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2. UN CAMBIAMENTO DI PROSPETTIVA: DAL CURARE AL PRENDERSI CURA

2.3 Valutazioni etico-morali

2.3.1 Il tabù della morte

“Voi vorreste conoscere il segreto della morte. Ma come lo scoprirete, se non cercando nel cuore della vita.” (K. Gibran)

La morte è diventata uno dei più grandi tabù del nostro secolo; l‟uomo sembra non voler accettare il proprio limite e si nasconde dietro ai prodigiosi progressi della tecnica e della scienza.

E‟ interessante notare come nel corso dei tempi l‟immagine della morte non resti inalterata, ma subisca profonde modificazioni, tanto da essere definita come un fenomeno “dinamico.”

Nell‟epoca medioevale la morte veniva considerata, come la vita, un atto non individuale e quindi era legata ad un rituale collettivo.

La morte appare dunque “addomesticata” (Di Mola,1993), cioè non subita ciecamente.

A partire dall‟XI secolo, il significato del destino si sposta dalla collettività all‟individuo; nel desiderio di dare valore alla singola identità, si cerca allora di rendere più comune ciò che era prerogativa solo di una certa élite di letterati, ricchi e potenti: il cerimoniale.

Dal cinquecento fino alle soglie dell‟ottocento, nonostante i tentativi di razionalizzazione e il successivo intervento del razionalismo scientifico il senso della morte (così come quello dell‟amore) tende ad esprimersi e ad emergere con forza.

Il periodo successivo si può considerare agli inizi dell‟Ottocento e arriva quasi ai giorni nostri; in questo arco di tempo il senso di un comune destino (tutti moriremo) e della propria personale biografia (la propria morte) vengono sostituiti dall‟attenzione per una categoria più astratta: l‟essere umano.

La morte non è più familiare e addomesticata, ma nemmeno selvaggia: è una morte “romantica” e bella, come la natura e la sua immensità.

Attualmente si considera la morte come uno degli aspetti più vergognosi e ripugnanti dell‟esistenza, qualcosa che impaurisce; una possibile spiegazione ad un tale atteggiamento può risiedere nella constatazione che una società fondata su principi di salute, bellezza, giovinezza, felicità e ricchezza, non può comprendere

né tanto meno tollerare, l‟idea dell‟inevitabile deterioramento e fine delle cose e degli esseri umani.

Un‟altra possibile spiegazione è legata alla considerazione del sistema capitalistico, basato sulla mercificazione e sulla legge della domanda e dell‟offerta, per cui un individuo che cessa di essere produttivo e consumatore viene ad essere, immediatamente, escluso: malattia inguaribile e morte sarebbero i simboli di massima inefficienza da eliminare.

Un‟ulteriore responsabilità verrebbe attribuita alla nascita del pensiero

“positivista”: la morte dopo essere stata per secoli una realtà religiosa inviolabile, viene “secolarizzata” trasformandosi in un puro oggetto di ricerca scientifica.

Nel corso degli anni la morte è stata studiata da diversi punti di vista, che possono servire per abbozzare una definizione “multidisciplinare” dell‟evento morte.

Secondo la definizione fisico-biologica che può essere applicata a tutti gli esseri viventi, “non ci possono essere modi alternativi o modi nuovi di essere morti” (Cattolici, 1993). La morte è il cambiamento irreversibile dello stato dell‟organismo vivente nel suo complesso.

È possibile precisare la definizione utilizzando il concetto di morte cerebrale;

la Commissione Americana nell‟“Uniform determination of death act” del 1981 dichiara che l‟individuo è morto quando è irreversibilmente cessata la funzione cardiocircolatoria e respiratoria, oppure, nell‟insieme, le funzioni dell‟intero cervello, tronco compreso.

Secondo invece una definizione psicologico-affettiva, “morte” è la perdita della persona cara. Tale evento avrebbe inoltre una “… natura comunionale … quando sta male la persona umana come tale al punto che sta perdendo se stessa, stanno male anche coloro che vivono nella comunione con lei: anch‟essi perdono se stessi. L‟essere della persona è amore e l‟amore è in due” (Grygiel, 1994).

In base ad una definizione religioso-culturale, la morte, seppur concepita in modo profondamente diverso dai vari gruppi etnici e dalle diverse culture sociali, viene intesa come il termine di una vita solamente terrena o come prospettiva di una vita ultraterrena.

Il tema della morte rappresenta sicuramente uno degli aspetti più delicati perché riguarda una realtà universale che attraversa il passato, il presente e il futuro di ciascun vivente e si impone drammaticamente per la sua assoluta imprevedibilità e la sua possibilità di avvenire istantaneamente, in qualunque fase della vita.

Ordinariamente, oggi, se ne parla in modo indiretto o la si considera quando riferita ad altri mentre la propria, il più delle volte, viene negata.

Così avviene in una famosa leggenda riportata nel testo di Sandrin:

“Era un uomo di Isfahan. E una sera quest’uomo vide la Morte che lo aspettava seduta sulla soglia di casa: -Cosa vuoi da me?- gridò l’uomo. E la Morte: -Sono venuta a …- L’uomo non le lasciò completare la frase, saltò su un cavallo veloce e a briglia sciolta fuggì in direzione di Samarcanda.

Galoppò tre giorni e tre notti, senza fermarsi mai, e all’alba del terzo giorno giunse a Samarcanda. Qui, sicuro che la Morte avesse perso le sue tracce, scese da cavallo, e si mise in cerca di un alloggio. Ma quando entrò in camera trovò la Morte che lo aspettava seduta sul letto. La Morte si alzò, gli andò incontro e gli disse: - Sono felice che tu sia arrivato in tempo, temevo che ci perdessimo, che tu andassi da un’altra parte o che arrivassi in ritardo.

A Isfahan non mi lasciasti parlare. Ero venuta ad Isfahan per avvisarti che ti davo appuntamento all’alba del terzo giorno nella camera di quest’albergo, qui a Samarcanda.” (Sandrin, 1988)

La negazione è un importante meccanismo di difesa del nostro Io che, disturbato dalla consapevolezza di una certa realtà, cerca inconsciamente di dimenticarla per bloccare la tensione emotiva che ne deriverebbe.

E‟ il tentativo di non vedere, il rifiuto di accettare le cose come sono: “E‟ un fuggire a briglia sciolta, incapaci di controllare il cavallo da Isfahan verso Samarcanda” (Sandrin, 1988).

Di tale atteggiamento di negazione si possono considerare due aspetti rilevanti:

la rimozione e la spoliazione.

La prima è un tentativo più o meno cosciente di fuggire da ciò che ci crea disagio e ci fa soffrire, si esprime nella tendenza della società a far scomparire ogni riferimento all‟idea stessa della morte. Si tratta di: “Una grande rimozione

collettiva che rassicura gli appartenenti alla società, che tranquillizza i sogni e i miti di cui vengono nutriti” (Di Mola,1997).

Non si tratta, comunque, di una scoperta recente; già Freud, nel 1915, parlava di rimozione della morte: “Cancellare la morte, fare finta che non esista, non prenderne coscienza significa cancellare una parte della vita, significa non voler vivere fino in fondo” (Freud, 1915 citato in Di Mola,1997).

Perché anche la morte è un momento dell‟esistenza ed una sua rimozione “ci impoverisce.” La rimozione della morte nella nostra società non è solo culturale e psicologica, ma anche fisica, concreta; il luogo dove è confinata l‟agonia e la morte è l‟ospedale.

La seconda indica l‟eliminazione di tutti quei valori e sacralità di cui era dotata in passato, si esprime nella morte solitaria, perché le persone a contatto con il morente non sono in grado di confortarlo con la manifestazione del loro affetto e della loro tenerezza. Anticamente la visione della morte faceva parte dell‟esperienza quotidiana: i bambini vedevano morire i vecchi in casa, le piccole comunità umane partecipavano al lutto che le colpiva con effettivo coinvolgimento; la morte era un fatto sociale, non semplicemente privato.

Tale fenomeno di negazione della morte interessa non solo il malato, ma anche i familiari, gli amici e i vari operatori sanitari; la morte è il “personaggio” che, attraverso tanti silenzi e negazioni, si cerca molto spesso di evitare.

Nella malattia c‟è un rapporto tra quattro parti: tre materialmente percepibili (l‟operatore sanitario, il malato, i familiari) ed una latente (la morte) sovente rimossa, ma capace di promuovere comportamenti spesso strani ed incomprensibili.

Non accorgersi del malato terminale, renderlo come invisibile appare come un tentativo, da parte dell‟inconscio, di negare la morte e di tenere a distanza una grande paura.

Di fronte alla morte si possono notare, nel malato, un insieme di emozioni e reazioni comportamentali; secondo Elisabeth Kübler Ross, come già citato, tra le più comuni troviamo la negazione ed il rifiuto che, impedendo o frenando l‟emergere dell‟angoscia, permettono di ritrovare il coraggio e di mobilitare difese meno radicali.

Ma qual è la vera ragione dell‟occultamento della morte?

Fra le motivazioni molteplici, sicuramente una notevole rilevanza esercitano i fattori socio-culturali: nella nostra società sembra non esserci più posto per la morte, diventata un nuovo tabù.

Di fronte al morente emergono forti sentimenti di disagio e di imbarazzo; il malato è colui che non deve sapere, che recita la commedia di chi non sa che deve morire.

Il rifiuto della morte, nelle varie modalità, è spesso presente nei malati terminali; è un meccanismo, spesso inconscio, che aiuta il paziente a difendersi da un‟angoscia troppo grande da gestire e permette di trovare differenti modalità di coping, cioè di farvi fronte, a livello cosciente, nel cammino verso l‟accettazione.

Il morire è dato in gestione al medico ed alle istituzioni sanitarie: la morte sembra un fallimento, un incidente e viene pertanto ghettizzata in una stanza di ospedale.

A confrontarsi con la morte non è solo il malato, sono anche gli operatori sanitari, i familiari e gli amici più intimi.

Gli atteggiamenti che il malato sviluppa ed esprime in questa situazione sono, almeno in parte, condizionati dall‟immagine che chi gli sta ha della morte.

“Dobbiamo considerare molto seriamente il nostro atteggiamento verso la morte e il morire, prima di poter sedere tranquillamente e senza angoscia vicino ad un malato inguaribile.” (Kübler Ross, 1982)

E‟ compito specifico di un‟etica dell‟accompagnamento del malato terminale indicare le condizioni attraverso cui passa una morte “degna” dell‟uomo;

presupposto antropologico su cui si basano queste condizioni è la convinzione secondo cui il malato terminale non si riduce ad un residuo di vita per cui non c‟è più niente da fare, ma è invece una persona capace fino all‟ultimo, se posta in condizione di essere inserita in una relazione, di fare della propria vita un‟esperienza di crescita.

Accettare la morte significa accettare la vita, riconoscendone anche i limiti che la costituiscono: un atteggiamento psicologico che prende il nome di “umiltà”

(Sandrin, 1997).

Negli ultimi tempi si sta aprendo una nuova fase nell‟atteggiamento sociale nei confronti della morte: si sta passando cioè dalla strategia dell‟occultamento ad una spettacolarizzazione frutto dell‟incredibile sviluppo delle telecomunicazioni nelle società occidentali.

Ma la morte con cui ognuno di noi deve fare i conti resta, in realtà, un tabù insormontabile; non se ne parla, o si cerca di farlo il meno possibile, perché resta un argomento angoscioso.