2. UN CAMBIAMENTO DI PROSPETTIVA: DAL CURARE AL PRENDERSI CURA
2.2 La comunicazione con il paziente oncologico
“… conoscerete la verità e la verità vi farà liberi.”
(Giovanni, 8:32)
La comunicazione con il paziente neoplastico rappresenta per il medico il momento più delicato nel suo rapporto con il malato; per comunicazione intendiamo i vari momenti di incontro e di contatto col paziente e con i suoi familiari che implicano reazioni emotive differenti nei protagonisti coinvolti.
La patologia tumorale evoca nell‟immaginario collettivo dolore e sofferenza, ma soprattutto rappresenta una condanna a morte.
In Italia la tendenza è quella di riferire la diagnosi ai familiari e non direttamente al malato, sebbene il codice deontologico medico del 1995 sia molto chiaro: “Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste (…) devono essere fornite con circospezione, usando terminologie non traumatizzanti, senza escludere mai elementi di speranza” (Cod. Deontologico 1995 art. 29 IV comma).
L‟obbligo di informare trova comunque il suo limite nella volontà del paziente di rinunciare a conoscere la verità.
Nel nostro paese l‟approccio corrente rispetto al modello di interazione medico–paziente si colloca a metà tra la vecchia visione paternalistica e la nuova tendenza all‟autodeterminazione. Il modello paternalistico considera i pazienti non in grado di partecipare alle scelte terapeutiche, di cui l‟unico responsabile è il medico; nell‟ottica dell‟autodeterminazione, invece, il paziente partecipa attivamente alle scelte terapeutiche.
In verità è molto difficile fare un discorso generale; ogni situazione è diversa e ogni individuo ha una propria soggettività.
Le questioni in gioco sono molte e complesse: che cosa si può dire? Fino a che punto ci si può spingere? È meglio comunicare tutto e subito (all‟“americana”) o procedere per gradi?
La problematica è ampia e di non semplice soluzione, se si analizza la relazione medico, paziente e famiglia; molto spesso i familiari, infatti, non curandosi della volontà del malato, chiedono al medico di tacere la diagnosi, sperando di preservare il proprio congiunto da ulteriori sofferenze.
Esistono inoltre pazienti che non vogliono assolutamente essere informati sulla loro reale condizione: in questi casi il medico dovrà rispettare il diritto del malato a non voler conoscere la propria situazione.
Di volta in volta il medico dovrà valutare se la persona che ha di fronte è in grado di comprendere una diagnosi di patologia neoplastica (e in quale misura) e capire il grado di verità che può sopportare.
È impossibile non considerare che la percezione della malattia e la consapevolezza di dover morire dipendono da fattori quali il vissuto del paziente, le esperienze che ha fatto nel corso della propria vita, la realtà in cui è immerso.
La questione del dire o non dire la verità è spesso legata al fatto che la morte non è più considerata un evento naturale e la sua negazione genera sentimenti di ansia e di angoscia.
“Per il medico il momento della rivelazione diagnostica non può ridursi ad un semplice informare, ma diventa una comunicazione che lo coinvolge in un rapporto progressivo di conoscenza reciproca, di ascolto e scambio” (De Micheli, 2000).
Secondo E. Kübler Ross il vero problema di fronte alle malattie inguaribili non dovrebbe essere: “Lo dico o non lo dico al mio malato?” bensì: “Come posso condividere con il mio malato quanto so?”
“Molte volte il paziente mantiene una coscienza ambigua del proprio stato di malattia; ha un‟intima consapevolezza delle sue condizioni, rilevabile da allusioni che fa, o da sensazioni che riferisce, ma al tempo stesso vuole continuare a sperare e che lo si aiuti a farlo” (Calamandrei, Lampronti, Maciocco, 1981).
Aiutare il malato non significa ingannarlo, ma lasciare socchiusa una porta, una speranza nei progressi della scienza o nel fatto che non verrà lasciato da solo nei momenti più difficili.
2.2.1 Comunicazione verbale e non verbale
“Con un gesto, una parola, a volte con un solo sguardo tenterà di dire ciò che conta davvero e che non sempre ha potuto o saputo dire.” (M. de Hennezel)
Spesso non viene fatta alcuna distinzione tra il significato della parola
“informazione” e della parola “comunicazione”; l‟informazione, però, può essere vera o falsa, completa o parziale, comprensibile oppure no, e può avvenire in termini di “asetticità emotiva” (Morasso, Invernizzi, 1990), mentre la comunicazione è un insieme di messaggi che vengono scambiati tra due o più persone e implica un certo coinvolgimento emozionale dell‟uno e dell‟altro.
Spesso si riscontrano fattori perturbanti la comunicazione, soprattutto quando è inibita come avviene nei confronti di malati con prognosi infausta.
Questi elementi sono definiti “rumori perturbatori” (Morasso, Invernizzi, 1990). Ne esistono di diversi tipi:
rumore tecnico. E‟ proveniente dall‟ambiente circostante e diviene un notevole fattore di disturbo, da eliminare per facilitare le “operazioni”
terapeutiche;
rumore semantico. Il medico, parlando con il suo paziente, usa un vocabolario estremamente tecnico e non chiaro a chi riceve tale comunicazione;
rumore pragmatico. E‟ importante il modo con cui il messaggio viene proposto, nel rapporto tra medico e paziente si tratta di considerare il modo con cui viene comunicata la diagnosi e il grado di tolleranza.
La comunicazione della diagnosi non va pertanto ridotta alla sola trasmissione verbale; occorre tenere conto degli innumerevoli aspetti non verbali.
La postura, la mimica, la rigidità o meno del corpo, la gestualità, il tono della voce e la prossemica, le espressioni del volto svolgono un ruolo fondante nella comunicazione tra soggetti.
“Sfuggire lo sguardo diretto, giocherellare nervosamente con la penna, evitare la stanza di un determinato ammalato, lo sguardo furtivo scambiato tra medico e familiari al letto del paziente sono tutti messaggi a volte più espliciti di qualsiasi parola pronunciata apertamente” (Santosuosso, 1996).