• Non ci sono risultati.

1.3. A chi sono rivolte

1.3.5 La famiglia del malato terminale

“Verso la fine della vita avviene che, come verso la fine di un ballo mascherato, tutti si tolgono la maschera. Allora si vede chi erano veramente coloro coi quali si è venuti in contatto durante la vita.” (A. Schopenhauer)

“La diagnosi di cancro in un individuo fino a quel momento sano, il successivo percorso drammatico costituito da interventi medici e chirurgici, la possibile ripresa della malattia coinvolgono non solo il paziente, ma l‟intera famiglia. Al pari del soggetto colpito da cancro, infatti, l‟intera famiglia viene investita in maniera massiccia dagli eventi legati alla malattia, con ripercussioni notevoli sulle relazioni fra i membri e, in generale, sull‟equilibrio della struttura famigliare”

(Biondi, Costantini, Grassi 1995).

La famiglia non è semplicemente la somma degli individui che la compongono, ma un organismo con un funzionamento proprio e particolare, tanto da poter essere definire come una “creatura” che funziona come se fosse un corpo unico, le cui parti risentono di ciò che succede alle altre.

Ogni famiglia, poiché è un insieme unitario, è dotata di una sua omeostasi; la conseguenza di tutto ciò è che ogni cambiamento al suo interno ne minaccia l‟equilibrio. La salute della famiglia è quindi rappresentata dalla flessibilità, cioè dalla sua capacità di adattarsi al cambiamento.

La malattia grave di un congiunto rappresenta una di queste minacce.

I cambiamenti più importanti, in questo caso, sono legati al passaggio dall‟indipendenza alla dipendenza (il malato diventa dipendente), allo sconvolgimento delle regole, del funzionamento e dei ritmi della vita quotidiana, alle possibili difficoltà economiche indotte dalla malattia ed, infine, alla perdita del ruolo sociale del paziente.

Nel tentativo di mantenere l‟omeostasi, la famiglia cerca di adattarsi alla malattia, seguendo un processo che implica l‟attraversamento di fasi talvolta parallele a quelle vissute dal paziente stesso.

Si inizia con una fase di shock in cui un‟angoscia paralizzante blocca i meccanismi di difesa: i sentimenti predominanti sono l‟incredulità, la solitudine, l‟incapacità di programmare.

In questa fase la famiglia ha bisogno di supporto per elaborare questi sentimenti e prendere contatto con la realtà.

Il passaggio avviene da un primo momento di rifiuto, ad uno, successivo, di disperazione e, infine, alla rielaborazione, in cui le caratteristiche della famiglia emergono come fondamentali per il proseguimento del supporto.

La seconda fase è definita di accettazione: le difficoltà possono essere affrontate e superate, c‟è collaborazione sia con lo staff medico sia con il congiunto (vicinanza).

Segue, però, la fase di negazione che inizia con l‟interruzione del trattamento e con la conseguente collusione con il malato a proposito della negazione della malattia e sulle ipotesi di nuove cure.

L‟ultima fase è quella del lutto che si presenta con sentimenti di rabbia verso l‟esterno e di ansia e sfiducia verso il futuro.

Questo stadio è spesso anticipatorio verso la morte effettiva, continua dopo i trattamenti palliativi e può durare anche parecchi mesi dopo la morte del congiunto.

Anche per la famiglia vale quanto in precedenza considerato: le reazioni assumono caratteristiche diverse secondo variabili specifiche del nucleo famigliare (stadio di sviluppo, organizzazione, storia, aspetti culturali, religiosi e supporto sociale).

Osservando come i componenti famigliari interagiscono tra loro, nella situazione di malattia, ci troveremo di fronte a diversi stili relazionali: le famiglie

“distaccate”, le famiglie “invischiate” e le famiglie a “funzionamento flessibile”.

Nel primo caso si tratta di nuclei con estrema rigidità dei ruoli e individualizzazione esasperata; nel secondo mancano i confini generazionali, i ruoli sono confusi, c‟è scarsa autonomia causata dall‟ipercoinvolgimento e dalla iperprotezione, ma ci sono barriere rigide verso l‟esterno.

L‟ultimo tipo di famiglia ha, invece, un funzionamento ottimale ai fini dell‟adattamento: c‟è coesione, espressione delle proprie emozioni, assenza di conflitti importanti e buon supporto sociale.

Vi sono, infine, famiglie in cui non è possibile un‟azione di adattamento e non vi è possibilità di mettere in atto nessuna strategia di coping, in questo caso esiste un forte rischio di dissoluzione e disgregazione.

L‟impatto della malattia sulla coppia, più di ogni altro sistema famigliare, crea degli effetti amplificati. Nella coppia con maggiori capacità di vivere la vicinanza, la comunicazione migliora, poiché il coniuge sano manifesterà il suo sostegno con un maggiore apporto di calore.

Esisterà la capacità di esprimere i propri sentimenti, di affrontare insieme le difficoltà e lo scambio comunicativo diverrà più ricco. Il sociale sarà presente attraverso le figure di parenti, amici, strutture sanitarie e associazioni di volontariato.

Nella coppia meno dotata di capacità di dialogo vi sarà, invece, la tendenza a non parlare della malattia, a negare, ad escludere un supporto sociale, ghettizzando, in questo modo, la persona malata.

Per quanto riguarda i figli, la convinzione più diffusa è che debbano essere protetti e quindi estromessi da una situazione di malattia grave; in questo modo, però, essi non rimangono estranei alla situazione, ma reagiscono emotivamente con insonnia, aggressività, disturbi dell‟alimentazione e del rendimento scolastico.

La malattia finisce con il generare in tutti ripercussioni psicologiche simili.

Non è possibile, quindi, parlare di aiuto al paziente in fase terminale senza occuparsi contemporaneamente di un aiuto alla sua famiglia.

La famiglia ha bisogno di avere un dialogo aperto con i medici e, più in generale, con tutti gli operatori sanitari che gravitano attorno al paziente: le informazioni sulla malattia e sulla sua evoluzione devono essere, perciò, sempre chiare e precise.

Ciò permette di ridurre le ansie o le angosce dei famigliari nei confronti del futuro, oltre a rinsaldare la sensazione di essere appoggiati dal medico e di poter contare sulla sua comprensione.

Spesso i famigliari, poiché sono oppressi dal dolore per la perdita sicura, anche se non immediata, del loro caro, non riescono a recepire e ricordare tutte le informazioni che vengono loro date sin dalla prima volta che il medico li incontra;

può accadere, quindi, che il famigliare ponga anche diverse volte i medesimi quesiti e desideri riparlare di argomenti già affrontati.

Avere un canale di comunicazione con i medici costantemente aperto, limita considerevolmente le possibilità che la famiglia si senta sola, abbandonata e ceda alla disperazione; una famiglia non disperata e che si sente appoggiata riesce a comprendere bene la differenza tra “fare tutto quanto è umanamente possibile” ed agire con “accanimento terapeutico.”

Di conseguenza le scelte terapeutiche vengono operate in armonia con il volere del paziente e si riesce a distinguere tra una ragionevole proposta di cura e trattamenti empirici suggeriti e forniti da persone non affidabili.

Quando la malattia è in fase avanzata ed i segni della morte sono sempre più evidenti, sia nel fisico sia nella psiche del paziente, la famiglia subisce dei processi adattativi; in queste dinamiche si possono rintracciare tre “tipi” di famiglie, identificati dalla Selmi: famiglia come super-individuo, famiglia come sistema di relazione e famiglia come nucleo socio-culturale.

Nel primo gruppo la famiglia ha un‟identità simile, come dinamiche evolutive, a quella individuale, ma è un‟identità di gruppo particolare, perché formata dall‟integrazione di tante identità psichiche quanti sono gli elementi che la compongono.

Questo super-individuo tende ad una stabilità fondata sulla condivisione del gruppo di valori, aspettative, timori, problemi e soprattutto comportamenti, che definiscono i ruoli dei diversi membri; come l‟individuo, essa realizza la maturità attraverso la sua capacità di far tesoro dell‟esperienza e giungendo ad una reciprocità, solidarietà ed integrazione tali per cui essa si possa avvicinare sempre di più ad un unico individuo psicologico.

La morte mette in crisi l‟identità e la stabilità di questo tipo di famiglia, proprio come se il gruppo famigliare fosse un‟individualità, un soggetto confrontato con una perdita ed obbligato a ristrutturare la sua realtà.

E‟ la dimensione della collettività del sentimento di perdita che può facilitare l‟accettazione della separazione, tramite una coesione ulteriore ed un miglioramento delle relazioni individuali con il morente.

Se nel gruppo esistono delle fratture più o meno latenti, l‟aggravarsi della malattia e la morte possono scatenare dei meccanismi fatali per l‟insieme, con serie ripercussioni sui singoli, che si ritrovano ad affrontare una perdita e lo sciogliersi di legami relazionali basati su equilibri fragili.

Se si parla, invece, di famiglia come sistema di relazioni, bisogna considerare la configurazione tipica di ogni famiglia; tale struttura è formata dalle relazioni esistenti fra i suoi componenti.

Importanti sono, infatti, le caratterizzazioni dei ruoli; in ogni gruppo esiste, di solito, un leader e chi, invece, è da lui “dipendente.”

In caso di malattia grave di un membro della famiglia, assistiamo a regressioni comportamentali e a cambiamenti di ruolo: si tratta di riadattamenti non sempre facili, perché dipendono dal ruolo ricoperto in precedenza dal paziente e da quanto la malattia e le sue vicissitudini di ospedalizzazioni, terapie e convalescenze si ripercuotono sulla sua psiche, sui suoi meccanismi di adattamento e sui comportamenti relazionali.

Tanto più difficile sarà poi la situazione se la famiglia, prima della malattia, era in uno stato di equilibrio solo apparente, perché nella decifrazione dei nuovi messaggi e modalità di comunicazione emergeranno i conflitti ed i rancori prima sopiti nella quotidianità.

Oggi nell‟ambito socio-culturale la famiglia “nucleare” si trova spesso sola, a volte isolata anche dal rapporto con famigliari lontani o non conviventi, che non trovano il giusto canale comunicativo; inoltre, da un punto di vista etnico, se si tratta di immigrati, spesso essi risultano inseriti in una realtà culturale molto diversa, nella quale sono permesse e vietate determinate espressioni emotive piuttosto che altre.

Con la mobilità in diverse aree geografiche, spesso vengono a scontrarsi delle

“regole nuove” con dei bisogni e dei comportamenti legati alle radici; questa situazione costituisce un‟ulteriore penalizzazione in un processo già molto difficile quale quello di saper restare realmente vicini ad un morente, facendolo partecipare fino alla fine alla vita di famiglia, elemento sociale attivo e protagonista, non escluso come scomodo membro.

Sandrin (1995), in una sua opera relativa ai risvolti della malattia nel tessuto famigliare, evidenzia quattro fondamentali modelli di relazione: lineare, circolare, sistemico, narrativo.

Nel modello lineare la malattia suscita reazioni emotive e comportamentali di negazione, sfiducia, aggressività e autoisolamento: attraverso il malato, tutta la famiglia è interessata alla malattia.

Nel tipo circolare le reazioni del malato e della famiglia si “contagiano”

vicendevolmente, creando o fenomeni di iperprotezione o tentativi di rimozione della malattia da parte del malato, che colpevolizza la famiglia per non essere stata in grado di proteggerlo adeguatamente.

Nel modello sistemico la malattia rompe l‟equilibrio del sistema famigliare minacciandone la stabilità. All‟interno di questo modello il malato, considerato responsabile dell‟instabilità, rischia di essere emarginato e di dover vivere la sua condizione in totale solitudine.

Il tipo narrativo si realizza, invece, quando la malattia, protraendosi a lungo nel tempo, determina la “condivisione” del paziente in fase terminale con le strutture sanitarie. Questo fa sì che il malato venga affidato, se non ceduto, a chi lo cura, determinando, così, la sua esclusione dal contesto famigliare.

Per i famigliari la malattia inguaribile e mortale costituisce una dura prova esistenziale; al dramma della sofferenza e della perdita di una persona si aggiungono, infatti, molteplici problemi che si radicalizzano, sovrapponendosi ed intrecciandosi gli uni con gli altri e che, per lo più, trovano i famigliari impreparati ad affrontarli.

I problemi che insorgono si possono suddividere secondo tre ordini: affettivi e personali, comunicativi, organizzativi e di gestione.

La famiglia può sentirsi emotivamente e culturalmente impreparata ad affrontare la morte e la paura di una vita che finisce, senza contare che, dal punto di vista tecnico, non sempre si è in grado di far fronte alle necessità del paziente.

Vi possono essere, inoltre, ad aggravare la situazione difficoltà sociali come la mancanza di spazi adeguati e la scarsità di risorse socio-economiche; la crisi della morte diventa allora un problema per il morente e per i suoi cari, modificando la base del loro rapporto.

In senso più generale le famiglie soffrono, come la persona morente, per problemi di comunicazione associati alla paura della morte; questo momento può essere vissuto, infatti, dai famigliari in modi non coincidenti con gli atteggiamenti del malato; può instaurarsi un atteggiamento di rassegnazione ed accettazione di quanto sta per avvenire, come un irrazionale rifiuto dell‟evidenza dei fatti.

Nella fase terminale della malattia si verifica una specie di lutto anticipatorio, un momento emotivamente importante in cui la famiglia si confronta con l‟imminenza della perdita; il lutto vero e proprio, invece, interessa l‟intera vita delle persone, poiché essa viene sconvolta a livello emozionale, cognitivo, somatico, comportamentale e relazionale.

Il “lavoro del lutto”, un processo che in genere copre un arco compreso tra gli otto e i dodici mesi, è caratterizzato da varie reazioni che, dallo stordimento iniziale, arrivano fino all‟accettazione della situazione.

A livello spirituale, ad esempio, si diventa improvvisamente consapevoli della propria finitezza; crolla la propria illusione di immortalità, si mette in questione il ruolo di Dio e si rivedono i valori che hanno dominato la propria vita.