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3. L’ÉQUIPE MULTIDISCIPLINARE

3.5 Altre figure

“Vivere per gli altri non è soltanto la legge del dovere, è anche la legge della felicità.” (A. Comte)

3.5.1 Il terapista della riabilitazione

Questo operatore sanitario si occupa del recupero funzionale nelle alterazioni neuromotorie di qualsiasi origine ed in qualsiasi fascia d‟età, utilizza tutte le tecniche di chinesiterapia e del massaggio, gli agenti fisici, le apparecchiature e le protesi al fine di prevenire le disabilità, di favorire il maggior utilizzo delle potenzialità psicofisiche della persona e di perseguirne l‟autonomia e l‟inserimento sociale.

In campo oncologico, l‟interesse riabilitativo inizia ad avere un seguito da circa venti anni; prima era difficile, infatti poter valutare i danni a distanza sul paziente e preparare un protocollo d‟intervento specifico, non bisogna dimenticare che la sopravvivenza era minore rispetto a oggi.

Il paziente terminale ha particolarmente bisogno di una valida assistenza

“riabilitativa”, perché proprio in questo momento alla patologia di base si aggiungono tutti i problemi dovuti alla forzosa inattività.

Se si riesce a far star meglio fisicamente il paziente si potrà, infatti, anche ottenere la sua fiducia e la disponibilità a collaborare ed a volte scoprire delle potenzialità nascoste, che potrebbero renderlo indipendente e padrone del suo spazio.

La riabilitazione si adatta sempre a quelle che sono le esigenze momentanee del paziente, non può rimanere legata a rigidi protocolli di trattamento; deve, quindi, porre attenzione alla singola problematica della persona, intervenendo per attuare anche terapie per i disturbi del linguaggio, così frequenti nei casi di tumore cerebrale, oppure con l‟utilizzo di ausili per migliorare la permanenza a letto, gli spostamenti o l‟abitazione.

Colmi parla di “riabilitare accompagnando” perché all‟attuazione delle svariate tecniche si affianca sempre la loro umanizzazione: “E' un essere con, un essere lì, una presenza calda vicino all‟essere umano, una tale aderenza all‟altro da non lasciare spazio alla paura e al dubbio” (Convegno “Perché le cure palliative?, 7-10-2000).

3.5.2 L’assistente spirituale

Come già segnalato, fu religiosa l‟origine degli hospice inglesi (“Saint Joseph”,

“Saint Luke‟s Home for Dying Poor”); nell‟importante l‟approccio globale che caratterizza l‟assistenza in queste istituzioni tale figura ha sempre giocato un ruolo molto importante: la persona del malato è curata in tutte le dimensioni del suo essere compresa quella spirituale e religiosa.

In Italia la mancata utilizzazione dell‟operatore pastorale nell‟équipe permette di riflettere con serietà sul ruolo che essa può, invece, giocare nel sostegno al malato in fase terminale.

L‟assistente spirituale, infatti, è chiamato a svolgere il suo compito in una molteplicità di rapporti che coinvolge tutti gli operatori dell‟assistenza al morente:

il personale, i malati, la famiglia e la comunità.

Nei confronti degli operatori può offrire una varietà di contributi quali: aiutarli a mostrarsi sensibili ai bisogni spirituali dei pazienti e costituire un prezioso apporto alla discussione dei problemi etici.

“Il cappellano non deve imporsi, né imporre le proprie idee, i propri sentimenti, le proprie soluzioni. Il paziente deve sentire che il cappellano, benché sia pronto ad aiutarlo ad esaminare altre alternative, accetta la sua maniera di affrontare la morte” (Di Mola, 1993).

Egli interviene, dunque, sui bisogni spirituali del paziente, risponde, per quanto possibile, alle sue domande sull‟aldilà, alle sue preoccupazioni per la vita che sta lasciando e per quella che inizierà.

La fede è molte volte indispensabile al paziente e alla famiglia: il sapere che la vita, in qualche modo, continua ha un potere rasserenante per chi si prepara per l‟ultimo viaggio.

Questa figura professionale, finora non particolarmente valorizzata, può trovare, nella filosofia che anima le cure palliative, lo stimolo a rendere più creativa ed efficace la sua azione proprio nell‟assistenza ai morenti.

3.6 Conclusioni

“Non piangere quando il sole tramonta, le lacrime ti impedirebbero di vedere le stelle.” (R. Tagore)

L‟intervento di un‟équipe di assistenza in una situazione di malattia in fase terminale si configura come un compito particolarmente impegnativo, poiché si trova a dover affrontare difficoltà di varia natura, esasperate dal particolare momento che il malato e la famiglia stanno attraversando.

Ma l‟équipe è uno strumento fondamentale proprio perché vuole farsi carico della complessità del paziente stesso, cercando di affrontare le esigenze che vengono poste dagli utenti.

Essa rappresenta una modalità innovativa nella pratica dell‟assistenza sanitaria, poiché richiede mezzi, competenze, fatica non indifferenti e soprattutto perché presuppone un rapporto di coinvolgimento personale e una forte motivazione.

Se gestito in modo ottimale, l‟intervento di équipe ha una notevole possibilità di impatto positivo sulla storia famigliare.

Al di là delle sofferenze, infatti, è possibile che essi sperimentino un rapporto sereno anche nei confronti della morte che, pur rimanendo un‟esperienza sofferta, non diviene necessariamente tragica:

“C’è un momento nella vita del malato, in cui cessano i dolori, la mente scivola in uno stato senza sogni, il bisogno di cibo diviene minimo e la coscienza dell’ambiente circostante svanisce nell’oscurità. Questo è il momento in cui i parenti camminano su e giù per i corridoi dell’ospedale, nella tortura dell’attesa, senza sapere se andar via per occuparsi dei vivi o star lì ad aspettare il momento della morte. Questo è il tempo in cui è troppo tardi per le parole, ma è il tempo in cui i parenti invocano maggiormente aiuto, con o senza le parole.

E’ troppo tardi per interventi medici, ma è troppo presto per separarsi totalmente dal morente.

E’ il momento più difficile per il parente più prossimo poiché o egli desidera andar via per farla finita, o si attacca disperatamente a qualcosa che è in procinto di perdere per sempre. E’ il momento della terapia del silenzio con il malato e della disponibilità verso i parenti.

Il medico, l’infermiera, l’assistente sociale o il cappellano possono essere di grande aiuto durante quest’ultimo periodo, cercando di capire i conflitti della famiglia in questo momento e aiutando a scegliere la persona adatta, che si senta di stare con il malato in fin di vita. Allora questa persona diviene realmente la terapista del malato. Possiamo aiutare quelli che non si sentono di stare col malato, sollevandoli dal senso di colpa e rassicurandoli che qualcuno starà con il morente finché sopraggiungerà la morte. Allora potranno tornare a casa sapendo che il malato non è morto solo, e quindi

senza sentimenti di colpa o di vergogna per aver evitato quel momento, che per molte persone è così difficile da affrontare.

Coloro che hanno la forza e l’amore di sedersi con un malato in fin di vita nel silenzio che va oltre le parole saprà che questo momento non è né spaventoso né penoso, ma è la tranquilla cessazione del funzionamento del corpo.

Osservare la morte tranquilla di un essere umano ricorda una stella cadente;

una dei milioni di luci di un vasto cielo, che splende improvvisamente per un breve momento, solo per sparire per sempre nella notte infinita. Essere terapisti di un malato in fin di vita ci dà coscienza dell’unicità di ogni individuo in questo vasto mare dell’umanità. Ci dà coscienza della nostra finitezza, della breve durata della nostra vita. Pochi di noi vivono più di settant’anni, eppure in quel breve tempo la maggior parte di noi crea e vive una biografia unica e tesse il suo pezzo di storia umana” (Kübler Ross, 1992).

PARTE SECONDA