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UNIVERSITA DEGLI STUDI DI TORINO FACOLTA DI PSICOLOGIA TESI DI LAUREA PSICOLOGIA E CURE PALLIATIVE.

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ma di sfidarli impavido.

Non voglio implorare alleviamento di pena, ma cuore per vincerla.

Non voglio cercare alleati nelle battaglie della vita,

ma il mio rinvigorimento.

Non voglio gemere nell’ansioso timore di non

Concedimi di non essere codardo,

sentendo la tua misericordia soltanto nel mio successo,

ma di riconoscere il soccorso della tua mano anche nella mia sconfitta.” Tagore, Raccolta votiva

(2)

FACOLTA’ DI PSICOLOGIA

TESI DI LAUREA

PSICOLOGIA E CURE PALLIATIVE.

Storie famigliari di pazienti neoplastici in fase terminale.

Relatore

Chiar.mo Prof. Andreis Giuseppe

Candidate:

Minacapelli Paola n. Matr. 9519562 Spada Sara n. Matr. 9519233

ANNO ACCADEMICO 2000/2001

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INDICE

Introduzione………. I

PARTE PRIMA

LE CURE PALLIATIVE

1. COSA SONO LE CURE PALLIATIVE

1.1 Definizioni………. 2 1.2 Un po‟ di storia………. 6

1.2.1 Date fondamentali nella storia delle cure palliative in Italia e nel mondo……….. 7

1.3 A chi sono rivolte………. 11

1.3.1 Il malato terminale……….. 11

1.3.2 Gli studi di E. Kübler Ross………. 15 1.3.3 Gli studi di J. Culberg……….. 17 1.3.4 I meccanismi di difesa: un adattamento

inconscio alla malattia………. 19

1.3.5 La famiglia del malato terminale……….. 21

1.4 Dove si realizzano………. 27

1.4.1 L‟ospedale………. 28 1.4.2 Il domicilio………. 30 1.4.3 L‟hospice……….32

(4)

2. UN CAMBIAMENTO DI PROSPETTIVA: DAL CURARE AL PRENDERSI CURA

2.1 L‟umanizzazione della medicina………. 36

2.2 La comunicazione con il paziente oncologico………. 40

2.2.1 La comunicazione verbale e non verbale………. 42

2.3 Valutazioni etico-morali………. 43

2.3.1 Il tabù della morte………. 45

2.4 Il dolore totale: fisico, psicologico, relazionale e spirituale……… 50

2.5 La posizione dello psicologo di fronte a questi cambiamenti………. 5 2

3. L‟EQUIPE MULTIDISCIPLINARE 3.1 Introduzione………. 54

3.1.1 L‟équipe: definizione degli obiettivi………. 56 3.1.2 L‟équipe: strumento operativo………. 58

3.2 Ruolo dello psicologo………. 61

3.2.1 Per l‟équipe………. 61

3.2.2 Per il malato e i famigliari………. 62

3.3 Interventi psicologici………. 66

3.3.1 La novità del setting………. 66 3.3.2 L‟importanza del tempo………. 67 3.3.3 I temi dell‟incontro………. 67

3.4 Gli altri componenti dell‟èquipe………. 68

3.4.1 Il medico……….. 68 3.4.2 L‟infermiere……….. 70

(5)

3.5 Altre figure………… 74

3.5.1 Il terapista della riabilitazione………. 74 3.5.2 L‟assistente spirituale………. 75

3.6 Conclusioni………. 76

PARTE SECONDA

LA REALTA’ BIELLESE

1. DESCRIZIONE DEL NOSTRO CONTESTO DI OSSERVAZIONE

1.1 Premessa………. 79

1.2 Il dipartimento oncologico……….. 79

1.3 L‟organizzazione delle cure palliative………. 82

1.3.1 Attività garantite dall‟Unità Operativa di Cure Palliative (UOCP)……….. 83

1.4 Le nostre osservazioni in équipe………. 84 1.5 Le riunioni mensili con pazienti e

famigliari: le nostre riflessioni…… 90

(6)

STORIE DI PAZIENTI TERMINALI

1. STRUMENTI UTILIZZATI E MOTIVAZIONI DELLA SCELTA

1.1 Introduzione………. 97

1.2 Scheda di osservazione dei “life events” psicologicamente

significativi del paziente……… 97 1.3 Lo schema famigliare……….. 98 1.4 Analisi dei principali bisogni del

paziente in fase terminale e dei famigliari………. 101

2 STORIE DI MALATI NEOPLASTICI IN FASE TERMINALE E ANALISI DEI LORO BISOGNI

2.1 Casi di buona morte………. 104

2.1.1 Caso del signor B………… 105 2.1.2 Caso della signora O………… 108

2.2 Situazione problematiche………. 110

2.2.1 Depressione preparatoria………. 111

 Caso della signora G……….. 113

 Caso del signor F……….. 118

 Caso del signor P……….. 121

2.2.2 Difficoltà nella comunicazione della diagnosi………. 124

 Caso del signor L……….. 126

 Caso del signor T……….. 130

 Caso del signor M……….. 133

 Caso del signor O………. 136

 Caso del signor Q………. 139

 Caso del signor D………. 143 2.2.3 Problematiche famigliari………. 146

(7)

 Caso del signor N……….. 147

 Caso del signor A………… 150

 Caso del signor E………. 153

 Caso del signor C………. 156

 Caso del signor Z.……… 159

 Caso del signor W………. 162

 Caso del signor R……….. 165

 Caso della signora R………..169

 Caso del signor G……….. 172 2.2.4 Dimensione spirituale………. 176

 Caso della signora M………. 177

 Caso della signora L……….. 180

 Caso del signor V………. 183

2.2.5 Le assistenze di breve durata………. 186

 Caso della signora I……….. 187

 Caso del signor S………. 190

 Caso della signora B……….. 193

2.3 Riflessioni………. 196

3. CONCLUSIONI: IL NOSTRO CAMMINO……….197

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI APPENDICI

Allegato 1: Visita all‟hospice “L‟Orsa Maggiore”

Allegato 2: Manifesto per l‟umanizzazione della medicina

Allegato 3: Griglia di osservazione delle riunioni (1)

Allegato 4: Griglia di osservazione delle riunioni (2)

Allegato 5: Griglia di osservazione delle riunioni (3)

Allegato 6: Scheda di osservazione dei “life events”

psicologicamente significativi del paziente.

(8)

INTRODUZIONE

Nel 1999 siamo venute a conoscenza dell‟esistenza di una nuova filosofia all‟interno del campo medico che inizia ad operare quando “non c‟è più niente da fare” per il tecnico e per la terapia rivolta alla guarigione.

Le cure palliative rappresentano un‟attitudine che si traduce in un‟attenzione rivolta prima alla persona, poi alla malattia, consistono in attività rivolte al malato e alla sua famiglia, rispondendo ai loro reali bisogni nell‟ottica di salvaguardare la dignità della persona e la qualità di vita del malato.

Uno dei bisogni principali del paziente terminale risulta essere quello di morire nella propria abitazione e circondato dagli affetti più cari; questa necessità di vicinanza e conforto viene soddisfatta pienamente dai programmi domiciliari, garantiti dalle équipes di cure palliative.

Questi temi hanno, da subito, suscitato in noi grande interesse perché, pur essendo apparentemente scontate la priorità del malato sulla malattia e la legittimità di voler trascorrere gli ultimi giorni di vita a casa, nella pratica questo non avveniva e si moriva in ospedali soli e nascosti da un paravento.

Abbiamo iniziato, così, a documentarci utilizzando sia i principali testi inerenti questo argomento, sia numerose informazioni presenti su internet.

Il nostro lavoro si articola in tre parti: la prima di carattere esclusivamente bibliografico, la seconda calata nella realtà biellese e la terza “esperienziale”.

La prima parte è suddivisa in tre capitoli: nel primo capitolo, dopo aver definito la filosofia delle cure palliative, compiamo un breve excursus storico del loro sviluppo in Italia e nel mondo. Segue un paragrafo dedicato a coloro che beneficiano delle cure palliative e alcuni studi, in ambito psicologico, compiuti in

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questo campo. Il capitolo si conclude con la descrizione dei contesti in cui si applicano le cure palliative.

Nel secondo capitolo riportiamo l‟indispensabile cambiamento della filosofia medica che ha reso possibile lo sviluppo delle cure palliative; altro argomento trattato è quello della morte che nella nostra società è spesso ancora considerata un tabù.

Il terzo capitolo è dedicato all‟équipe multidisciplinare di cure palliative con particolare attenzione al ruolo e agli interventi dello psicologo.

Nella seconda parte è descritto il nostro contesto di osservazione all‟interno della realtà biellese per quel che concerne le cure palliative.

La terza parte è composta da tre capitoli: nel primo, una descrizione degli strumenti da noi utilizzati nella nostra esperienza; nel secondo, la raccolta di alcune storie famigliari di pazienti presi in carico dall‟Unità Operativa di Cure Palliative (UOCP) e dall‟hospice ed infine, nel terzo, le nostre conclusioni e riflessioni finali.

Non abbiamo avuto, se non nelle riunioni mensili, rapporti diretti con il malato terminale e la sua famiglia, ma filtrati dagli infermieri professionali dell‟équipe che hanno compilato le schede di osservazione, rendendo possibile il nostro avvicinamento a queste delicate tematiche.

Nel convegno “Perché le cure palliative?” tenutosi a Casale Monferrato il 7 ottobre 2000, abbiamo conosciuto il responsabile dell‟UOCP di Biella, e abbiamo preso i primi contatti.

Il responsabile, in collaborazione con la psicologa dell‟équipe, ci ha offerto la possibilità di partecipare alle riunioni settimanali del team multidisciplinare, in qualità di osservatrici.

Durante il suddetto convegno, è stata proiettato un filmato che riportava l‟intervista ad un malato terminale preso in carico dalle cure palliative; riportiamo di seguito le commoventi parole che non necessitano di commento:

“ ... ho incominciato a capire lo scollamento che c‟è tra il medico che ti cura il tumore, ... non voglio dire che non si occupa più di te, è che non è nella loro cultura, loro pensano esclusivamente a cercare di curare il tumore, ... io so che devo morire ... cioè l‟ho seguita talmente passo a passo questa mia malattia, che lo

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so benissimo che devo morire, però si può morire con tanta dignità o con nessunissima dignità.

Questo non è bello perché uno non è più un uomo, perché perde il senso di quello che significa essere un uomo ...

Io sentivo urlare una donna ... poverina ... - fatemi morire -, ma si può sentire cose del genere dopo quattro mesi, ... una notte, infatti, è morta dal dolore ... è qualcosa di disumano.

Io mi sento ancora il tumore, ma mi sento un uomo, un uomo che ha riacquistato la voglia di vita ... è importantissimo!

... ma può un ospedale oncologico essere privo di strutture del genere, siamo fuori della grazia di Dio! Non è possibile, non è umano!

Qui mi sono sentito un essere umano, il loro problema in quel momento era il mio dolore, è chiaro che io non spero di curare il tumore, ma la mia dignità di uomo!

Dopo tre giorni non ho più dolori, tanto è vero che ho ricominciato a mangiare del brodo ... ma sa che neanche l’acqua mi entrava?

Speriamo in Dio che li illumini a fare qualcosa di serio, che aiuti strutture serie che vogliono fare cose del genere ...”

(11)

PARTE PRIMA

LE CURE PALLIATIVE

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1. COSA SONO LE CURE PALLIATIVE

“Non esiste nell’assistenza un momento in cui non si possa più fare nulla, anche il più piccolo dei gesti ha il suo valore.

Bisogna prestare molta attenzione, riuscire a leggere un viso è una delle esperienze umane più belle, ma anche una delle più difficili; il viso parla un linguaggio speciale, è come leggere un meraviglioso libro, che si apre soltanto quando sa di essere compreso.” (Costa A.)

1.1. Definizioni

“La cultura dominante nelle aree forti e ricche del nostro pianeta tende a rimuovere la sofferenza e la morte, vissute solo come terribili e inaccettabili sconfitte, rispetto alle possibilità all‟apparenza illimitate offerte dalla scienza e dalla tecnica. Non si tratta della fisiologica rimozione che ci aiuta a vivere e a non pensare al giorno della nostra morte, ma di qualcosa di più profondo e oserei dire istituzionalizzato che, paradossalmente, trascura la qualità della vita del paziente senza speranza di guarigione ed emargina tutto ciò che disturba l‟onnipotenza tecnologica. Non a caso, si muore sempre più spesso in ospedale, in un ambiente anonimo e talora lontani dalla propria famiglia e dagli affetti più cari ...”

Questo è lo scenario culturale delineato dall‟ex ministro della sanità Rosy Bindi nell‟editoriale del primo numero del 1999 della Rivista italiana di Cure Palliative, cioè di quelle cure che nascono sia per dare una risposta al dolore del malato terminale, sia per elaborare risposte assistenziali che diano valore all‟ultimo tratto della loro vita.

Le cure palliative, infatti, sono il trattamento attivo, globale e multidisciplinare dei pazienti affetti da malattia che non risponde più ad interventi specifici.

Gli scopi di questi interventi sono il raggiungimento della migliore qualità di vita possibile per i pazienti, mettendo in secondo piano la sopravvivenza, e la sollecitazione di tutte le potenzialità del malato, incoraggiandone le capacità di autodeterminazione e coinvolgendolo nel processo decisionale.

Il controllo del dolore, degli altri sintomi e dei problemi psicologici, sociali e spirituali è di fondamentale importanza; la terapia del dolore è una parte della

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medicina oncologica che si è sviluppata negli ultimi venti anni, prima a livello internazionale e da qualche anno, anche in Italia.

Fu all‟inizio degli anni‟80 che si cominciò a capire come, insieme al dolore, ci fossero molti sintomi che riguardavano altri aspetti in una persona che soffre nelle fasi terminali della sua esistenza: il dimagrimento, la nausea, il vomito, le piaghe, le infezioni.

Tutta la malattia, a quel punto, pur restando inguaribile, non era più considerata incurabile; si passò, così, dalla terapia del dolore alla terapia palliativa, dove ad ogni sintomo, in base all‟eziologia, corrispondeva un trattamento sintomatico, in modo da alleviare le sofferenze procurando il minor numero di effetti collaterali.

Le cure palliative, secondo l‟Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS):

“Affermano la vita e considerano il morire come un evento naturale, non accelerando né ritardando la morte ed integrano gli aspetti psicologici, sociali e spirituali dell‟assistenza, offrendo un sistema di supporto per aiutare i pazienti e la famiglia durante la malattia fino alla morte.”

L‟ambito d‟applicazione riguarda patologie irreversibili come il cancro, l‟AIDS, le malattie neurologiche (morbo di Parkinson), le malattie cerebrovascolari e le demenze, ma anche altri tipi di malattia che presentano una fase terminale più o meno lunga.

Esse si occupano, quindi, prima della persona, poi della malattia, attribuendo assoluta importanza ai bisogni dell‟individuo quali: non essere lasciato solo, vivere gli ultimi giorni a casa con i famigliari, godere di ambienti idonei alle proprie esigenze, ricevere regolarmente le cure necessarie, essere accudito in base alle necessità fisiche, psicologiche e sociali.

Elisabeth Kübler Ross suddivide le esigenze del malato terminale in tre

categorie: bisogno di accudimento, bisogno di relazione e bisogno di significato.

L‟insieme delle mansioni mediche, infermieristiche e famigliari rispondono agli innumerevoli bisogni fisici degli ammalati (pulizia, alimentazione etc.) e soddisfano il primo di questi bisogni (accudimento).

Alla base della paura della morte vi è l‟angoscia di separazione dai propri cari, solo grazie alla loro presenza e al loro affetto è possibile rispondere alla seconda necessità (relazione).

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Alla base del terzo bisogno (significato) vi è la necessità di trovare un posto per la malattia nel mondo dei valori individuali, per poter dare un senso alle sofferenze, alle paure e, quindi, all‟ultimo periodo della propria vita.

Lo stato di questi bisogni e la possibilità di soddisfarli dipende sia dal malato sia dalle persone che si occupano di lui, perciò la tipologia di relazione, cui l‟individuo ha accesso, diventa una variabile fra le più importanti nel determinare la qualità della sua vita residua e della sua morte.

La commissione ministeriale per le cure palliative (1999) indica, come caratteristiche principali di questo tipo di cure:

 la globalità dell‟intervento terapeutico che, avendo per obiettivo la qualità della vita residua, non si limita al controllo dei sintomi fisici, ma si estende al sostegno psicologico, relazionale, spirituale e sociale;

 la valorizzazione delle risorse del malato e della sua famiglia, oltre che del tessuto sociale in cui sono inseriti;

 la molteplicità delle figure professionali e non che sono coinvolte nel piano di cura;

 il pieno rispetto dell‟autonomia e dei valori della persona malata;

 la forte integrazione e il pieno inserimento nella rete dei servizi sanitari e sociali;

 l‟intensità, poiché le cure che devono essere in grado di dare risposte pronte ed efficaci al mutare dei bisogni del malato;

 la continuità e la qualità delle cure, poiché esse devono essere prestate fino all‟ultimo istante.

Esiste una tendenza a disumanizzare il rapporto tra medico e paziente e a spersonalizzare il malato: troppe volte s‟identifica la persona ammalata con il numero del letto che occupa in ospedale o, peggio ancora, con la sua patologia.

In tutti i malati, non solo in quelli inguaribili, l‟umanizzazione e la personalizzazione del loro rapporto con il curante è un‟esigenza fondamentale.

Nel concetto di palliazione i requisiti umani e morali hanno grande risalto; il fatto di esserci, di saper ascoltare, di non avere fretta, hanno importanza per il malato: questo è il significato di un atteggiamento medico caritatevole da instaurare nell‟approccio al malato.

(15)

Apportare un miglioramento alla qualità di vita del malato inguaribile significa:

libertà dal dolore, libertà da altri sintomi, sufficiente numero di ore di sonno, adeguata alimentazione, conservazione di una certa autonomia fisica e di un ruolo sociale e famigliare.

La domiciliarità è un aspetto fondamentale di questo tipo di cure e necessita, quindi, del passaggio di alcuni compiti di cura ai famigliari, trasferendo loro gradualmente alcune competenze e assegnando, così, significato alla loro presenza accanto al malato.

Si costruisce, in questo modo, una rete di protezione attorno al paziente, attivando tutte le risorse pubbliche, private, sociali e famigliari.

In letteratura questa nuova disciplina è stata definita in svariati modi, ma i principi cardini delle cure palliative sono:

 non nuocere. Per alleviare una sofferenza, non è necessario procurarne un‟altra. La terapia è per via orale, né invasiva e né tanto meno aggressiva, i farmaci più comunemente usati sono: gli oppiacei, la morfina, il metadone;

 non impedire la libera scelta della sofferenza. Se qualcuno vuole soffrire, nessuno glielo deve vietare; nella maggior parte dei casi, però, i pazienti non vogliono soffrire e sono desiderosi di “morire con dignità” (Saita, 1993);

 l‟occuparsi prima della persona, poi della malattia;

 il prendere atto che il curare (to care) è prevalente sul guarire (to cure);

 il considerare come obiettivo prioritario la qualità della vita del paziente piuttosto che la sua sopravvivenza;

 l‟alleviare i sintomi con trattamenti, il cui principale e unico scopo è il massimo comfort possibile per il paziente;

 il considerare il morire un processo naturale;

 il non affrettare né posporre la morte.

In ultima analisi, le cure palliative sono una sfida a non adagiarsi su soluzioni sanitarie scontate, nel rispetto di vecchi schemi organizzativi; costituiscono inoltre, un pretesto per cercare soluzioni innovative, tagliate su misura per “quel”

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malato, così diverso dagli altri, recuperando una dote molto importante: la fantasia.

I bisogni dell‟uomo sono sempre gli stessi e dalle situazioni più difficili si esce più con la fantasia che con la ragione; la fantasia, nella medicina, sta proprio nel capire ciò di cui il paziente ha più bisogno e nel come trovare una soluzione adatta.

Le cure palliative impongono alla nostra attenzione questa nuova consapevolezza: il modo di comportarsi nei confronti dei malati terminali, non è solo un problema dei medici, delle infermiere e degli psicologi, ma un problema di tutti.

La consapevolezza della morte induce un‟attenzione più acuta alla qualità della vita ed alla sofferenza di chi sta per morire; come ben sottolinea Spinsanti: “La medicina delle cure palliative è, e rimane, un servizio alla salute, non dunque una medicina per aiutare a morire, ma una medicina per l‟uomo, che rimane un vivente fino alla morte” (Spinsanti, 1988).

1.2. Un po’ di storia

“Il senso della storia si conquista facendone un po’.”

(A. Baldini)

Il termine palliativo deriva dal latino “pallium”, che si traduce con “mantello”.

Secondo la tradizione agiografica, S. Martino di Tours non esitò, infatti, a dividere il proprio mantello con un colpo di spada per donarne la metà ad un povero incontrato sul suo cammino.

Del “pallium” facevano uso i pellegrini durante i loro viaggi verso i santuari, per proteggersi dalle intemperie; analogamente le cure palliative hanno lo scopo di proteggere il malato nella sua globalità di persona, durante l‟ultimo tratto della vita.

Nell‟uso corrente il termine palliativo ha una connotazione negativa: il significato di inutile e inefficace; al contrario, le cure palliative sono le sole cure

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veramente utili per il malato morente, perché lo proteggono dalle sofferenze evitabili, salvaguardando la dignità della persona fino all‟ultimo istante.

1.2.1 Date fondamentali nella storia delle cure palliative in Italia e nel mondo

Anche se il termine “cure palliative” è recente, l‟assistenza alla persona morente risale molto indietro nel tempo.

Ne troviamo testimonianza già ai tempi in cui l‟imperatore Giuliano l‟Apostata (475 d.C.), per opera della matrona romana Fabiola, discepola di S. Gerolamo, costruì in Siria l‟“antenato” degli attuali hospice: un ostello per viandanti, malati, morenti.

Ospedale, hospice derivano dalla parola cristianamente intesa “Hospitale” da

“hospitalia”, ospitalità. Numerosi furono gli “Hospitales” che sorsero sulla via della Palestina durante le crociate e su tutti i percorsi dei pellegrini.

Nell‟XI secolo essi ebbero un ulteriore diffusione per merito dei Cavalieri Ospitalieri dell‟ordine di S. Giovanni; tradizionalmente i monasteri ed i conventi divennero luogo di rifugio e di cure e, nella storia, diversi furono i gruppi religiosi o i fondatori che videro nell‟assistenza agli ammalati e soprattutto agli inguaribili e ai morenti una via di particolare servizio: ricordiamo, fra i più noti, la Congregazione delle Suore della Carità, S. Camillo de Lellis, S. Giovanni di Dio e S. Vincenzo de Paoli.

Ben più tardi, nel 1842, Jeann Garnier fonda a Lione le prime case per assistere i morenti (Calvaires), mentre le Irish sisters of Charity aprono a Dublino l‟“Our Lady Hospice” e, nel 1905, il “Saint Joseph Hospice” a Londra.

Nel 1893, sempre a Londra, viene aperta la “Saint Luke‟s Home for Dying Poor” e, nel 1899, è inaugurato a New York il “Calvary Hospital”, ispirato all‟opera di J. Garnier.

Verso la fine degli anni ‟40 è costituita la “Marie Curie Memorial Foundation”

con lo scopo di assistere, nelle loro case, malati inguaribili di tumore; negli anni successivi, seguendo a domicilio oltre settemila pazienti, viene ufficializzato un programma per la cura infermieristica continua a domicilio e il “nursing home.”

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Il programma si basa sulla constatazione che le cure normalmente erogate ai pazienti con malattia avanzata non soddisfano le loro necessità di controllo del dolore e degli altri sintomi, di supporto psico-sociale e spirituale, di informazione e comunicazione oltre che di aiuto alla famiglia.

Le cure palliative moderne sono nate in Gran Bretagna negli anni ‟60 e si sono diffuse, grazie al cosiddetto “movimento Hospice” o “filosofia Hospice”, come alternativa all‟abbandono terapeutico e al sottotrattamento di cui erano oggetto i pazienti in fase terminale.

Ben diversa la realtà statunitense, che vedeva le cure palliative come risposta ai trattamenti sproporzionati ed eccessivi di cui, in quei paesi tecnologicamente avanzati, i malati terminali erano vittime (accanimento terapeutico).

L‟esperienza Hospice si diffonderà ampiamente prima nei paesi di lingua inglese (Canada, Stati Uniti, Australia) e, in seguito, in tutto il mondo occidentale.

Negli anni ‟70 si verificherà un grande sviluppo soprattutto degli hospice residenziali, molti dei quali opereranno su base caritatevole, mentre altri saranno pienamente inseriti nel National Health Service.

In questo periodo si giungono a definire quattro modelli assistenziali:

 gli hospices autonomi e fisicamente separati dalle istituzioni ospedaliere (case o villette), in cui si privilegia il rapporto umano rispetto all‟intervento sanitario;

 le unità di cure palliative collocate all‟interno delle strutture ospedaliere;

 le unità di cure palliative domiciliari, in cui équipes organizzate svolgono al domicilio del paziente un servizio di risposta ai bisogni assistenziali del malato ed un servizio di supporto alla famiglia;

 i servizi ospedalieri di consulenza di terapia del dolore e cure palliative.

Nel 1975 viene istituito da Balfour M. Mount il primo servizio di cure palliative al “Royal Victoria Hospital” di Montreal (Canada): è la prima volta che viene usata l‟espressione cure palliative per indicare un programma di trattamento per pazienti in fase avanzata di malattia.

In Italia le cure palliative hanno fatto la loro comparsa alla fine degli anni ‟70, infatti, nel 1978 la Fondazione Floriani organizzò a Venezia il primo congresso sul dolore da cancro: il prof. Ventafridda e l‟ing. Floriani avevano capito che le

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problematiche del malato terminale di cancro non potevano essere ridotte al solo controllo del dolore fisico, alla sola gestione intraospedaliera, al coinvolgimento nel piano assistenziale di un solo operatore, il medico.

L‟originalità del modello proposto, la capacità di superare i rigidi schematismi sanitari e organizzativi, la potenziale efficacia del sistema produssero un‟espansione di queste idee tale per cui molti ospedali e associazioni ripercorsero, un po‟ ovunque in Italia, lo stesso cammino.

Il modello pubblico-privato, proposto dalla Fondazione, ha evidenziato col tempo infinite varianti in cui le forze in campo erano diversamente distribuite, fino ad alcune esperienze totalmente pubbliche ed altre solo private (VIDAS di Milano e SAMOT di Palermo).

Nella maggioranza dei casi, però, persiste un sinergismo tra le due strutture, per cui risorse professionali, economiche, strumentali e volontariato, sono, per così dire, messe in comune al fine di realizzare un centro operativo efficiente con risposte valide ed a costi contenuti, ai molteplici problemi del malato terminale.

Il modello Floriani prevedeva l‟operatività su due fronti: l‟ambulatorio, per i pazienti meno gravi e autosufficienti, e le cure domiciliari, apportate dalla stessa équipe che usciva sul territorio, per i malati più gravi; la multidisciplinarietà dell‟intervento era basata sull‟organizzazione di un‟équipe di cure palliative in cui coesistessero diversi ruoli.

In questa fase si identificò nel domicilio del malato la sede ideale per la realizzazione delle cure, ponendo in second‟ordine altre soluzioni, come il ricovero in reparti di degenza; questa scelta risultò diametralmente opposta a quella di altri paesi, come il Regno Unito, dove le cure palliative sono nate in strutture di ricovero specifiche per i malati terminali, dette “hospices”.

Il modello Floriani ha avuto la saggezza di coniugare il fondamentale bisogno dell‟uomo di morire nel proprio letto, con un conveniente modello economico:

una parte dei costi rimane sulla famiglia, sgravando l‟ente erogatore delle cure.

Le cure palliative hanno di sicuro il merito di aver individuato e realizzato l‟integrazione tra ospedale e territorio, ma di qui a dare forma legale e istituzionale ad un‟unità operativa che disponga contemporaneamente di posti letto, ambulatori e intervento domiciliare, il passo è lungo.

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E‟ facilmente intuibile che, per offrire un servizio di cure e assistenza validi e continui, tre sono i punti cardine: ambulatorio, domicilio e degenza; essi rispondono a tre momenti diversi di gravità della malattia, di livello di autosufficienza del malato e, nel caso delle due ultime possibilità, implicano, spesso, una libera scelta.

In Italia gli anni ‟80, quindi, sono considerati quelli dei pionieri: piccoli gruppi di medici e infermieri escono dagli ospedali e, al di fuori dell‟orario di servizio, seguono i malati al domicilio (modello Floriani, 1979).

Nel 1986 nasce a Milano la Società Italiana di Cure Palliative (SICP), che si poneva l‟obiettivo di coordinare e formare coloro che operavano in questo campo;

in seguito, nei primi anni ‟90 sorsero numerose équipes anche in ambito privato.

Solo nei secondi anni ‟90, però, furono diffuse le linee guida della Commissione Oncologica Nazionale, che diedero alle regioni un‟indicazione abbastanza forte per l‟istituzione di commissioni regionali di cure palliative.

A differenza di altri paesi, dove una cultura delle cure palliative ha consentito di avviare e di consolidare esperienze assistenziali e formative in tale ambito, in Italia si scontano gravi ritardi.

L‟assistenza ai malati terminali, inoltre, attualmente viene erogata in modo disomogeneo sul territorio nazionale, in alcuni casi, da strutture del sistema sanitario nazionale ed in altri da organizzazioni di volontariato professionale (ONLUS).

Le tipologie di intervento variano da una situazione ad un‟altra, determinando una grave disomogeneità del servizio offerto ai cittadini, sia in termini di accessibilità, sia di qualità delle prestazioni erogate.

Altra grave carenza è quella legata all‟aspetto didattico, mancando totalmente, nel curriculum formativo del medico e dell‟infermiere professionale, la possibilità di accedere a corsi universitari o di aggiornamento nella disciplina delle cure palliative.

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1.3. A chi sono rivolte

1.3.1 Il malato terminale

“Per quanto lunga sia la veste della tua vita, non supererà mai la statura della tua speranza.” (Anonimo cinese)

“Per fase o malattia terminale si intende una condizione patologica che induce a pensare ad un‟aspettativa di morte (a breve scadenza) come diretta conseguenza della malattia. Per paziente terminale si intende una persona che a breve scadenza con molta probabilità morirà” (Di Mola, 1994).

La malattia rappresenta una condizione di profonda crisi sia a livello biologico, perché comporta sofferenza e disagi, sia a livello esistenziale, in quanto interrompe e disorganizza l‟abituale ritmo di vita, altera il rapporto con il proprio corpo e con gli altri, fa perdere ruoli professionali e familiari, disorienta l‟identità.

La malattia grave ha l‟effetto di un‟esposizione devastante nella vita di una persona; nel momento in cui si manifesta, il malato perde il suo ruolo nei confronti degli altri; non è più il professionista o il marito, ed il suo tempo è scandito dal succedersi delle visite e dei cicli di terapia; anche lo spazio si ridimensiona: prima il suo agire non aveva confine, dopo la malattia si restringe alla propria casa, sino a limitarsi ai confini del proprio letto.

Tra la sofferenza, il dolore e le limitazioni si instaura l‟angoscia di un inquietante presagio di morte.

La fase terminale di una malattia costituisce un periodo particolare nel quale la stessa si evolve e si caratterizza essenzialmente per tre elementi: l‟inguaribilità, la gravità, la prospettiva di morte più o meno imminente.

Questi elementi che rendono la morte ineluttabile fanno sì che il progressivo deperimento organico porti a diverse complicanze, di carattere sia organico sia psicologico.

Ogni progresso della medicina sembra avvicinare il medico all‟obiettivo di curare tutte le malattie: se, però, alcune patologie mortali sono oggi state vinte, altre, nonostante i tentativi, sfuggono ancora ad ogni sforzo di cura.

Ecco, quindi, la necessità di cure palliative, intese come trattamento del malato terminale attraverso il controllo dei sintomi.

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Per quanto riguarda il malato terminale, sono state approvate diverse definizioni, non contraddittorie tra loro, ma differenti per quanto attiene all‟osservazione del problema.

Secondo la Società Europea di Cure Palliative (EACP) si può definire terminale quel paziente per il quale non è possibile o non è vantaggioso continuare i trattamenti specifici (mirati alla causa della malattia).

Nell‟analisi fatta dalla Società Italiana di Cure Palliative (SICP), sono terminali

“i pazienti affetti da una malattia evolutiva irreversibile, di cui la morte è diretta conseguenza, nel loro ultimo periodo di vita, quando le cure specifiche non trovano più indicazione.”

Toscani dà una definizione più di ordine biologico-clinico, affermando che si può parlare di malato terminale “quando il finalismo intrinseco dei suoi organi e delle sue funzioni inizia a cessare, quando cioè, di fatto, comincia a venir meno quel meccanismo di autoregolazione che consente ad un organismo di vivere, sia pure a diversi livelli di salute. Il processo così iniziato ha come esito la morte”

(Toscani, 1993).

Per capire il malato terminale bisogna prendere in considerazione alcuni aspetti fondamentali della sua condizione; innanzitutto è necessario tenere presente che si tratta di una persona a cui rimane un periodo limitato di sopravvivenza: il fattore tempo, il “conto alla rovescia”, diviene, dunque, un fattore specifico e determinante.

Inoltre la persona devastata da una malattia terminale sta perdendo la sua autonomia, è sempre più isolata dal mondo e sempre più dipendente dalla cerchia ristretta di chi lo assiste; si trova a combattere con la coscienza della propria malattia e con la consapevolezza della sua morte imminente: c‟è una lotta in lei fra coscienza dei fatti e difesa delle speranze, tra disperazione e illusione.

Si tratta, infine, di una persona che, nonostante tutto, conserva la sua dignità di uomo, la sua volontà e la sua capacità di pensare e valutare.

Dal punto di vista del malato, il cancro assume le proporzioni di una catastrofe a causa dei grandi mutamenti che apporta alla sua vita: “il morire” inizia, spesso, appena viene fatta la diagnosi, ma il suo pieno significato non si rivela finché il

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progredire della malattia non obbliga il paziente a dipendere fisicamente e socialmente da qualcun altro.

Dover rinunciare al proprio lavoro per passare al ruolo di persona malata è duro in una società che dà un alto valore all‟indipendenza e alla fiducia in se stessi.

Cambiamenti fisici associati ad una malattia progressiva costituiscono un‟altra menomazione per l‟individuo e, spesso, sono legati alla crescente necessità di dipendenza dall‟assistenza altrui. Tale assistenza può rivelarsi di lieve importanza se si limita a dover essere accompagnati dal medico, o a dover essere aiutati a preparare i pasti, ma può raggiungere proporzioni rilevanti quando l‟incapacità di badare a se stessi arriva al punto in cui il soddisfacimento di esigenze intime dipende dall‟aiuto di altre persone.

Man mano che il cancro progredisce impone, infatti, una situazione di dipendenza all‟adulto ammalato che si ritrova, nuovamente a ricoprire un ruolo infantile molto svilente per la propria dignità.

Un altro problema associato alla malattia progressiva è costituito dal malessere fisico o dai sintomi fastidiosi che interferiscono con le normali attività della vita e creano la necessità di modificarle per adattarsi alle pressanti esigenze di questi cambiamenti.

Il dolore è un problema particolarmente difficile e preoccupante per molti malati, anche perché esiste il timore molto diffuso che le sofferenze causate da una malattia maligna molto avanzata non possano essere controllate.

Un altro aspetto che la persona che sta per morire si trova ad affrontare, in seguito alla dipendenza fisica e sociale, è la riattivazione dei problemi irrisolti e il venire a galla di questioni personali mai portate a termine, che spesso interessano i rapporti con gli altri.

L‟essere umano è in continuo rapporto con la morte anche se questa relazione non è cosciente; finché è sano, soprattutto nella società attuale, è in parte convinto della sua immortalità e non considera che il suo divenire è sempre un morire parziale.

Quando compare una malattia a prognosi infausta, si prende, però, coscienza di un fatto inequivocabile: l‟uomo muore davvero anche in giovane età.

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L‟atteggiamento nei confronti della malattia risente sempre di svariati fattori tra cui l‟età e la personalità del malato, ma è il risultato anche di effetti specifici, per esempio delle modalità di insorgenza dei sintomi, della gravità e delle limitazioni implicate, della sua localizzazione della malattia, di un‟eventuale sintomatologia diffusa.

Tra le reazioni più frequenti e normali troviamo, allora, l‟ansia che si attiva quando c‟è una percezione di pericolo imminente; essa genera incertezza e paura e incrementa la vulnerabilità. Ogni malattia è in grado di produrre ansia, ma, con la vicinanza alla morte, essa si trasforma in angoscia.

I primi disagi psicologici che la persona malata si trova ad affrontare sono inizialmente legati alla terapia stessa: il malato teme l‟abbandono, il rifiuto, l‟isolamento e, alla fine della malattia avverte addirittura la paura dell‟alienazione.

Oltre a dover far fronte all‟ansia che compare prima di ogni intervento, il malato di cancro, infatti, molte volte può assistere alla mutilazione o amputazione del proprio corpo come nel caso della mastectomia (cura chirurgica), oppure agli effetti devastanti della radioterapia e chemioterapia.

Il malato terminale ha davanti a sé l‟esito inevitabile del percorso patologico, la morte; tuttavia, fino a quel momento, ha diritto di vivere nel migliore dei modi possibili e di non soffrire inutilmente.

Il Codice di Deontologia Medica Europea (5 giugno 1987) recita all‟art. 12:

“La medicina comporta in ogni circostanza il rispetto costante della vita, dell’autonomia morale e della libertà di scelta del paziente. Tuttavia il medico può, in caso di malattia incurabile ed in fase terminale, limitarsi a lenire le sofferenze fisiche e morali del paziente, fornendogli trattamenti appropriati e conservando, per quanto possibile, la qualità di una vita che si spegne. E’ dovere imperativo assistere il morente sino alla fine e agire in modo da conservare la sua dignità.”

Il Comitato Etico della Fondazione Floriani presentò al convegno “Una nuova dimensione della medicina: cure palliative”, tenutosi il 23 – 24 maggio 1997 una carta che sottolinea il fatto che chi sta morendo ha diritto:

1. A essere considerato come persona sino alla morte;

2. A essere informato sulle proprie condizioni, se lo vuole;

3. A non essere ingannato e a ricevere risposte veritiere;

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4. A partecipare alle decisioni che lo riguardano e al rispetto delle sue volontà;

5. Al sollievo del dolore e della sofferenza;

6. A cure di assistenza continue nell‟ambiente desiderato;

7. A non subire interventi che prolunghino il morire;

8. A esprimere le sue emozioni;

9. All‟aiuto psicologico e al conforto spirituale, secondo le sue convinzioni e la sua fede;

10. Alla vicinanza dei suoi cari;

11. A non morire nell‟isolamento e in solitudine;

12. A morire in pace e con dignità.

1.3.2 Gli studi di E. Kübler Ross

La psichiatra svizzera Elisabeth Kübler Ross (1976), in un suo prezioso contributo, ha tracciato un percorso in stadi che i pazienti terminali passano nella quasi totalità dei casi da lei studiati.

Il rifiuto e l‟isolamento sono le prime reazioni comuni a tutti e seguono molto spesso una comunicazione improvvisa dello stato di malattia: questi atteggiamenti inizialmente sono funzionali ad arginare l‟angoscia per la triste eventualità prospettata dalla diagnosi, ma, se permangono oltre certi limiti di tempo, diventano uno scoglio comunicativo insormontabile.

La ribellione è la prima fase di un processo di accettazione; essa scaturisce dalla sensazione di essere stato punito e di aver subito un‟ingiustizia e si esprime nell‟interrogativo: “Perché proprio a me?”

Quest‟emozione può svilupparsi lungo due direttrici, una rivolta verso il sé: “E‟

colpa mia, dovevo curare di più la mia salute”, l‟altra orientata verso l‟esterno, soprattutto nei confronti del medico: “Mi avessero curato meglio ...”

Il patteggiamento è il tempo dedicato a pensare ad un compromesso con Dio, con i medici, con tutti coloro con cui si abbiano dei “conti in sospeso

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La depressione prende sempre più piede con il progredire dei sintomi; la possiamo distinguerne in: reattiva e preparatoria.

La prima è una reazione ad una sconfitta su tutti i fronti, per ciò che si è perso:

rapporti sociali, vita relazionale, autonomia fisica e decisionale, immagine corporea e per il senso di impotenza che l‟avvento di una malattia grave, con il suo strascico sintomatologico può ingenerare.

La seconda compare in funzione delle perdite che si stanno per subire: gli oggetti affettivi della propria vita; la consapevolezza del proprio avvicinarsi alla morte inquina, infatti, le relazioni sia nell‟ambiente famigliare sia in quello relazionale.

L‟accettazione costituisce l‟ultima fase in cui il paziente potrebbe raggiungere, se ben sostenuto, l‟accettazione del suo destino; più favorito nell‟ottenere questo obiettivo è chi sente che, in qualche modo, la sua esistenza continuerà in un‟altra forma di vita, o attraverso altre persone. Grande difficoltà ha chi sente di non avere più il tempo per realizzare qualcosa di molto importante, chi capisce di non essere riuscito a raggiungere l‟obiettivo che si prefiggeva.

Ma il cammino del malato morente non segue, necessariamente, sempre questo percorso e questi passaggi; ogni malato ha un suo modo di reagire di fronte alla morte, perché vari sono i bisogni, le emozioni, i meccanismi di difesa che la persona sofferente si trova ad avvertire e a mettere in atto.

Le reazioni psicologiche possono essere varie e personalizzate; molto dipende anche dalla rete relazionale in cui l‟individuo è inserito, anche se i dinamismi descritti dalla Kübler Ross risultano molto frequenti nei malati morenti: capirli è, quindi, importante per meglio “sintonizzarsi” con colui che muore.

E‟ la paura la principale emozione che il malato morente vive e dalla quale si difende:

 paura dell‟ignoto, della solitudine e dell‟abbandono;

 paura di perdere i famigliari, il proprio corpo e con esso la propria immagine, la propria integrità e la propria identità;

 paura di perdere l‟autocontrollo e la coscienza, di essere in balia degli altri;

 paura del dolore;

 paura della condanna per colpe vere o vissute come tali;

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 paura di non riuscire a dare un senso alla propria vita.

La “traiettoria psicologica” del malato morente è frutto di emozioni e difese in cui sono importanti i modi di reagire, i significati personali dati alla situazione, le sue attese e i conseguenti comportamenti.

Ma dipende anche dalle emozioni, dai significati culturali e sociali e dalle attese che operatori sanitari, famigliari ed amici hanno sul malato e sulla sua situazione. Si delineano, così, delle profezie che gli operatori stessi, con il loro modo di porsi in relazione, collaborano a realizzare.

In una prospettiva relazionale si coglie meglio il significato psicologico della paura di morire e dei meccanismi difensivi, come la negazione di fronte alla morte.

Nella vita, fin da piccoli, viviamo molte “separazioni” e ne portiamo dentro l‟angoscia: il ciclo di attaccamento e di separazione è l‟essenza stessa della vita e ne segna il cammino.

Il morire è, quindi, per il malato un processo di lutto e di allontanamento dai propri legami affettivi: uno staccarsi più o meno improvviso e lacerante da tutto ciò di cui ci si è profondamente innamorati; negare la morte non è altro che un estremo tentativo di tenersi stretti gli “oggetti d‟amore” che fanno parte della propria individualità, un chiudere gli occhi di fronte ad una definitiva separazione.

Ma il momento del morire può diventare per il paziente anche “una nuova opportunità”, una nuova fase di sviluppo emozionale e spirituale fino a quel momento al di là della sua portata.

Il morente ha bisogno di sentirsi “collegato”, di trovare un senso alla sua vita anche nel momento della morte, di vedere un futuro, di sentirsi in una storia che continua e di trovare una risposta al suo desiderio di immortalità; la sua sofferenza più grande è di essere lasciato solo e, pian piano, abbandonato.

1.3.3 Gli studi di J. Culberg

Secondo Culberg (1975, citato in Biondi, Costantini, Grassi 1995) una persona cui viene fatta una diagnosi di cancro passa attraverso quattro fasi successive.

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La fase di shock, immediatamente successiva alla diagnosi, è vissuta come una catastrofe, una frattura nel senso di continuità del sé.

Frequentemente il paziente, per proteggersi da una realtà troppo dolorosa, può mettere in atto meccanismi difensivi quali: la negazione, la proiezione e la scissione che lo aiutano ad affrontare una cruda realtà.

E‟ importante, in questa fase, rispettare i tempi del paziente, non forzarlo ad esprimere i propri stati d‟animo.

In certi casi la reazione diventa così patologica che la persona comincia a comportarsi e a viversi come se fosse “già morta.”

Nella fase di reazione, la realtà si impone attraverso le procedure mediche, ma l‟impatto con questa realtà genera angoscia, rabbia, disperazione; si mettono allora in atto meccanismi di difesa reattivi: c‟è chi dice di non essersi mai sentito così bene (difesa maniacale), chi regredisce a comportamenti infantili (regressione), chi attribuisce la causa della malattia ad altri, diventando aggressivo (proiezioni) o totalmente indifferente (isolamento emotivo).

“Queste modalità di funzionamento psicologico hanno alti costi in termini di energie psichiche ed è possibile che il paziente si senta stanco e spossato. E‟

importante informarlo, quindi che tale situazione non dipende dalla sua incapacità di farcela, ma è ascrivibile al campo delle reazioni comprensibili di fronte ad un evento di vita così difficile.” (Biondi, Costantini, Grassi, 1995).

La fase di elaborazione inizia al termine del periodo attivo dei trattamenti; in alcuni casi i pazienti sembrano aver perso ogni tipo di progettualità, in altri casi i malati si interrogano sulle scelte fatte nel passato e sui propositi mai realizzati.

L‟ultima fase è quella del riorientamento, successiva ad ogni check-up di controllo; si ripropongono, a questo punto, tutte le problematiche esistenziali esposte precedentemente.

Le conseguenze psicologiche di questo percorso possono essere pesanti da sostenere e da elaborare, quindi può essere richiesto, dal paziente e dai famigliari, un sostegno psicologico.

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1.3.4 I meccanismi di difesa: un adattamento inconscio alla malattia

“Non si esce mai indenni da queste incursioni nel cuore della sofferenza degli altri.” (M. de Hennezel)

In seguito alla diagnosi di una malattia grave come il cancro la psiche del paziente reagisce mettendo in atto alcuni meccanismi di difesa che si esprimono in atteggiamenti tipici.

La loro conoscenza evita il disorientamento delle persone che si occupano di lui; si tratta di difese psicologiche che consentono all‟ammalato di entrare a poco a poco nella nuova realtà, per meglio adattarsi e organizzarsi.

L‟empatia rappresenta un valido strumento che può permettere di accostarsi alla persona sofferente mettendosi nei panni dell‟altro.

Queste difese servono a salvaguardare gli equilibri psicologici della persona ammalata, riporteremo le più comuni e significative.

La negazione consiste nell‟esclusione dal pensiero di un problema o di una situazione intollerabile; è raro che il paziente rifiuti totalmente di riconoscere la realtà della sua condizione di malato di cancro, come accade per gli psicotici;

talvolta, però, egli preferisce non parlarne o non affrontare direttamente la situazione.

Questi meccanismi sono fenomeni inconsci, più o meno forti, a seconda dell‟intensità delle emozioni provate; nella maggior parte dei casi permettono al paziente di “accusare il colpo”, di mobilizzare delle risorse intrapsichiche e di preparare altre strategie per affrontare la malattia.

La proiezione allevia le angosci, i sensi di colpa, l‟aggressività, attribuendo ad una persona o ad una causa esterna l‟origine di ciò che non va.

In questo modo, il paziente riesce a mantenere intatta l‟immagine di sé, spostando la responsabilità su un altro bersaglio.

Le razionalizzazioni sono, invece, utili a dare un senso alla malattia; forniscono una risposta alla questione del: “Perché proprio a me?” e possono permettere di sedare i sensi di colpa legati alle varie credenze sulle possibili cause del cancro.

La spiegazione più diffusa, infatti, attribuisce le cause del cancro a elementi quali: le condizioni di vita, l‟alimentazione, la radioattività.

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Questo meccanismo di difesa non consiste tanto in un rifiuto della malattia, ma fornisce l‟occasione di sviluppare delle strategie di adattamento e dei valori che possono rinforzare la speranza e l‟affermazione di sé stessi.

La razionalizzazione può prendere la forma di una domanda di collaborazione attiva ai trattamenti ed esprimersi attraverso il desiderio di sapere tutto sulla malattia.

La regressione è un ritorno, sul piano emotivo, a fasi antecedenti; il malato torna indietro nel tempo, fino a stadi infantili, quando si poteva fare affidamento sulla mamma sempre presente.

Il malato diventa esigente e si attende, da chi entra in relazione con lui, un atteggiamento protettivo; il paziente può comportarsi col medico e con l‟infermiera come se fossero i suoi genitori, viceversa gli operatori possono sviluppare verso il malato atteggiamenti paterni e materni.

Lo spostamento, infine, permette al paziente di rivolgere l‟attenzione emotiva a situazioni non apparentemente collegate alla malattia che diventano il centro del suo interesse.

L‟adattamento al cancro richiede che vengano utilizzate risorse e possibilità diverse, che corrispondono alle differenti tappe dell‟evoluzione della malattia;

sottoposto ad uno stress, il paziente, tenterà di modificare il suo comportamento in funzione della sua personalità e della sua esperienza, utilizzando la strategia di adattamento che più di altre gli permetterà di padroneggiare la situazione.

I meccanismi di difesa, in una persona sana, vanno individuati e trattati adeguatamente per consentire l‟evoluzione personale; negli ammalati, soprattutto quelli gravi, vanno riconosciuti e spesso accettati.

Anche se il paziente rivela una visione errata della realtà, va riconosciuto il suo intento difensivo per mantenere l‟equilibrio e la stabilità e per affrontare la malattia e gli interventi.

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1.3.5 La famiglia del malato terminale

“Verso la fine della vita avviene che, come verso la fine di un ballo mascherato, tutti si tolgono la maschera. Allora si vede chi erano veramente coloro coi quali si è venuti in contatto durante la vita.” (A. Schopenhauer)

“La diagnosi di cancro in un individuo fino a quel momento sano, il successivo percorso drammatico costituito da interventi medici e chirurgici, la possibile ripresa della malattia coinvolgono non solo il paziente, ma l‟intera famiglia. Al pari del soggetto colpito da cancro, infatti, l‟intera famiglia viene investita in maniera massiccia dagli eventi legati alla malattia, con ripercussioni notevoli sulle relazioni fra i membri e, in generale, sull‟equilibrio della struttura famigliare”

(Biondi, Costantini, Grassi 1995).

La famiglia non è semplicemente la somma degli individui che la compongono, ma un organismo con un funzionamento proprio e particolare, tanto da poter essere definire come una “creatura” che funziona come se fosse un corpo unico, le cui parti risentono di ciò che succede alle altre.

Ogni famiglia, poiché è un insieme unitario, è dotata di una sua omeostasi; la conseguenza di tutto ciò è che ogni cambiamento al suo interno ne minaccia l‟equilibrio. La salute della famiglia è quindi rappresentata dalla flessibilità, cioè dalla sua capacità di adattarsi al cambiamento.

La malattia grave di un congiunto rappresenta una di queste minacce.

I cambiamenti più importanti, in questo caso, sono legati al passaggio dall‟indipendenza alla dipendenza (il malato diventa dipendente), allo sconvolgimento delle regole, del funzionamento e dei ritmi della vita quotidiana, alle possibili difficoltà economiche indotte dalla malattia ed, infine, alla perdita del ruolo sociale del paziente.

Nel tentativo di mantenere l‟omeostasi, la famiglia cerca di adattarsi alla malattia, seguendo un processo che implica l‟attraversamento di fasi talvolta parallele a quelle vissute dal paziente stesso.

Si inizia con una fase di shock in cui un‟angoscia paralizzante blocca i meccanismi di difesa: i sentimenti predominanti sono l‟incredulità, la solitudine, l‟incapacità di programmare.

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In questa fase la famiglia ha bisogno di supporto per elaborare questi sentimenti e prendere contatto con la realtà.

Il passaggio avviene da un primo momento di rifiuto, ad uno, successivo, di disperazione e, infine, alla rielaborazione, in cui le caratteristiche della famiglia emergono come fondamentali per il proseguimento del supporto.

La seconda fase è definita di accettazione: le difficoltà possono essere affrontate e superate, c‟è collaborazione sia con lo staff medico sia con il congiunto (vicinanza).

Segue, però, la fase di negazione che inizia con l‟interruzione del trattamento e con la conseguente collusione con il malato a proposito della negazione della malattia e sulle ipotesi di nuove cure.

L‟ultima fase è quella del lutto che si presenta con sentimenti di rabbia verso l‟esterno e di ansia e sfiducia verso il futuro.

Questo stadio è spesso anticipatorio verso la morte effettiva, continua dopo i trattamenti palliativi e può durare anche parecchi mesi dopo la morte del congiunto.

Anche per la famiglia vale quanto in precedenza considerato: le reazioni assumono caratteristiche diverse secondo variabili specifiche del nucleo famigliare (stadio di sviluppo, organizzazione, storia, aspetti culturali, religiosi e supporto sociale).

Osservando come i componenti famigliari interagiscono tra loro, nella situazione di malattia, ci troveremo di fronte a diversi stili relazionali: le famiglie

“distaccate”, le famiglie “invischiate” e le famiglie a “funzionamento flessibile”.

Nel primo caso si tratta di nuclei con estrema rigidità dei ruoli e individualizzazione esasperata; nel secondo mancano i confini generazionali, i ruoli sono confusi, c‟è scarsa autonomia causata dall‟ipercoinvolgimento e dalla iperprotezione, ma ci sono barriere rigide verso l‟esterno.

L‟ultimo tipo di famiglia ha, invece, un funzionamento ottimale ai fini dell‟adattamento: c‟è coesione, espressione delle proprie emozioni, assenza di conflitti importanti e buon supporto sociale.

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Vi sono, infine, famiglie in cui non è possibile un‟azione di adattamento e non vi è possibilità di mettere in atto nessuna strategia di coping, in questo caso esiste un forte rischio di dissoluzione e disgregazione.

L‟impatto della malattia sulla coppia, più di ogni altro sistema famigliare, crea degli effetti amplificati. Nella coppia con maggiori capacità di vivere la vicinanza, la comunicazione migliora, poiché il coniuge sano manifesterà il suo sostegno con un maggiore apporto di calore.

Esisterà la capacità di esprimere i propri sentimenti, di affrontare insieme le difficoltà e lo scambio comunicativo diverrà più ricco. Il sociale sarà presente attraverso le figure di parenti, amici, strutture sanitarie e associazioni di volontariato.

Nella coppia meno dotata di capacità di dialogo vi sarà, invece, la tendenza a non parlare della malattia, a negare, ad escludere un supporto sociale, ghettizzando, in questo modo, la persona malata.

Per quanto riguarda i figli, la convinzione più diffusa è che debbano essere protetti e quindi estromessi da una situazione di malattia grave; in questo modo, però, essi non rimangono estranei alla situazione, ma reagiscono emotivamente con insonnia, aggressività, disturbi dell‟alimentazione e del rendimento scolastico.

La malattia finisce con il generare in tutti ripercussioni psicologiche simili.

Non è possibile, quindi, parlare di aiuto al paziente in fase terminale senza occuparsi contemporaneamente di un aiuto alla sua famiglia.

La famiglia ha bisogno di avere un dialogo aperto con i medici e, più in generale, con tutti gli operatori sanitari che gravitano attorno al paziente: le informazioni sulla malattia e sulla sua evoluzione devono essere, perciò, sempre chiare e precise.

Ciò permette di ridurre le ansie o le angosce dei famigliari nei confronti del futuro, oltre a rinsaldare la sensazione di essere appoggiati dal medico e di poter contare sulla sua comprensione.

Spesso i famigliari, poiché sono oppressi dal dolore per la perdita sicura, anche se non immediata, del loro caro, non riescono a recepire e ricordare tutte le informazioni che vengono loro date sin dalla prima volta che il medico li incontra;

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può accadere, quindi, che il famigliare ponga anche diverse volte i medesimi quesiti e desideri riparlare di argomenti già affrontati.

Avere un canale di comunicazione con i medici costantemente aperto, limita considerevolmente le possibilità che la famiglia si senta sola, abbandonata e ceda alla disperazione; una famiglia non disperata e che si sente appoggiata riesce a comprendere bene la differenza tra “fare tutto quanto è umanamente possibile” ed agire con “accanimento terapeutico.”

Di conseguenza le scelte terapeutiche vengono operate in armonia con il volere del paziente e si riesce a distinguere tra una ragionevole proposta di cura e trattamenti empirici suggeriti e forniti da persone non affidabili.

Quando la malattia è in fase avanzata ed i segni della morte sono sempre più evidenti, sia nel fisico sia nella psiche del paziente, la famiglia subisce dei processi adattativi; in queste dinamiche si possono rintracciare tre “tipi” di famiglie, identificati dalla Selmi: famiglia come super-individuo, famiglia come sistema di relazione e famiglia come nucleo socio-culturale.

Nel primo gruppo la famiglia ha un‟identità simile, come dinamiche evolutive, a quella individuale, ma è un‟identità di gruppo particolare, perché formata dall‟integrazione di tante identità psichiche quanti sono gli elementi che la compongono.

Questo super-individuo tende ad una stabilità fondata sulla condivisione del gruppo di valori, aspettative, timori, problemi e soprattutto comportamenti, che definiscono i ruoli dei diversi membri; come l‟individuo, essa realizza la maturità attraverso la sua capacità di far tesoro dell‟esperienza e giungendo ad una reciprocità, solidarietà ed integrazione tali per cui essa si possa avvicinare sempre di più ad un unico individuo psicologico.

La morte mette in crisi l‟identità e la stabilità di questo tipo di famiglia, proprio come se il gruppo famigliare fosse un‟individualità, un soggetto confrontato con una perdita ed obbligato a ristrutturare la sua realtà.

E‟ la dimensione della collettività del sentimento di perdita che può facilitare l‟accettazione della separazione, tramite una coesione ulteriore ed un miglioramento delle relazioni individuali con il morente.

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Se nel gruppo esistono delle fratture più o meno latenti, l‟aggravarsi della malattia e la morte possono scatenare dei meccanismi fatali per l‟insieme, con serie ripercussioni sui singoli, che si ritrovano ad affrontare una perdita e lo sciogliersi di legami relazionali basati su equilibri fragili.

Se si parla, invece, di famiglia come sistema di relazioni, bisogna considerare la configurazione tipica di ogni famiglia; tale struttura è formata dalle relazioni esistenti fra i suoi componenti.

Importanti sono, infatti, le caratterizzazioni dei ruoli; in ogni gruppo esiste, di solito, un leader e chi, invece, è da lui “dipendente.”

In caso di malattia grave di un membro della famiglia, assistiamo a regressioni comportamentali e a cambiamenti di ruolo: si tratta di riadattamenti non sempre facili, perché dipendono dal ruolo ricoperto in precedenza dal paziente e da quanto la malattia e le sue vicissitudini di ospedalizzazioni, terapie e convalescenze si ripercuotono sulla sua psiche, sui suoi meccanismi di adattamento e sui comportamenti relazionali.

Tanto più difficile sarà poi la situazione se la famiglia, prima della malattia, era in uno stato di equilibrio solo apparente, perché nella decifrazione dei nuovi messaggi e modalità di comunicazione emergeranno i conflitti ed i rancori prima sopiti nella quotidianità.

Oggi nell‟ambito socio-culturale la famiglia “nucleare” si trova spesso sola, a volte isolata anche dal rapporto con famigliari lontani o non conviventi, che non trovano il giusto canale comunicativo; inoltre, da un punto di vista etnico, se si tratta di immigrati, spesso essi risultano inseriti in una realtà culturale molto diversa, nella quale sono permesse e vietate determinate espressioni emotive piuttosto che altre.

Con la mobilità in diverse aree geografiche, spesso vengono a scontrarsi delle

“regole nuove” con dei bisogni e dei comportamenti legati alle radici; questa situazione costituisce un‟ulteriore penalizzazione in un processo già molto difficile quale quello di saper restare realmente vicini ad un morente, facendolo partecipare fino alla fine alla vita di famiglia, elemento sociale attivo e protagonista, non escluso come scomodo membro.

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Sandrin (1995), in una sua opera relativa ai risvolti della malattia nel tessuto famigliare, evidenzia quattro fondamentali modelli di relazione: lineare, circolare, sistemico, narrativo.

Nel modello lineare la malattia suscita reazioni emotive e comportamentali di negazione, sfiducia, aggressività e autoisolamento: attraverso il malato, tutta la famiglia è interessata alla malattia.

Nel tipo circolare le reazioni del malato e della famiglia si “contagiano”

vicendevolmente, creando o fenomeni di iperprotezione o tentativi di rimozione della malattia da parte del malato, che colpevolizza la famiglia per non essere stata in grado di proteggerlo adeguatamente.

Nel modello sistemico la malattia rompe l‟equilibrio del sistema famigliare minacciandone la stabilità. All‟interno di questo modello il malato, considerato responsabile dell‟instabilità, rischia di essere emarginato e di dover vivere la sua condizione in totale solitudine.

Il tipo narrativo si realizza, invece, quando la malattia, protraendosi a lungo nel tempo, determina la “condivisione” del paziente in fase terminale con le strutture sanitarie. Questo fa sì che il malato venga affidato, se non ceduto, a chi lo cura, determinando, così, la sua esclusione dal contesto famigliare.

Per i famigliari la malattia inguaribile e mortale costituisce una dura prova esistenziale; al dramma della sofferenza e della perdita di una persona si aggiungono, infatti, molteplici problemi che si radicalizzano, sovrapponendosi ed intrecciandosi gli uni con gli altri e che, per lo più, trovano i famigliari impreparati ad affrontarli.

I problemi che insorgono si possono suddividere secondo tre ordini: affettivi e personali, comunicativi, organizzativi e di gestione.

La famiglia può sentirsi emotivamente e culturalmente impreparata ad affrontare la morte e la paura di una vita che finisce, senza contare che, dal punto di vista tecnico, non sempre si è in grado di far fronte alle necessità del paziente.

Vi possono essere, inoltre, ad aggravare la situazione difficoltà sociali come la mancanza di spazi adeguati e la scarsità di risorse socio-economiche; la crisi della morte diventa allora un problema per il morente e per i suoi cari, modificando la base del loro rapporto.

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