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1.3. A chi sono rivolte

1.3.1 Il malato terminale

“Per quanto lunga sia la veste della tua vita, non supererà mai la statura della tua speranza.” (Anonimo cinese)

“Per fase o malattia terminale si intende una condizione patologica che induce a pensare ad un‟aspettativa di morte (a breve scadenza) come diretta conseguenza della malattia. Per paziente terminale si intende una persona che a breve scadenza con molta probabilità morirà” (Di Mola, 1994).

La malattia rappresenta una condizione di profonda crisi sia a livello biologico, perché comporta sofferenza e disagi, sia a livello esistenziale, in quanto interrompe e disorganizza l‟abituale ritmo di vita, altera il rapporto con il proprio corpo e con gli altri, fa perdere ruoli professionali e familiari, disorienta l‟identità.

La malattia grave ha l‟effetto di un‟esposizione devastante nella vita di una persona; nel momento in cui si manifesta, il malato perde il suo ruolo nei confronti degli altri; non è più il professionista o il marito, ed il suo tempo è scandito dal succedersi delle visite e dei cicli di terapia; anche lo spazio si ridimensiona: prima il suo agire non aveva confine, dopo la malattia si restringe alla propria casa, sino a limitarsi ai confini del proprio letto.

Tra la sofferenza, il dolore e le limitazioni si instaura l‟angoscia di un inquietante presagio di morte.

La fase terminale di una malattia costituisce un periodo particolare nel quale la stessa si evolve e si caratterizza essenzialmente per tre elementi: l‟inguaribilità, la gravità, la prospettiva di morte più o meno imminente.

Questi elementi che rendono la morte ineluttabile fanno sì che il progressivo deperimento organico porti a diverse complicanze, di carattere sia organico sia psicologico.

Ogni progresso della medicina sembra avvicinare il medico all‟obiettivo di curare tutte le malattie: se, però, alcune patologie mortali sono oggi state vinte, altre, nonostante i tentativi, sfuggono ancora ad ogni sforzo di cura.

Ecco, quindi, la necessità di cure palliative, intese come trattamento del malato terminale attraverso il controllo dei sintomi.

Per quanto riguarda il malato terminale, sono state approvate diverse definizioni, non contraddittorie tra loro, ma differenti per quanto attiene all‟osservazione del problema.

Secondo la Società Europea di Cure Palliative (EACP) si può definire terminale quel paziente per il quale non è possibile o non è vantaggioso continuare i trattamenti specifici (mirati alla causa della malattia).

Nell‟analisi fatta dalla Società Italiana di Cure Palliative (SICP), sono terminali

“i pazienti affetti da una malattia evolutiva irreversibile, di cui la morte è diretta conseguenza, nel loro ultimo periodo di vita, quando le cure specifiche non trovano più indicazione.”

Toscani dà una definizione più di ordine biologico-clinico, affermando che si può parlare di malato terminale “quando il finalismo intrinseco dei suoi organi e delle sue funzioni inizia a cessare, quando cioè, di fatto, comincia a venir meno quel meccanismo di autoregolazione che consente ad un organismo di vivere, sia pure a diversi livelli di salute. Il processo così iniziato ha come esito la morte”

(Toscani, 1993).

Per capire il malato terminale bisogna prendere in considerazione alcuni aspetti fondamentali della sua condizione; innanzitutto è necessario tenere presente che si tratta di una persona a cui rimane un periodo limitato di sopravvivenza: il fattore tempo, il “conto alla rovescia”, diviene, dunque, un fattore specifico e determinante.

Inoltre la persona devastata da una malattia terminale sta perdendo la sua autonomia, è sempre più isolata dal mondo e sempre più dipendente dalla cerchia ristretta di chi lo assiste; si trova a combattere con la coscienza della propria malattia e con la consapevolezza della sua morte imminente: c‟è una lotta in lei fra coscienza dei fatti e difesa delle speranze, tra disperazione e illusione.

Si tratta, infine, di una persona che, nonostante tutto, conserva la sua dignità di uomo, la sua volontà e la sua capacità di pensare e valutare.

Dal punto di vista del malato, il cancro assume le proporzioni di una catastrofe a causa dei grandi mutamenti che apporta alla sua vita: “il morire” inizia, spesso, appena viene fatta la diagnosi, ma il suo pieno significato non si rivela finché il

progredire della malattia non obbliga il paziente a dipendere fisicamente e socialmente da qualcun altro.

Dover rinunciare al proprio lavoro per passare al ruolo di persona malata è duro in una società che dà un alto valore all‟indipendenza e alla fiducia in se stessi.

Cambiamenti fisici associati ad una malattia progressiva costituiscono un‟altra menomazione per l‟individuo e, spesso, sono legati alla crescente necessità di dipendenza dall‟assistenza altrui. Tale assistenza può rivelarsi di lieve importanza se si limita a dover essere accompagnati dal medico, o a dover essere aiutati a preparare i pasti, ma può raggiungere proporzioni rilevanti quando l‟incapacità di badare a se stessi arriva al punto in cui il soddisfacimento di esigenze intime dipende dall‟aiuto di altre persone.

Man mano che il cancro progredisce impone, infatti, una situazione di dipendenza all‟adulto ammalato che si ritrova, nuovamente a ricoprire un ruolo infantile molto svilente per la propria dignità.

Un altro problema associato alla malattia progressiva è costituito dal malessere fisico o dai sintomi fastidiosi che interferiscono con le normali attività della vita e creano la necessità di modificarle per adattarsi alle pressanti esigenze di questi cambiamenti.

Il dolore è un problema particolarmente difficile e preoccupante per molti malati, anche perché esiste il timore molto diffuso che le sofferenze causate da una malattia maligna molto avanzata non possano essere controllate.

Un altro aspetto che la persona che sta per morire si trova ad affrontare, in seguito alla dipendenza fisica e sociale, è la riattivazione dei problemi irrisolti e il venire a galla di questioni personali mai portate a termine, che spesso interessano i rapporti con gli altri.

L‟essere umano è in continuo rapporto con la morte anche se questa relazione non è cosciente; finché è sano, soprattutto nella società attuale, è in parte convinto della sua immortalità e non considera che il suo divenire è sempre un morire parziale.

Quando compare una malattia a prognosi infausta, si prende, però, coscienza di un fatto inequivocabile: l‟uomo muore davvero anche in giovane età.

L‟atteggiamento nei confronti della malattia risente sempre di svariati fattori tra cui l‟età e la personalità del malato, ma è il risultato anche di effetti specifici, per esempio delle modalità di insorgenza dei sintomi, della gravità e delle limitazioni implicate, della sua localizzazione della malattia, di un‟eventuale sintomatologia diffusa.

Tra le reazioni più frequenti e normali troviamo, allora, l‟ansia che si attiva quando c‟è una percezione di pericolo imminente; essa genera incertezza e paura e incrementa la vulnerabilità. Ogni malattia è in grado di produrre ansia, ma, con la vicinanza alla morte, essa si trasforma in angoscia.

I primi disagi psicologici che la persona malata si trova ad affrontare sono inizialmente legati alla terapia stessa: il malato teme l‟abbandono, il rifiuto, l‟isolamento e, alla fine della malattia avverte addirittura la paura dell‟alienazione.

Oltre a dover far fronte all‟ansia che compare prima di ogni intervento, il malato di cancro, infatti, molte volte può assistere alla mutilazione o amputazione del proprio corpo come nel caso della mastectomia (cura chirurgica), oppure agli effetti devastanti della radioterapia e chemioterapia.

Il malato terminale ha davanti a sé l‟esito inevitabile del percorso patologico, la morte; tuttavia, fino a quel momento, ha diritto di vivere nel migliore dei modi possibili e di non soffrire inutilmente.

Il Codice di Deontologia Medica Europea (5 giugno 1987) recita all‟art. 12:

“La medicina comporta in ogni circostanza il rispetto costante della vita, dell’autonomia morale e della libertà di scelta del paziente. Tuttavia il medico può, in caso di malattia incurabile ed in fase terminale, limitarsi a lenire le sofferenze fisiche e morali del paziente, fornendogli trattamenti appropriati e conservando, per quanto possibile, la qualità di una vita che si spegne. E’ dovere imperativo assistere il morente sino alla fine e agire in modo da conservare la sua dignità.”

Il Comitato Etico della Fondazione Floriani presentò al convegno “Una nuova dimensione della medicina: cure palliative”, tenutosi il 23 – 24 maggio 1997 una carta che sottolinea il fatto che chi sta morendo ha diritto:

1. A essere considerato come persona sino alla morte;

2. A essere informato sulle proprie condizioni, se lo vuole;

3. A non essere ingannato e a ricevere risposte veritiere;

4. A partecipare alle decisioni che lo riguardano e al rispetto delle sue volontà;

5. Al sollievo del dolore e della sofferenza;

6. A cure di assistenza continue nell‟ambiente desiderato;

7. A non subire interventi che prolunghino il morire;

8. A esprimere le sue emozioni;

9. All‟aiuto psicologico e al conforto spirituale, secondo le sue convinzioni e la sua fede;

10. Alla vicinanza dei suoi cari;

11. A non morire nell‟isolamento e in solitudine;

12. A morire in pace e con dignità.