degli stessi a chi presenta un minor imponibile, crea un fattore di sfaldamento della famiglia.

Sono poi in vigore in alcuni paesi, così come se ne è discusso anche per il nostro (cfr. Marenzi, 1991), sistemi di imposizione che, pur accogliendo la famiglia come unità contributiva, vi apportano importanti modificazioni, al fine di ridurre gli inconvenienti sum­ menzionati, come Yincome splitting, in vigore negli Stati Uniti ed in Germania, o il quoziente familiare, adottato in Francia (cfr. Maren­ zi, 1991; e Longobardi-Patrizii, 1993). In ogni caso però nessun si­ stema è in grado di soddisfare tutti gli obiettivi suggeriti dai teorici e/o propri dell’operatore pubblico, per cui ogni decisione non può che essere demandata al modo di vedere dei cittadini.

2. L ’indagine campionaria.

2.1. Gli obiettivi dell’indagine e le caratteristiche del campione. L ’analisi teorica ci lascia, pertanto, nell’incertezza di quale sia la più appropriata nozione della capacità contributiva, e ci porta a concludere, con i due Musgrave, che « non esiste un singolo indice della capacità contributiva che sia migliore in ogni circostanza » (cfr. Musgrave e Musgrave, 1973; p. 320). Dato però che alla capa­ cità contributiva viene comunemente fatto riferimento nella deter­ minazione delle politiche tributarie proposte o adottate dal gover­ no, abbiamo ritenuto essenziale cercare di comprendere se fra i cit­ tadini, che in una democrazia sono in ultima istanza i detentori del potere decisionale, esista una qualche nozione, più o meno articola­ ta, di capacità contributiva.

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di pensare di quel famoso « uomo comune », così spesso citato ed usato a giustificazione dei provvedimenti che si vogliono adottare o far adottare.

La ricerca è stata realizzata con la collaborazione di giovani dell’Università di Rom a « La Sapienza »: Chiara Atripaldi, France­ sco Bonatti, Alessandra Cara, Stefano Catalani, Marisa Leone e Patrizia Magnani, i quali, oltre a partecipare alla stesura del que­ stionario, hanno proceduto materialmente alle interviste, nel perio­ do tra il mese di ottobre 1992 e quello di febbraio 1993. I 600 con­ tribuenti intervistati sono stati casualmente scelti da un elenco di 1500 elettori romani, estratti dalle liste elettorali del comune di Roma.

Le interviste sono state effettuate direttamente dai giovani summenzionati. L ’uso del questionario permette di formulare una serie di domande standardizzate, in grado di essere comprese da soggetti fortemente eterogenei, per età, sesso, cultura, ceto sociale e professione (7). Data tale eterogeneità, la costruzione del que­ stionario ha richiesto l’uso di parole semplici e di frasi non troppo lunghe. Le domande, inoltre, hanno dovuto vertere, per quanto possibile, su fatti concreti e non su teorie astratte.

Le interviste sono state rigorosamente anonime e, per evitare categorici rifiuti a rispondere, agli intervistati non è stato richiesto di rivelare il proprio reddito effettivo, ma solo di indicare l’appar­ tenenza ad una generica fascia di reddito.

Se pure con una certa diffidenza iniziale e con qualche ovvio fallimento, i contribuenti hanno in generale offerto una buona di­ sponibilità, rispondendo alle domande poste, basandosi in partico­ lare sulla propria esperienza. Le persone intervistate, indipenden­ temente dalla classe sociale, dall’età e dall’esperienza concreta, si sono mostrate particolarmente interessate e coinvolte nelle doman­ de del questionario ed, in genere, nei problemi di giustizia fiscale.

Anzi, molti contribuenti, avvalendosi dell’intervista, hanno cercato di evidenziare il proprio disappunto, con critiche anche fe­ roci, nei confronti dello Stato, del sistema fiscale e di tutto ciò che ad esso è legato. In effetti, com e cercheremo di argomentare, alcu­ ne incongruenze che emergono dalle risposte dei cittadini, possono

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(7) Le caratteristiche del campione sono disponibili su richiesta presso gli Autori.

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a nostro avviso essere attribuite proprio a questa generale insoddi­ sfazione nei confronti dell’attuale sistema tributario e fiscale.

2.2. I risultati dell’indagine.

Le domande precise contenute nel questionario e le risposte degli intervistati distinti per fasce di reddito sono riportate in Ap­ pendice (8). In questa sezione del lavoro discuteremo i risultati fa­ cendo riferimento ai quesiti più generali, descritti nella sezione precedente, che hanno presieduto alla stesura del questionario. I risultati saranno inizialmente presentati in maniera sintetica, rispo­ sta per risposta; mentre l’obiettivo sopra esposto di individuare i tratti di un contribuente o uomo comune « tipo » sarà oggetto della sezione successiva che concluderà il lavoro.

Dobbiam o precisare inoltre che non presenteremo i risultati seguendo la successione esatta in cui le domande sono state poste agli intervistati, ma riorganizzando le stesse secondo il seguente criterio.

Dapprima concentreremo l’attenzione sulle problematiche re­ lative alla struttura ottimale che il sistema tributario dovrebbe ave­ re per soddisfare le preferenze dei cittadini, nella duplice veste di contribuenti e beneficiari della spesa pubblica. A tale proposito, determinante sarà la risposta degli intervistati al quesito che ri­ guarda l’adozione del principio della capacità contributiva ovvero della controprestazione per la distribuzione dell’onere fiscale. D el­ la stessa importanza, per delineare il profilo del sistema fiscale, è il concetto di base imponibile, ovvero di indice della capacità contri­ butiva, a cui si deve idealmente fare riferimento per realizzare un sistema di imposizione equo. Come anticipato nella prima parte del lavoro, se il riferimento è al reddito, la scelta riguarda il reddito ef­ fettivo o quello normale; se, viceversa, si abbandona il reddito co­ me indicatore di capacità contributiva, l’alternativa proposta dalla letteratura è il consumo o spesa. Su queste tematiche si chiude la prima parte del questionario.

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Passeremo poi ad analizzare le domande che potremmo defini­ re più tecniche di applicazione delle imposte: iniziando dai quesiti più specifici riguardanti il rapporto tra la tassazione del reddito da lavoro e/o da capitale e la relazione tra quest’ultimo e il patrimo­ nio, concluderemo affrontando il problema di quale struttura do­ vrebbero avere le aliquote e il sempre attuale tema della scelta del­ l’unità impositiva.

Passando ad analizzare il primo quesito, relativo all’adozione stessa del principio della capacità contributiva in alternativa a quello della controprestazione (cfr. Domanda 5), un primo chiaro segnale che emerge dall’indagine è che i nostri intervistati ricono­ scono pienamente la funzione redistributiva del prelievo fiscale. Nonostante infatti una delle più frequenti critiche oggi rivolte al nostro sistema fiscale sia la non coincidenza tra chi paga le imposte e chi beneficia della spesa pubblica, l’80% circa degli intervistati ritiene comunque che la ripartizione del carico fiscale non debba avvenire sulla base del beneficio che il contribuente-utente ricava dalla spesa pubblica, ma secondo una comune concezione di equità fiscale. E importante sottolineare che questo principio è accolto dalla generalità dei contribuenti, indipendente dalla loro posizione nella distribuzione del reddito. Riteniamo che questo risultato, spe­ cialmente alla luce dell’attuale dibattito politico sul ruolo della fi­ nanza pubblica, sia particolarmente « forte » e forse, per molti, inatteso.

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basate su situazioni medie o tipiche (cfr. Bosi, 1988). Più recente­ mente, anche se motivata da esigenze diverse, quali quella di ri­ durre la differenza fra i redditi dichiarati in media dai lavoratori di­ pendenti e quelli dei lavoratori autonomi, l’introduzione della mini­

mum tax ripropone di fatto l’adozione del reddito normale quale

base imponibile per la tassazione.

Per tali ragioni si è ritenuto opportuno verificare preliminar­ mente quale definizione di base imponibile meglio risponde alla concezione di equità fiscale degli intervistati. In particolare, la Do­

manda 1 pone a confronto le due concezioni di reddito imponibile

nella loro accezion e'p iù ampia: il contribuente dovrebbe pagare l’imposta in base al reddito effettivamente percepito, ovvero in ba­ se ad un reddito « normale » ottenibile appunto in circostanze og­ gettivamente e soggettivamente normali. Successivamente, nella

Domanda 2, il principio della tassazione secondo il reddito normale

è leggermente attenuato dalla possibilità offerta al contribuente, in sede di dichiarazione, di documentare un reddito diverso da quello stabilito dal legislatore fiscale e quindi di pagare di conseguenza. Tale possibilità, per altro prevista anche dalla normativa della mi­

nimum tax, ha l’esplicito scopo di evitare discriminazioni ai danni

dei contribuenti più poveri.

I risultati ottenuti sono particolarmente interessanti in quanto, almeno ad una prima lettura, possono apparire doppiamente con­ traddittori; gli intervistati sembrano non avere una precisa opinio­ ne sul concetto di reddito più appropriato da utilizzare come base imponibile.

Una netta maggioranza degli intervistati (82%) è infatti dappri­ ma a favore della tassazione del reddito effettivamente prodotto, per poi ridursi al 46% quando l’alternativa del reddito normale è mitigata dalla possibilità per l’individuo di documentare un reddito diverso da quello presunto dal legislatore fiscale. Dalla rielabora­ zione delle risposte per fasce di reddito risulta inoltre che i respon­ sabili di tale spostamento sono soprattutto gli intervistati apparte­ nenti alle fasce medio basse; viceversa per le fasce alte l’alternati­ va preferita tende a rimanere la tassazione secondo il reddito effet­ tivo.

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appunto su un principio di reddito normale). La spiegazione dei ri­ sultati ottenuti in generale, ma del secondo più in particolare, rite­ niamo siano da mettere in connessione con le distorsioni proprie dei sistemi fiscali reali. La tassazione secondo il reddito normale viene infatti percepita dai contribuenti non tanto come una forma alternativa di definizione della base imponibile (cfr. sezione 1.2.1), quanto come uno strumento, più volte impiegato dall’autorità fisca­ le italiana (la minimum tax è l ’esempio più palese), di lotta contro l’evasione e quindi, in quanto tale, particolarmente avversato dalle classi più ricche (9).

Maggiori contraddizioni od incongruenze con le predizioni teo­ riche emergono dalle risposte ad un altro quesito fondamentale sul­ la struttura base del sistema fiscale. Quando i contribuenti sono po­ sti di fronte alla scelta tra il reddito o la spesa come base imponibi­ le (cfr. Domanda 11), gli individui a reddito alto manifestano una spiccata preferenza per la prima alternativa di tassazione (67% de­ gli intervistati contro il 33%); per tutte le altre fascie di reddito e, quindi per 1 insieme del campione, le due soluzioni invece dividono quasi esattamente le preferenze degli intervistati (52% per il reddi­ to contro il 48% per la spesa). È opportuno sottolineare a questo proposito che, poiché una delle maggiori ragioni di critica della tas­ sazione della spesa è quella di favorire le classi più ricche in quanto caratterizzate da una minore propensione al consumo, avremmo dovuto aspettarci secondo la teoria un risultato esattamente oppo­ sto a quello riscontrato.

Una volta ottenuta l ’opinione dei contribuenti su alcune delle problematiche ancora oggi maggiormente in discussione, il questio­ nario, come abbiamo anticipato, si sposta su questioni che riguar­ dano più propriamente all’applicazione concreta della struttura di imposizione.

Un primo set di domande si apre sull’opportunità che la strut­ tura fiscale debba o meno operare una discriminazione qualitativa

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(9) E tuttavia interessante osservare, a questo proposito, che se da un lato

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dei redditi, con particolare riguardo al rapporto tra tassazione del reddito da lavoro e da capitale, e la relazione tra quest’ultimo e il patrimonio.

La Domanda 3 del questionario cerca di individuare espressa- mente quello che pensano gli intervistati riguardo al quesito se nel­ la tassazione siano da colpire maggiormente i redditi da lavoro o quelli da capitale. Le risposte rivelano una maggiore sensibilità dei contribuenti verso il reddito da lavoro, con la conseguente richiesta di alleggerimento fiscale per questa fonte di reddito. In particolare, il 40% del campione ritiene che i redditi da capitale vadano tassati maggiormente rispetto a quelli da lavoro; il 30% auspica un’uguale tassazione con però l’aggiunta di un’imposizione sul valore del ca­ pitale; il restante 30% vorrebbe che entrambi i redditi siano tassati nello stesso modo. Il 70% è quindi in favore di una qualche discri­ minazione tra i due tipi di redditi, indipendentemente dalla forma che essa può assumere.

Anche in questo caso, tuttavia, bisogna sottolineare che il dato aggregato non coglie appieno le differenze che emergono dall’esa­ me delle risposte per fasce di reddito. L ’esigenza di una discrimi­ nazione qualitativa dei redditi, infatti, è molto minore quanto più alto è il reddito; ed è massima nelle fasce medio basse, dove ovvia­ mente si colloca la maggior parte di lavoratori dipendenti senza redditi da capitale. Più in particolare, mentre nella fascia più alta di reddito, il 41% è a favore di un’uguale tassazione dei redditi da capitale e da lavoro, e solo il 25% ritiene che i redditi da capitale debbano essere tassati più di quelli da lavoro, tali proporzioni si ca­ povolgono e più che capovolgono, rispettivamente, nelle fasce m e­ dio basse e basse della distribuzione del reddito (10).

Una volta comunque stabilito, per lo meno come tendenza di maggioranza, la propensione dei contribuenti a preferire una più forte pressione fiscale sui redditi da capitale che su quelli da lavo­ ro, la Domanda k distingue tra tassazione dei rendimenti del capi­ tale o tassazione del capitale investito. Il 66% è favorevole alla pri­

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ma forma di tassazione, contro un 34% che viceversa opterebbe per una tassazione del capitale investito, indipendentemente dai rendimenti ottenuti (11).

Una medesima propensione generale a tassare i rendimenti del capitale, piuttosto che il capitale investito, si afferma quando si considerano investimenti in forme di partecipazioni azionarie in so­ cietà (cfr. Domanda 10). In questo caso, più in particolare, il 66% degli intervistati ritiene che gli utili societari vadano tassati solo al momento della loro riscossione; mentre gli utili reinvestiti vadano esentati dalla tassazione.

Diverso è l ’atteggiamento dei contribuenti nei confronti dei guadagni in conto capitale. Con riferimento ai capitai gains in senso stretto, ovvero guadagni ottenuti nella forma di incremento del va­ lore delle azioni possedute dai singoli individui, una decisa maggio­ ranza è contraria ad una loro tassazione (57% nella Domanda 6) od ad un’eventuale riduzione delle imposte in seguito al verificarsi di perdite (58% nella Domanda 7).

Leggermente minore, nell’ordine medio del 52% è la propor­ zione dei contribuenti che ritiene che non si debbano tassare gua­ dagni in conto capitale su titoli di stato, il cui valore di mercato si è modificato in seguito ai movimenti dei tassi d ’interesse (cfr. Do­

manda 9).

M olto maggiore, invece, è l’avversione degli intervistati a con­ siderare forme di tassazione che colpiscano guadagni nominali di capitale. La Domanda 8, in particolare, considera il caso di un’abi­ tazione il cui valore è aumentato in seguito all’inflazione. Più del 68% degli intervistati ritiene che questa forma di capitai gain non debba essere tassata.

I due problemi finali che abbiamo ricordato alla fine della se­ zione teorica precedente, ovvero il problema della progressività (paragrafo 1.3.2) e quello dell’unità contributiva (paragrafo 1.3.3), sono stati affrontati nelle ultime tre domande del questionario.

Incominciando dal primo quesito, la Domanda 12 pone l’inter­ vistato di fronte alla scelta tra quattro tipi di imposte: imposta in

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somma fissa; imposta proporzionale; imposta proporzionale con esenzione per i redditi al di sotto di un minimo stabilito; ed, infine, imposta progressiva per detrazione. L ’ordine di preferenza che ri­ sulta colloca l’imposta progressiva al primo posto (circa il 65% del­ le risposte), quindi l’imposta proporzionale con esenzione (23%), poi l’imposta proporzionale (9%) e solo l’ 1,5% sembra a favore di un’imposta in somma fissa. Il restante 1,5% degli intervistati pro­ pone forme alternative di tassazione, che tuttavia non vengono spe­ cificate in modo corretto. Passando poi all’analisi dei risultati per li­ vello di reddito, un dato interessante da rilevare che è la fascia di reddito meno favorevole all’imposta progressiva è quella del reddi­ to medio (solo il 58% contro il 68% del complesso delle altre fasce di reddito), la quale sente probabilmente sulle sue spalle il peso maggiore della redistribuzione.

Il rinnovato interesse per l’unità familiare come unità più ap­ propriata per definire la capacità contributiva per l’applicazione dell’imposta progressiva sul reddito è oggi in parte dipeso da una maggiore sensibilizzazione sull’incapacità, per altro nota da tempo (cfr. Bosi, 1989), del regime vigente di tassazione separata di sod­ disfare due requisiti per il rispetto del criterio di equità orizzontale. Ovvero, a parità di reddito garantire l’indipendenza dell’imposta dal modo in cui il reddito stesso è ripartito tra i percettori, e, a pa­ rità di reddito e componenti, garantire un medesimo onere tributa­ rio. A vendo presenti questi due criteri di equità, viene chiesto esplicitamente agli intervistati di scegliere tra la tassazione dei red­ diti familiari e la tassazione del reddito individuale.

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tenenti alla fascia alta di reddito, per i quali le due alternative sono abbastanza sostituibili (45% contro 40%) (12).

La Domanda H introduce un correttivo nel sistema di tassazio­ ne familiare, per stemperare i vantaggi che tale sistema di tassazio­ ne garantisce alle famiglie monoreddito (13). Come tendenza gene­ rale le risposte a questa domanda continuano a privilegiare la scel­ ta della famiglia come unità impositiva: il 47% degli intervistati contro il 36% che viceversa preferisce un sistema impositivo basato sul reddito individuale. Si noti, tuttavia, che al contrario di quello che ci si poteva aspettare, l’introduzione del correttivo, rispetto a quanto osservato nella Domanda 13, ha l’effetto di diminuire il con­ senso per il sistema d ’imposizione basato sulla famiglia. Questo ri­ sultato è veramente difficile da interpretare, sia per quanto sugge­ rito dalla letteratura teorica (cfr. paragrafo 1.3.3); sia, soprattutto, perché l’effetto di uno stemperamento dei vantaggi per le famiglie monoreddito proprii di un sistema puro di imposizione familiare (rendendo il sistema stesso più simile a quello della tassazione indi­ viduale) avrebbe dovuto logicamente causare uno spostamento del­ le preferenze dalla tassazione individuale a quella familiare. Le ri­ sposte al questionario, viceversa, rivelano una (se pur debole) op­ posta tendenza.

3. Conclusioni: il contribuente medio che emerge dall’indagine.

Poiché, come ampiamente espresso nel corso del lavoro, l’o­ biettivo della ricerca era quello di individuare le caratteristiche del contribuente « comune » e, più in particolare, le sue aspettative ri­ spetto ad un sistema fiscale da lui definibile equo, vorremmo con­ cludere cercando di delineare la figura del contribuente medio che emerge dalla nostra indagine (14).

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(12) A questo proposito è opportuno osservare che neppure una disaggre­ gazione delle risposte per diverse caratteristiche familiari (ad esempio tra non co­ niugati e coniugati, per numero di figli a carico, o per professione del coniuge) non modifica sostanzialmente le percentuali riferite nel testo.

(13) In particolare, un sistema di tassazione familiare puro offre alle fami­ glie monoreddito il vantaggio che i costi di gestione della famiglia, quali i lavori domestici e la cura dei figli, non comportano dei costi aggiuntivi a quelli relativi al pagamento delle imposte (che viceversa devono essere sostenuti quando entrambi i coniugi lavorano).

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