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“VIVERE UNA SCELTA”: ETEROGENEITÀ E PREFIGURATIVISMO NELLA RETE DEGLI ECOVILLAGGI ITALIANI

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Academic year: 2021

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Dipartimento di

SCIENZE UMANE PER LA FORMAZIONE “RICCARDO MASSA”

Dottorato di Ricerca in

ANTROPOLOGIA DELLA CONTEMPORANEITÀ: ETNOGRAFIA DELLE DIVERSITÀ E DELLE CONVERGENZE CULTURALI

Ciclo XXVIII

“VIVERE UNA SCELTA”:

ETEROGENEITÀ E

PREFIGURATIVISMO NELLA RETE

DEGLI ECOVILLAGGI ITALIANI

LOSARDO MARTINA Matricola 775185

Tutor: VINCENZO MATERA

Coordinatore: ROBERTO MALIGHETTI

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“Ho visto una formica in un giorno freddo e triste donare alla cicala

metà delle sue provviste. Tutto cambia: le nuvole, le favole, le persone... La formica si fa generosa...

È una rivoluzione.”

(Gianni Rodari)

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ABSTRACT

Frutto di un percorso evolutivo che vede intrecciarsi istanze ecologiste, pacifiste, femministe, New Age, comunitarie e neorurali, si definiscono ecovillaggi quelle comunità intenzionali che sperimentano quotidianamente stili di vita alternativi al sistema neo-liberale, con lo scopo di diffondere una cultura della sostenibilità che integri in maniera sistemica giustizia sociale e ambientale, economia, relazionalità e spiritualità. Per farlo, gli ecovillaggi creano delle reti di informazione, confronto e condivisione tra le varie comunità, ma anche con singoli individui, altre realtà associative con valori affini, società civile e istituzioni, sia a livello territoriale che transnazionale. Tali reti sono contraddistinte dall’estrema eterogeneità e fluidità dei partecipanti, da strutture decisionali orizzontali e partecipate e da strategie e tattiche di azione che rientrano nella cosiddetta “politica prefigurativa”, ovvero quelle modalità di organizzazione finalizzate a riprodurre nella quotidianità la società futura e ideale che chi le applica aspira a costruire.

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anche come laboratori di sperimentazione di soluzioni concrete ad alcune delle sfide più urgenti che l’umanità si trova ad affrontare.

ABSTRACT

Ecovillages are the outcome of a long historical process that intertwines ecological, pacifist, feminist, spiritual, communitarian, and neorural demands and they have tried to propose concrete alternatives to the neo-liberal values and lifestyles.

They are intentional communities that daily experiment new ways of cohabiting, building, producing, communicating, sharing, and consuming, with the aim of diffusing a culture of sustainability that blends together social and environmental justice, economics, human relations, and spirituality in a holistic fashion.

In order to do so, they create networks of information and sharing that connect not only communities, but also individuals and other associations with similar values, as well as the civil society and government institutions, both locally and transnationally. These networks are marked by high heterogeneity and fluidity among participants, horizontal and inclusive decision-making processes, and prefigurative strategies and tactics.

Therefore, the totality of communities and networks acts like a proper social movement, which, according to its strategies, goals and values, can be considered part of the broader “movement of movements”. Within this movement however, ecovillages stand out by their focus towards the emotional and spiritual aspects of the relationships among the actors involved. This feature often allows them to overcome conflicts and to use them as agents of change instead of causes of deadlock.

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context and in collaboration with movements that engage with prefigurative politics such as the ecovillage movement. For this reason, ecovillages are considered not only a

locus of cultural production, but also living laboratories for experimenting practical

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ACRONIMI E ABBREVIAZIONI UTILIZZATI

• AdB = Accordi di Base della RIVE

• CASA = Consejo de Asentamientos Sustentables de América Latina • CdL = Città della Luce

• CNV = Comunicazione Nonviolenta

• CONACREIS = Coordinamento Nazionale Associazioni e Comunità di Ricerca Etica

Interiore Spirituale

• ECOLISE = European network for community-led initiatives on climate change and

sustainability

• FIC = Fellowship of Intentional Communities • GAS = Gruppo di Acquisto Solidale

• GdG = Giardino della Gioia

• GEN = Global Ecovillage Network • MdC = Metodo del Consenso

• MDF = Movimento per la Decrescita Felice

• MFC/AFC = Mondo Comunità e Famiglia/Associazione Comunità e Famiglia • OdG = Ordine del Giorno

• RES = Rete dell’Economia Solidale • RIE = Red Ibérica de Ecoaldeas

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INDICE

ABSTRACT I

ACRONIMI E ABBREVIAZIONI UTILIZZATI V

INDICE VII

INTRODUZIONE 1

1. Il mondo degli ecovillaggi 1

2. Costruzione del campo 6

3. Ipotesi di ricerca 11

4. “Methodological Anxieties” 15

5. Suddivisione dei capitoli 19

1. IL PECCATO ORIGINALE DELL’ANTROPOLOGO: FARE RICERCA A CASA 25

1.1. Cosa significa fare antropologia a casa? 25

1.2. La distinzione tra “casa” e “campo” 30

1.3. Vantaggi e svantaggi della ricerca at home 35

1.3.1. Vivere tra “casa” e “campo” 41

1.3.2. Troppo coinvolgimento o troppo poco? 45

1.3.3. Familiarità 48

1.3.4. Shock culturale 50

1.3.5. Riflessività e Risonanza 53

1.4. La diffidenza del mondo accademico 56

1.4.1. Il disagio nei confronti delle esperienze comunitarie 59

1.4.2. I pregiudizi sul vivere comunitario 64

2. PER UNA METODOLOGIA TRANS-LOCALE: ETNOGRAFIA DI UNA RETE 75

2.1. Quando il “campo” non è un “dove” 75

2.1.1. Teoria omogenea, pratiche eterogenee 77

2.2. L’eterogeneità della multi-località 83

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2.4. Dubbi e scelte metodologiche 88 2.4.1. “How do we carve out meaningful slices of culture?” 89

2.4.2. Come rendere la superficialità profonda? 90

2.4.3. Metodi di raccolta dei dati 94

2.5. Definizione del campo: nodi e interazioni 103

2.5.1. Gli ecovillaggi della RIVE 104

2.5.2. Altre reti e altri siti 106

2.6. RIVE, la Rete Italiana dei Villaggi Ecologici 109

2.6.1. La meta è il viaggio: l’identità fluida della rete 112

2.7. I raduni della RIVE 116

2.7.1. La vetrina del movimento: il raduno estivo 119

2.7.2. Muoversi radicandosi 124

2.7.3. La pseudo-comunità degli incontri RIVE 127

3. LA RETE DEGLI ECOVILLAGGI COME MOVIMENTO TRANS- E

ALTER-GLOBALE 131

3.1. La realtà metaforica dei nuovi contesti di ricerca 131

3.2. Networks e Meshworks 135

3.3. Caratteristiche dei movimenti sociali 139

3.4. Gli ecovillaggi come movimento sociale 144

3.4.1. La protesta 146

3.4.2. La politica prefigurativa 152

3.5. Ecovillaggi e alter-globalizzazione 158

3.6. Perché “un altro mondo è possibile”: i metodi decisionali partecipati 164

3.6.1. Consenso e Assenso 174

4. EVOLUZIONE E ATTUALITÀ NEL MONDO DELLE COMUNITÀ

ECOSOSTENIBILI 181

4.1. Storia di una definizione 181

4.2. Gli ecovillaggi del Nord e del Sud del mondo 188

4.3. Ruralità e intenzionalità 193

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4.5. Gli ecovillaggi di oggi e le comuni di ieri 204

4.6. Peculiarità degli ecovillaggi 207

4.7. Peculiarità del contesto italiano 214

5. LA DIVERSITÀ DELLA RETE NELLA QUOTIDIANITÀ      

DELL’ECOVILLAGGIO 222

5.1. Premessa 222

5.2. Permacultura e Sostenibilità 223

5.3. La Città della Luce 233

5.3.1. Il primo approccio col campo 236

5.3.2. La storia della comunità 238

5.3.3. La scuola olistica 239

5.3.4. La situazione economica 242

5.3.5. Le pratiche ecosostenibili 243

5.3.6. La quotidianità dell’ecovillaggio 245

5.3.7. Le relazioni interne e con l’esterno 251

5.4. Habitat 255

5.4.1. Il primo approccio col campo 257

5.4.2. La storia del progetto 259

5.4.3. La vita quotidiana ad Habitat 262

5.4.4. Autosufficienza economica 265

5.4.5. Sostenibilità ambientale 267

5.4.6. “Disantropizzare” l’ambiente 271

5.4.7. Rapporti con il territorio 273

5.4.8. Le relazioni interne 275

6. LA RELAZIONALITÀ PROFONDA: ETEROGENEITÀ E UNIVERSALITÀ NEL

MONDO DEGLI ECOVILLAGGI 280

6.1. Le anime del movimento 280

6.2. Successo e fallimento 285

6.3. Spontaneità VS Organizzazione 291

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6.3.2. Il modello della confederazione 296 6.4. La diversità interna come opportunità di cambiamento 299

6.5. L’unità nella diversità 306

6.6. Una relazionalità profonda 311

CONCLUSIONI 320

1. Il ruolo degli ecovillaggi nella società del futuro 320

2. Per un’antropologia de e per il futuro 326

APPENDICI 332

1. “TU VUOI FARE IL FRICCHETTONE” 332

2. I PRINCIPI DELLA PERMACULTURA 336

3. BOZZA FINALE DEL QUESTIONARIO SULLA PERMACULTURA 340

4. MANIFESTO RIVE 344

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INTRODUZIONE

Questo lavoro è frutto di un’etnografia condotta tra il 2013 e il 2015 all’interno del dottorato di ricerca in “Antropologia della Contemporaneità: Etnografia delle Diversità e delle Convergenze Culturali” presso l’Università di Milano Bicocca. L’argomento centrale è il movimento globale degli ecovillaggi, comunità di individui che si uniscono intenzionalmente per creare insediamenti umani sostenibili integrati nel proprio ecosistema (Gilman 1991), analizzato attraverso un’osservazione partecipata con e sulla Rete Italiana degli Ecovillaggi (RIVE). Avendo tuttavia condotto un’etnografia di tipo multi-situato e in qualità di attivista del movimento, ed essendo la rete un soggetto di studio difficilmente inquadrabile in una cornice spazio-temporale ben determinata, la ricerca ha coinvolto soggetti altri rispetto alla rete ma a essa collegati, tutti collocabili nell’ambito del vivere comunitario, della transizione ecologica e dei movimenti per la giustizia globale; inoltre, per le stesse ragioni la ricerca non si è mai del tutto interrotta, continuando anche a distanza attraverso diverse forme di comunicazione e attivismo online, e includendo così modalità di raccolta e tipologie di dati variegate.

1. Il mondo degli ecovillaggi

Un ecovillaggio è una comunità intenzionale con un focus sulla sostenibilità ambientale, economica, spirituale e sociale, secondo quanto indicato dal Global Ecovillage Network (GEN). Per quanto il GEN riconosca tra i suoi membri comunità presenti in tutti i paesi del mondo, questa definizione si riferisce principalmente agli ecovillaggi del Nord del mondo, mentre gli altri sono spesso villaggi preesistenti (definiti “tradizionali” dal GEN) che hanno intrapreso un percorso verso una gestione più autonoma e sostenibile delle proprie risorse . Insieme al cohousing, particolare 1

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forma di condominio solidale in cui alloggi privati e servizi in comune vengono combinati in modo da salvaguardare la privacy di ognuno e allo stesso tempo promuovere la condivisione e il bisogno di socialità (Lietaert 2007), gli ecovillaggi rappresentano le espressioni più contemporanee del fenomeno comunitario. L’ecovillaggio come comunemente inteso oggi è infatti frutto di un’evoluzione che vede tra i suoi precursori sia le comunità utopiche di stampo oweniano del XIX secolo, sia gli esperimenti comunitari sorti durante i “lunghi anni Sessanta ”, di cui molti di questi ne 2 sono stati diretti ispiratori o fondatori; ma risente anche dell’influenza di altri movimenti caratteristici degli anni della contestazione, come le rivendicazioni femministe e per i diritti civili, il pacifismo e l’ambientalismo, il misticismo tipico della cultura hippie e della New Age. Tra le radici del movimento ci sono inoltre gli ideali di ricerca interiore e cura del sé tipici dei collettivi a indirizzo fortemente spirituale come monasteri, ashram e altri movimenti di stampo gandhiano (Litfin 2014). Infine, sebbene non venga normalmente inserita tra le influenze, anche il cosiddetto movimento “neorurale” (definito negli Stati Uniti back-to-the-land movement, per quanto tale definizione richiami un movimento più specifico) può essere considerato uno dei filoni principali alle origini del movimento.

Al contrario di altre forme di vivere comunitario passate e coeve tuttavia, l’ecovillaggio si presenta alla società circostante come un “beta test center” (Greenberg 2013:270) dove sperimentare stili di vita alternativi a quelli dominanti che integrino tutti gli aspetti del vivere quotidiano, dal sostentamento basilare a esigenze più immateriali: affettive,

Nel corso di tutta la tesi citerò spesso i legami tra ecovillaggi e le comunità fiorite in quelli che definisco 2

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spirituali e di realizzazione personale. A tale scopo si cerca di mettere in pratica soluzioni concrete, partecipate e dal basso: forme alternative di agricoltura biologica, tecniche di auto-costruzione, riuso, riciclo e auto-produzione, metodologie decisionali basate sul consenso, strumenti di comunicazione nonviolenta, innovazioni tecnologiche in bioedilizia e nel campo delle energie rinnovabili, circuiti economici fondati sullo scambio e sul dono, sistemi educativi non formali (scuola libertaria o steineriana,

homeschooling), diverse pratiche di cura a un tempo fisica e spirituale come lo yoga o

altre discipline orientali.

Gli esempi concreti di “viver bene” con cui si cerca di dare una risposta e una soluzione ai problemi della società contemporanea traggono ispirazione da diverse idee di benessere elaborate da società contemporanee e non integrate con le locali necessità ambientali e sociali, cercando di dimostrare che è possibile ridurre i propri consumi senza per questo intaccare la qualità generale della vita, ma anzi migliorandola. Nonostante i pregiudizi comunemente collegati agli esperimenti comunitari, gli ecovillaggi tendono infatti a proporre uno stile di vita condivisibile da molti e sotto molti punti di vista: più attento ai beni relazionali, alla convivialità, alla cooperazione e alla solidarietà; più etico e rispettoso delle esigenze sia umane che ambientali, il che coinvolge anche un’idea di lavoro che privilegia la cooperazione alla competizione e non sminuisce il valore del riposo e del tempo libero; più conveniente dal punto di vista economico grazie alla condivisione di servizi e risorse, senza per questo dover fare particolari sacrifici; più sostenibile e dunque più vantaggioso a lungo termine sotto tutti i punti di vista; più salutare perché basato su una maggiore attività fisica e all’aria aperta e su un’alimentazione più sana e frugale; e in generale orientato a un miglioramento delle condizioni di vita e al recupero di un significato profondo dell’esistenza.

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queste reti, è tuttavia difficile dare una stima coerente del loro numero reale, e questo per una serie di ragioni. In primo luogo perché il termine è un’auto-attribuzione (Wagner 2012): ci possono dunque essere “ecovillaggi” che non rientrano nelle caratteristiche sopra descritte e al contrario ecovillaggi nel vero senso della parola che tuttavia si definiscono diversamente. In secondo luogo, molti di loro conducono un’esistenza sommersa e non sono collegati a nessuna rete transnazionale di comunità, di transizione ecologica o di altra natura, rendendoli perciò difficili da tracciare. In terzo luogo, ci sono ecovillaggi che non possono definirsi propriamente tali ma che si trovano in uno stato di continua evoluzione, per cui potrebbero rientrare nel computo oggi ma non domani e viceversa. Infine, nel GEN molti dei membri non sono ecovillaggi o non si definiscono tali ma sono comunque “eco-insediamenti” che ne condividono parte della conformazione e dei valori, come cohousing urbani, progetti di permacultura , 3

transition towns , eco-vicinati o condomini solidali, cooperative agricole, comuni, 4

ashram, ecc.; molti di loro inoltre sono a loro volta dei network di ecovillaggi o di realtà

simili.

Premesso ciò, al momento fanno parte del GEN all’incirca diecimila comunità in 110 paesi, concentrati soprattutto in Europa, Stati Uniti, America Latina, Africa centrale e

La permacultura è un sistema di progettazione sostenibile di ambienti umani e al tempo stesso una 3

filosofia di vita per abitarli che prende spunto dai modelli osservati negli ecosistemi naturali (cfr. Holmgren 2011) e che viene usato anche dalla maggior parte degli ecovillaggi nel mondo come principale strumento teorico e pratico con cui realizzare il progetto.

Il movimento delle Transition Towns è stato fondato in Irlanda nel 2003 dall’ecologista e permacultore

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meridionale, Australia e nel golfo del Bengala . Molti di questi si trovano in contesto 5 rurale, dove è più facile raggiungere un’autosufficienza alimentare ed energetica, e dunque economica; vi sono tuttavia anche numerosi progetti urbani, sovente in edifici industriali abbandonati e ristrutturati. Gli ecovillaggi iscritti al GEN si coordinano tra loro tramite sotto sezioni della rete globale: GEN-Europe, di cui fanno parte anche i paesi nordafricani e mediorientali; GENNA, la rete nordamericana; GENOA per l’Asia e l’Oceania; GEN-Africa e CASA, il Consejo de Asentamientos Sustentables de América Latina, gli ultimi due a formarsi (entrambi nel 2012). Inoltre, sempre dal 2012, nel GEN è presente un’ulteriore suddivisione interna, che riunisce e coordina i membri più giovani del movimento internazionale: NEXT-GEN. Di queste sotto divisioni la sola GEN-Europe conta 150 comunità e 13 network tra i suoi membri (sebbene gran parte degli ecovillaggi europei sia affiliata a essa solo tramite la propria rete nazionale), e di queste RIVE, la Rete Italiana Villaggi Ecologici, è una delle più antiche e consolidate: al 2017 contava tra i suoi membri 51 progetti di comunità e 155 soci individuali. La RIVE è stata fondata nel 1997, appena due anni dopo la rete globale, da un gruppo di comunità già presenti in Italia che, entrate in connessione tra di loro e con altre realtà europee simili in occasione di una conferenza tenutasi in Puglia, si resero conto dei valori, intenti e visioni che condividevano nonostante i percorsi diversi da cui provenivano, e decisero di unirsi per scambiarsi strategie ed esperienze e aiutare nuove realtà a nascere e prosperare. Nel corso degli ultimi vent’anni la RIVE ha cambiato più volte conformazione, passando da un gruppo informale di poche comunità a una rete molto più organizzata e consolidata di ecovillaggi, progetti in formazione e soci individuali che ne condividono valori e stili di vita, fino a diventare un punto di riferimento per tutto il movimento europeo. L’allargamento ai soci individuali e alla cittadinanza attiva, la volontà di incidere più concretamente sulla società esterna e il bisogno di

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strutturazione interna che questi due aspetti portano con sé, che si scontra con la opposta necessità di mantenere la rete spontanea, partecipata e focalizzata su relazioni intime e approfondite, sono tra le questioni principali che la RIVE si trova oggi ad affrontare, e sono tra i temi centrali della mia ricerca, poiché le modalità concrete con cui la rete tenta di rispondere a queste esigenze evidenziano la caratteristica che ho identificato come peculiare del movimento, ovvero la costruzione di una relazionalità profonda che permette il dialogo anche tra realtà e individui ideologicamente molto distanti tra loro, utilizzando i contrasti che ne emergono come stimolo di crescita piuttosto che come ostacoli bloccanti.

2. Costruzione del campo

Nel 1972 due eventi apparentemente scollegati tra di loro, la Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente Umano tenutasi a Stoccolma da una parte e la pubblicazione del “Rapporto sui limiti dello sviluppo” commissionato al Massachusetts Institute of Technology dal Club di Roma dall’altra, giunsero alla medesima conclusione: che gli 6 stili di vita e di consumo inerenti al sistema capitalista, soprattutto quelli dei paesi occidentali, erano una delle cause principali del sempre più problematico rapporto tra sviluppo economico e degrado ambientale. In particolare, l’intento del rapporto del MIT era:

“…to examine the complex of problems troubling men of all nations: poverty in the midst of plenty; degradation of the environment; loss of faith in institutions; uncontrolled urban spread; insecurity of employment; alienation of youth; rejection of traditional values; and inflation and other monetary and economic disruptions. These seemingly divergent parts of the "world problematique," as The Club of Rome calls it, have three characteristics in common: they occur to Il Club di Roma è un’organizzazione non governativa composta da scienziati, economisti, uomini 6

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some degree in all societies; they contain technical, social, economic, and political elements; and, most important of all, they interact.

It is the predicament of mankind that man can perceive the problematique, yet, despite his considerable knowledge and skills, he does not understand the origins, significance, and

interrelationships of its many components and thus is unable to devise effective responses. This failure occurs in large part because we continue to examine single items in the problematique without understanding that the whole is more than the sum of its parts, that change in one element means change in the others.” (Meadows et al. 1972:10-11).

A distanza di più di quarant’anni la “problematica” messa in evidenza dal Club di Roma sembra ancora drammaticamente attuale, così come sembra esserlo l’approccio sistemico suggerito. Così, a partire da queste considerazioni, negli ultimi decenni è emerso un movimento transnazionale che si può definire “di transizione”, un insieme cioè di associazioni, individui e reti che, attraverso soluzioni concrete, localizzate, quotidiane, partecipate e dal basso cercano di facilitare il passaggio verso un sistema socio-economico che non faccia della crescita illimitata, dell’esaurimento sconsiderato delle risorse naturali e del consumismo deregolamentato i pilastri su cui costruire la società del futuro. In Italia si tratta ad esempio dell’Accademia di Permacultura, dell’associazione Italia che Cambia, di Genuino Clandestino, di Transition Italia, della Rete Italiana Cohousing, di RES (la Rete di Economia Solidale che raggruppa i Gruppi di Acquisto Solidale italiani), del Movimento della Decrescita e, ovviamente, della Rete degli Ecovillaggi.

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con lo scopo di raggiungere uno stile di vita il più sostenibile possibile da esportare poi nella società esterna. Come sintetizzato da un membro del direttivo durante uno dei raduni aperti ai visitatori esterni, gli ecovillaggi non si “preoccupano del mondo: se ne occupano”.

Come spesso avviene per chi fa antropologia, la scelta iniziale del campo e dell’oggetto della mia ricerca è stata strettamente influenzata da esperienze, interessi, propensioni e opportunità personali e accademici, e poi gradualmente modellata da eventi casuali come da vincoli ideologici, pratici e strutturali (cfr. Gupta e Ferguson 1997b). Nel mio caso la combinazione di questi aspetti confluisce da anni nella necessità di conoscere meglio e contribuire alla diffusione della complessa rete di connessioni globali che legano il degrado ambientale all’impoverimento e allo sfruttamento di una parte consistente della popolazione mondiale. Questa connessione deriva in buona misura dall’egemonia di un pensiero e di una pratica che separano ontologicamente uomo e natura, razionalizzano l’esternalizzazione dei costi umani, sociali e ambientali dei meccanismi di produzione e consumo e ricercano le soluzioni nella perpetuazione degli stessi sistemi che hanno generato i problemi (Lockyer and Veteto 2013).

Tali convinzioni mi hanno portato a condurre prima un’esperienza di volontariato e poi una ricerca etnografica in Bolivia, alla ricerca dei luoghi e degli individui che vivono maggiormente le conseguenze di tali connessioni. La mia esperienza in Bolivia si è concentrata attorno alle rappresentazioni e agli usi antichi e contemporanei della pianta della coca, soprattutto in qualità di strumento simbolico per focalizzare le rivendicazioni indigene nella costruzione di una nuova identità nazionale. Le forme di resistenza quotidiana basate sugli usi della foglia di coca vengono percepite dai soggetti coinvolti come esempi di cambiamento sociale che mettono in discussione il modello socio-economico neoliberale e si fondano su una serie di valori attribuiti alla pratica

cocalera: armonia e rispetto della natura, sostenibilità, convivialità e buen vivir (cfr.

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Tornata in Italia ho iniziato gradualmente a rivolgermi a quei comportamenti che rientrano più tra le cause che tra le conseguenze dei problemi socio-ambientali del pianeta, e che sono così comuni nei contesti industrializzati come quello da cui provengo. Oltre a modificare gradualmente degli aspetti della mia vita personale, ho cominciato perciò a collaborare con quei movimenti che portano avanti una politica di tipo prefigurativo, che sperimentano e diffondono cioè tutte quelle modalità di organizzazione del presente finalizzate a riprodurre nella quotidianità le caratteristiche della società futura e ideale che chi le applica aspira a costruire. Tali movimenti, attraverso la dimostrazione concreta di piccoli cambiamenti attuabili nel proprio stile di vita, cercano di diffondere una maggiore consapevolezza nei confronti di quelle abitudini che perpetuano lo stato delle cose, proponendo al tempo stesso delle alternative: consumo critico, auto-produzione, metodi di gestione non violenta dei conflitti, pratiche quotidiane di riciclo, riuso, diminuzione degli sprechi, ecc. In maniera consequenziale sono così arrivata agli ecovillaggi, che si presentano come la testa di ponte di questi movimenti, così come le comuni lo erano per i movimenti rivoluzionari sessantottini (cfr. Anitori 2012): laboratori di sperimentazione continua e quotidiana di pratiche sostenibili e nodi nevralgici di produzione e diffusione delle conoscenze a queste collegate.

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intenzionali avrei potuto condurre un campo più tradizionale. La mia idea era infatti condurre un’etnografia di tipo piuttosto convenzionale, come mi era stato insegnato durante gli anni di studio accademico: pur nella consapevolezza dell’importanza delle connessioni globali e della permeabilità dei confini, avevo intenzione di scegliere uno o più luoghi ben delimitati nello spazio (in questo caso comunità intenzionali ed ecosostenibili) da utilizzare come casi studio per comprendere l’intero fenomeno. Qui avrei trascorso un periodo lungo e prolungato in totale immersione e distacco dalla mia solita vita quotidiana. Col tempo però, le esperienze e le opportunità hanno fatto emergere una complessa rete di relazioni che non permetteva di comprendere il fenomeno focalizzandosi su una (o più) comunità circoscritte.

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occasioni che si presentano casualmente e che dobbiamo essere in grado di cogliere al volo, su imprevisti su cui non abbiamo alcun controllo e che dobbiamo essere in grado di ammortizzare velocemente e, di conseguenza, sulla nostra capacità di improvvisazione (cfr. Hannerz 2012). Tuttavia, una ricerca in un contesto multi-situato e urbanizzato così disperso, discontinuo e mutevole, e che necessita di un kit metodologico che vada oltre la sola esperienza sul campo (ricerca online, uso dei media, ecc.) rischia spesso di essere tacciata come “povera di campo”, o addirittura priva di etnografia (Des Chene 1997), come mi è stato fatto notare in ambito accademico. Eppure, ogni strada intrapresa anche solo a metà e ogni occasione sfumata, spesso dovute a una buona dose di casualità, hanno influenzato in maniera imprevista la costruzione del mio campo e sono risultate fondamentali per la ricerca stessa, poiché tramite di esse, direttamente o indirettamente, sono entrata sempre più a contatto con l’organizzazione e le interazioni della rete, che sono diventate successivamente il focus principale della mia ricerca.

3. Ipotesi di ricerca

L’aspetto sperimentale e dimostrativo degli ecovillaggi fa sì che le relazioni sia interne che con l’esterno siano una parte fondamentale della loro missione come della loro sopravvivenza: la necessità di creare ponti con la società esterna dunque, creando collaborazioni con le istituzioni e con la società civile e facendo rete con tutte quelle realtà attive sui medesimi temi e territori, sembra un aspetto che contraddistingue tutte le realtà comunitarie odierne, non più chiuse utopisticamente nella creazione del loro piccolo giardino felice.

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sostenibile: è membro di ECOLISE , un’associazione che ha come obiettivo principale 7 quello di creare un’agenda europea comune e una piattaforma per l’azione collettiva sul tema della sostenibilità; dal 2000 ha stato consultivo speciale sullo sviluppo sostenibile per il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite; è associato all’UNITAR (l’Istituto di Insegnamento e Ricerca delle Nazioni Unite) come membro di un network internazionale di centri per l’educazione sostenibile; ha collaborato con l’UNESCO durante la decade di Educazione allo Sviluppo Sostenibile (2005-2014); ed è sempre presente tra le ONG dialoganti con le Nazioni Unite alle principali conferenze internazionali sui temi della sostenibilità, da UN Habitat II, seconda conferenza sugli insediamenti umani tenutasi nel 1996 a Istanbul, alle conferenze sul cambiamento climatico di Parigi nel 2015 o di Bonn nel 2017.

Questo bisogno via via maggiore di fare rete e di aprirsi alla società esterna sembra essersi particolarmente acuito nella storia recente della RIVE: lungi da me convincermi, come spesso accade nelle ricerche etnografiche, di essere giunta sul campo poco prima che si producesse un cambiamento epocale, dopo il quale il movimento (e magari il paese intero) non saranno più gli stessi (cfr. ad esempio Des Chene 1997); questo a maggior ragione nell’analisi di un movimento che fa della processualità e del cambiamento uno dei suoi principi cardine. È necessario infatti sottolineare come, essendo il movimento degli ecovillaggi e le comunità stesse un fenomeno in continua trasformazione, poiché basato sulle relazioni umane che si instaurano al loro interno, quello che descrivo nelle pagine che seguono non è che una fotografia di un momento, è come voler descrivere l’acqua che scorre in un punto esatto del fiume. L’unica cosa che si può fare è tentare di indovinarne la direzione, almeno in quel tratto.

ECOLISE è “la rete europea delle iniziative comunitarie sul cambiamento climatico e la sostenibilità”, 7

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Ma è pur vero che, dati alla mano, il raduno estivo della RIVE (l’unico aperto anche a chi non è membro dell’associazione) da poche decine nei primi anni è passato a picchi di 500 partecipanti negli ultimi cinque anni, che i soci sostenitori (coloro cioè che non vivono in comunità) al momento sono più dei progetti comunitari associati, e che la pagina Facebook della RIVE è seguita da quasi 13 mila persone, anche se gli abitanti di tutti gli ecovillaggi italiani messi insieme sono appena 2500. Gli stessi portavoce del movimento (membri anziani, consiglio direttivo, presidenti presenti e passati) riconoscono l’importanza che la rete ha cominciato ad avere per la società esterna negli ultimissimi anni. Durante il mio primo raduno nel 2013 ad esempio, ci sono state esplicite richieste da parte di alcuni cittadini perché gli ecovillaggisti andassero nelle città a insegnare quello che sanno fare e a dimostrare che si può fare: pur con la sensazione di una maggiore coscienza e consapevolezza generale infatti, la ragazza che espresse questa esigenza sentiva comunque la difficoltà in città di creare una rete che connettesse tutte le realtà attive nel cambiamento.

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Il focus cosciente e dichiarato sull’eco-sostenibilità ha dunque un valore più ampio di quello che normalmente si riconosce nei movimenti ambientalisti: il prefisso “eco” del termine ecovillaggio sta infatti per “ecologico”, aggettivo che, a differenza di “ambientalista”, spesso erroneamente utilizzato come sinonimo, rimanda a un rapporto più sistemico tra l’uomo e il suo ambiente e dunque a una sostenibilità che considera anche gli aspetti economici, sociali e culturali della relazione. Questo comune intento fa da collante tra realtà ideologicamente e strutturalmente anche molto lontane tra loro: ecovillaggi con un focus sulla vita interiore o sul pragmatismo ecologico (o su entrambi), che possono spaziare da comunità spirituali a cooperative agricole, da centri olistici a comuni anarchiche; ecovillaggi stanziati in contesti urbani o rurali, in tende e roulotte, in casali e borghi antichi ristrutturati o in edifici auto-costruiti con materiali naturali e tecniche che vanno dalla tradizione locale alla bioarchitettura più avanzata; ecovillaggi di natura più cooperativistica o più imprenditoriale, i cui membri condividono tutte le risorse, gli spazi e l’educazione dei figli, oppure conducono vite più indipendenti l’uno dall’altro; ecovillaggi che fondano il loro sostentamento sull’ecoturismo, sull’agricoltura biologica, sull’artigianato, sull’educazione ecologica o su attività di benessere, mettendo in comune tutte le entrate o con una gestione separata, lavorando solo all’interno della comunità o combinando autosufficienza con lavoro stipendiato dall’esterno. La diversità interna è uno dei pilastri della resilienza promossa dagli ecovillaggi: trattandosi di laboratori di sperimentazione che vorrebbero fungere da modello per un cambiamento sociale di natura più ampia infatti, l’eterogeneità che li contraddistingue permette di elaborare soluzioni applicabili e riproducibili nei contesti più disparati.

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miglioramento, rende le relazioni uno degli aspetti più curati, e gli strumenti per facilitare il dialogo una delle soluzioni più sperimentate. Da queste considerazioni sono dunque nate le ipotesi attorno a cui ruota questa ricerca, secondo cui il movimento degli ecovillaggi in primo luogo è da considerarsi un movimento sociale a tutti gli effetti, rientrando in quell’ampia categoria di movimenti acefali, orizzontali e partecipati che fanno del meshwork la loro forma e il loro strumento di connessione privilegiati; in secondo luogo, è un movimento che fa dell’eterogeneità la sua caratteristica principale e dei contrasti che ne risultano lo strumento privilegiato per allargarsi, sopravvivere e raggiungere i propri scopi, attraverso la sperimentazione continua di metodi di decisione consensuali e di comunicazione nonviolenta; infine, le reti di ecovillaggi caricano questi strumenti di una profondità emotiva che le distanziano dall’utilizzo che se ne fa in altri movimenti simili nell’orizzonte alter-globale, rendendo la spiritualità laica (o, come la definisco io, la relazionalità profonda) la vera innovazione che permette il dialogo interno e quindi il successo del movimento.

4. “Methodological Anxieties ”8

Prima di affrontare l’oggetto della mia ricerca nel dettaglio, sento la necessità di chiarire alcune scelte che esulano da un’etnografia di stampo più convenzionale: in primo luogo, la decisione di analizzare un fenomeno comunitario in contesto occidentale; in secondo luogo, la scelta di focalizzarmi sulla rete degli ecovillaggi, analizzata come movimento sociale da una prospettiva multi-situata, piuttosto che concentrarmi su singole comunità all’interno del movimento; in terzo luogo, la volontà di accedere al campo e condurre la ricerca utilizzando un approccio engaged. Con il termine “engaged”, basandomi sulla distinzione tra i vari tipi di impegno etnografico individuata da Low e Merry (2010), mi riferisco non solo alle varie forme di

Prendo in prestito l’espressione da uno dei paragrafi del saggio di George E. Marcus “Ethnography in/

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collaborazione con la rete (come il volontariato durante i raduni), ma anche ad un atteggiamento di sostegno attivo (advocacy) alle attività e agli obiettivi del movimento tramite un lavoro di traduzione, scrittura, presentazione, divulgazione e organizzazione eventi. Spesso mi riferisco a questo impegno con il termine di “attivismo” poiché, al di là delle attività specifiche svolte per e nella rete, il mio coinvolgimento si basava anche su un’adesione ideologica ai valori professati dal movimento come cittadino e come essere umano (ibidem).

Queste scelte hanno sollevato numerosi dubbi e questioni di metodo che, citando il celeberrimo articolo di Marcus, hanno provocato una serie di ansie metodologiche (e non solo). Anche Virginia Caputo (2004), nel descrivere il lavoro di ricerca e riflessione dietro la sua tesi di dottorato, cita numerose ansie da prestazione e da riconoscimento in cui mi sono facilmente riconosciuta, legate alla necessità di un ancoraggio teorico e metodologico che giustificasse un campo e dei metodi al limite di quello che comunemente viene accettato in antropologia. Come dimostrano i capitoli che seguono, simili alle sue sono anche le mie strategie di superamento, come l’inserimento di un cappello metodologico a mo’ di giustificazione, narrazioni di “entrata” e di “uscita” che preservino quell’idea di viaggio tanto necessaria perché un campo etnografico sia considerato tale, o la descrizione di quel senso di insufficienza così comune nelle “etnografie cosmopolite” (Appadurai 2007, cap. 2), che tendono sempre più spesso a utilizzare una sorta di “retorica dell’incompletezza” (Matera 2015:27) per giustificare durata e natura del proprio campo.

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detto apertamente che il mio argomento di ricerca non aveva alcun interesse antropologico, il che, secondo Hannerz (2012: 91), darebbe a intendere che il mio campo non avrebbe avuto valore in quanto rituale di transizione per diventare antropologo a tutti gli effetti (non era abbastanza lontano? pericoloso? inospitale?). Ho sempre trovato queste restrizioni bizzarre, convinta del fatto che gli ambiti classici dell’indagine antropologica potessero trovarsi ed essere studiati in qualsiasi contesto geografico e sociale, e che tutto ciò che si può definire “diverso” e in qualche modo “collettivo” possa rientrare nel nostro interesse, purché vi si approcci in un certo qual modo (“etnografico” appunto).

Ho affrontato perciò questi anni di lavoro con lo spettro costante di aver condotto una “etnografia leggera” (Hannerz 2012: 116): di aver viaggiato troppo poco, sebbene il viaggio sia stato una costante del mio dottorato, forse anche più che per coloro che trascorrono un periodo prolungato all’estero; di non aver raccolto abbastanza interviste, dato che il metodo migliore per raccogliere informazioni si è rivelato in seguito essere quello delle conversazioni informali, sia dal vivo che a distanza; di non aver fatto “abbastanza campo”, poiché inizialmente consideravo “campo” solo i mesi trascorsi stabilmente in un ecovillaggio, e non tutto quel “fieldwork yo-yo” (Wulff 2002) portato avanti per anni con la rete, in concomitanza con i ritmi dei miei interlocutori e quelli della mia vita privata. In poche parole, avevo il terrore di ricadere nella classificazione di quello che Weston (1997) definisce “antropologo virtuale”: colui che, essendo considerato un “etnografo nativo”, non ha un “vero campo” perché non ha un “altro autentico” (“my people”) come controparte, a meno che non lo diventi egli stesso, e in quel caso non è più un vero antropologo.

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soggetti più o meno “esotici” che si appresta a studiare, sembra che la distinzione tra “casa” e “campo” continui a rivestire un ruolo fondamentale nella pratica etnografica, così come ancora esiste una gerarchia di “autenticità” e “appropriatezza” inversamente proporzionale alla vicinanza dell’ultimo alla prima (Gupta e Ferguson 1997b). Se è infatti vero che l’antropologia da sempre studia la diversità, ciò che però appare più idoneo studiare dal punto di vista antropologico è determinato dal grado di alterità in cui questo si colloca, misurato in base alla distanza (fisica, ma anche intellettuale e culturale) da ciò che è noto. Tale notorietà è tuttavia costruita su un’immagine statica dell’antropologo, pensato come soggetto bianco, maschio, occidentale, borghese e altamente scolarizzato: saranno perciò i contesti colti, urbani e industrializzati a essere più associati con “casa”, e viceversa, l’altro sarà considerato “più altro” (e dunque maggiormente degno di attenzione antropologica) quanto più si allontana da questi ed è radicato nel proprio contesto naturale. La stessa idea di “andare sul campo” richiama l’immagine di un viaggio verso un luogo selvaggio, incontaminato o quantomeno agro-pastorale (Gupta e Ferguson 1997a; Matera 2015). In base a questo criterio il mio caso studio potrebbe quasi apparire “autentico” nel senso dato dall’antropologia classica, poiché i miei interlocutori hanno scelto di tornare a vivere nello stesso contesto rurale dei loro antenati più recenti. Eppure, nonostante tale decisione sia fortemente influenzata da quel “mito dell’autentico” e da quella visione romantica e idealizzata di idillio rurale che in qualche modo le stesse scienze sociali occidentali hanno contribuito a creare (Halfacree 1996; Rapport e Overing 2003; Fillitz e Saris 2015), gli ecovillaggi non vengono considerati materiale antropologico, per una serie di motivi che spiegherò nel primo capitolo.

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determinate località geografiche. Inoltre, la discriminazione geografica comincia fin dalle aule universitarie, poiché, come affermato più sopra, la gerarchia di diversità privilegia quei campi considerati più “altri” rispetto a un ricercatore pensato sulla base di determinati parametri, discriminando perciò chi in quella diversità ad esempio ci è nato e la cui otherness (che è la nostra familiarità) risulta quindi poco interessante. In un certo senso dunque, sebbene le critiche a una visione discreta di cultura e all’eccessivo orientalismo di una certa antropologia classica siano ormai la norma, l’antropologia contemporanea continua a perpetuare una visione e divisione colonialista del mondo conosciuto (Caputo 2004).

5. Suddivisione dei capitoli

Partendo dalle riflessioni teoriche scaturite dall’analisi della pratica etnografica, la tesi si dipana seguendo il filo delle scelte che ho operato durante la conduzione della ricerca, e su queste costruisce l’oggetto e l’ipotesi della ricerca.

Il primo capitolo, il più teorico tra quelli presentati, affronta la mia scelta di fare ricerca

“a casa” su un fenomeno a me familiare non solo perché situato in un contesto che mi appartiene culturalmente, geograficamente e linguisticamente, ma anche perché vicino alla mia attività umanitaria ed ecologista. Integrando la letteratura sull’argomento con esempi etnografici tratti dalla mia esperienza ho dunque analizzato alcune delle sfide principali poste dalla ricerca a casa: la delimitazione tra casa e campo, il ruolo del viaggio, la co-produzione di conoscenza, la diffidenza accademica e in generale tutte quelle caratteristiche che a prima vista appaiono come vantaggi ma che possono presentare numerose insidie (familiarità linguistica e culturale, vicinanza geografica, coinvolgimento politico ed emotivo, ecc.).

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che, per diverse ragioni, non vengono considerati di competenza di uno studio antropologico.

Nel secondo capitolo, di natura più metodologica, partendo da una revisione della

letteratura sulla de-costruzione del concetto di campo mi soffermo sulle sfaccettature e sulle sfide della ricerca multi-situata, per poi descrivere nel dettaglio come e perché ho costruito il mio campo “trans-localizzato”, i principali dubbi affrontati sull’approccio metodologico da seguire e gli specifici strumenti di raccolta dati utilizzati, molti di questi legati all’approccio dialogico e attivista su cui ho basato la relazione con i miei interlocutori. Questi dunque non sono solo stati soggetti di studio, ma spesso co-produttori di conoscenza, aiutandomi nell’elaborare osservazioni sulla realtà che stavano costruendo, commentando criticamente quello che scrivevo e contribuendo con una quantità enorme di riflessioni. Come spesso accade quando si fa ricerca in un ambito con cui si condivide uno status etnico e socio-economico infatti, “ethnographer is one voice or participant in a crowded field of knowledge producers.” (Casas-Cortes et al. 2013 p. 199).

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della “pseudo-comunità” che si crea in tali contesti e che rende le reti (le interazioni), più che le singole comunità (i nodi), il fulcro del movimento degli ecovillaggi.

Il terzo capitolo si occupa di una scelta metodologica che risulta ancora più “al limite”:

se ci sono infatti pochi studi antropologici sulle comunità intenzionali in contesti occidentali, non ce n’è alcuno sul loro fare rete come espressione di un movimento sociale più ampio, dato che tale considerazione del fenomeno comunitario è rara anche in ambito sociologico, che più spesso si è occupato di comunità e che tradizionalmente si occupa di movimenti.

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Nel quarto capitolo, prima di addentrarmi nella parte più etnografica della tesi, esploro

la nascita, l’evoluzione e le influenze alla base del movimento degli ecovillaggi, a ulteriore dimostrazione dell’incredibile diversità interna che lo contraddistingue. Le questioni riguardanti terminologie e categorizzazioni che ho analizzato, pur nella loro apparente marginalità, servono in realtà a dare un’idea della varietà, flessibilità e inclusività del movimento, e dell’importanza data al riconoscimento esterno per poter fare rete ed essere veramente di esempio per la società. Si parte dunque dall’evoluzione del termine ecovillaggio, a cui è legata l’idea stessa che la rete globale ha della propria identità e missione, con particolare attenzione alla distinzione tra quelle realtà nate in contesti occidentali e urbanizzati e quelle più rappresentative dei paesi del Sud del mondo. Analizzando poi la definizione ufficiale data dal GEN, si toccano gli aspetti di “ruralità” e “intenzionalità” presenti nella tipologia di ecovillaggi da me studiati, in correlazione con i concetti opposti di “urbanità” e “necessità”.

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tra ecovillaggi italiani e non, che evidenzia le peculiarità storiche, ideologiche e strutturali del contesto comunitario nostrano, tra cui spiccano la solidità e la vitalità della rete nazionale.

Il quinto capitolo affronta la parte più tradizionale della ricerca: dopo un breve

approfondimento di due concetti particolarmente cari al mondo degli ecovillaggi, permacultura e sostenibilità, che ne rappresentano bene gli elementi di comunanza nonostante le diversità interne, vengono analizzate nel dettaglio due realtà comunitarie italiane che invece, sotto diversi aspetti, rappresentano bene la diversità intrinseca al movimento. La prima è la Città della Luce, ecovillaggio e scuola olistica in provincia di Ancona con una popolazione relativamente numerosa (se comparata alla media degli ecovillaggi italiani), una struttura abitativa stabile, un’economia completamente interna e condivisa e una propensione spiccatamente spirituale e relazionale; la seconda è Habitat, ecovillaggio in costruzione e progetto di permacultura in provincia di Firenze, una realtà molto giovane, con un numero di membri precario e in costante fluttuazione, una situazione abitativa mobile (camper, tende, case in auto-costruzione) e una tendenza maggiormente laica, pragmatica e agricola.

In entrambi i casi, dopo una narrazione di “entrata” nel campo, una breve storia dell’evoluzione dei due progetti e la descrizione della quotidianità in ciascun ecovillaggio, con particolare attenzione alle pratiche per raggiungere l’autosufficienza e la sostenibilità caratteristiche del movimento, mi soffermo sulle relazioni che le comunità intessono sia tra i loro membri, sia con l’esterno, sia con l’ambiente circostante. Questo perché è nell’attitudine relazionale, e in particolare nella sua natura “profonda”, che spesso risiede il successo della vita comunitaria.

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CAPITOLO PRIMO

1. IL PECCATO ORIGINALE DELL’ANTROPOLOGO: FARE RICERCA

A CASA

“‘Anthropology begins at home’ has become the watchword of modern social science” (Bronislaw Malinowski, Introduzione a Facing Mount Kenya di Jomo Kenyatta, 1959) “Anche compiendo un viaggio indiscutibilmente breve […] si varca un confine”

(Pierpaolo Viazzo, Uno sguardo da vicino. L’antropologia alpina fra esotismo e domesticità, 2003)

1.1. Cosa significa fare antropologia a casa?

È difficile delimitare univocamente quello che viene definito con il termine “casa”, un concetto da cui non possiamo estrapolare il bagaglio soggettivo che le si attribuisce ogni volta che lo utilizziamo analiticamente. Cosa si intende per fare ricerca a casa? Fare ricerca nella propria nazione? Nell’epoca contemporanea in cui migrazioni, capitalismo globale e Internet rendono qualsiasi processo culturale un fenomeno transnazionale o in qualche modo connesso causalmente al resto del mondo, è difficile e poco produttivo definire una cultura nazionale. Fare ricerca in contesto occidentale? Come affermato da Ulf Hannerz nella sua descrizione delle società complesse (Barnard e Spencer 2005), una delle loro caratteristiche principali è l’organizzazione della diversità, la presenza di numerose subculture interrelate, che rendono dunque difficile essenzializzare l’Occidente come contesto univoco che produce fenomeni culturali omogenei. Quale di questi poi verrebbe definito “casa”?

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propria società. Questa diversità interna è sempre esistita: se un tempo era rappresentata da un passato in progressiva sparizione (spesso delegato agli studi demologici), successivamente, con l’aumento dei fenomeni di migrazione transnazionale e il riconoscimento delle minoranze, è diventato soprattutto una questione di etnicità. In seguito poi, una volta determinatasi come categoria di pensiero a sé stante, si è allargata anche alle distinzioni di classe, di genere, di età e persino di stili di vita (Hannerz 2012), come nel caso della mia ricerca.

La varietà terminologica con cui l’antropologia a casa viene identificata evidenzia la difficoltà nel determinarla: alcune definizioni, come auto-antropologia, auto-etnografia,

peer-group research o antropologia introspettiva, ne sottolineano il carattere riflessivo, e

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norme a cui lei in quanto donna indipendente e lavoratrice non aderiva in pieno. Similmente, Craig Molgaard ed Elizabeth Byerly (1981) raccontano come, durante una ricerca sulla medicina New Age in una comune nordamericana, a causa del diffuso anti-intellettualismo e dell’atteggiamento di diffidenza nei confronti dell’ordine costituito tipici del movimento hippie inizialmente fosse stato necessario lavorare sodo per superare una aprioristica diffidenza ideologica, nonostante gli interlocutori appartenessero allo stesso gruppo etnico (maggioritario) e avessero spesso la stessa età ed estrazione sociale dei ricercatori. Nel mio caso, malgrado le comunanze culturali e sociali tra me e gli abitanti degli ecovillaggi che ho frequentato, una relativa distanza e uno spiazzamento si sono comunque prodotti, poiché individui con una storia di vita così simile alla mia (o a quella dei miei genitori e dei miei nonni) stavano intraprendendo un percorso che come si vedrà in seguito li avrebbe condotti a scelte di vita radicali e a modificare gran parte delle abitudini quotidiane in cui mi riconosco culturalmente.

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e giudicare, l’antropologia a casa rappresenta sicuramente una contrazione spaziale (più o meno grande) del triangolo relazionale che rappresenta il lavoro etnografico, formato dal ricercatore, i soggetti della ricerca e il pubblico per il quale l’etnografia è pensata (Hannerz 2012), fino all’estrema coincidenza del primo coi secondi, o dei secondi col terzo.

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ho selezionato per definire la mia ricerca at home, è per me ulteriormente difficile distinguere tra la nozione di casa e quella di campo, non solo perché il secondo rientra nella prima sia spazialmente che concettualmente, ma anche perché l’esperienza etnografica è per me uno di quei momenti di riflessione, crescita e acquisizione di conoscenza che costituiscono la mia nozione di familiarità, e che quindi mi fanno sentire “a casa”.

1.2. La distinzione tra “casa” e “campo”

In antropologia la distanza classica tra “casa” e “campo” è stata fin dagli inizi identificata con la realtà empirica e metaforica del viaggio (cfr. Clifford 1997), presupponendo che la prima rimanesse immutata lì dove l’abbiamo lasciata al momento della partenza. “Casa” è ciò che è noto, familiare, ordinario e rassicurante, contrapposto al “campo” che deve rappresentare invece qualcosa di ignoto, inconsueto, stimolante, faticoso e pericoloso (in questo ultimo caso spesso costruendo una discriminazione di genere), un mondo sconosciuto in cui si approda con l’entusiasmo dell’esploratore. Solo allontanandosi dal consueto infatti si ritiene di poter creare quella frattura tra appartenenza e alienazione (Knowles 2004), quell’esoterismo che rende il lavoro sul campo l’esperienza che dà valore all’etnografia intera. La distinzione tra casa e campo è inoltre costruita su opposizioni binarie che discriminano soggetti antropologici eterogenei rispetto allo stereotipo dominante: così lo spazio domestico è tipicamente femminile mentre quello dello spostamento è maschile; l’insoddisfazione e il desiderio di conoscere ed esplorare è borghese mentre il povero, presumibilmente poco istruito, sta bene dove sta; il cittadino occidentale è cosmopolita e senza radici mentre quello non occidentale o non cittadino è più radicato nel proprio ambiente naturale e nelle proprie tradizioni locali (cfr. Clifford 1997).

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porta alla costruzione della “antropologicità”, una sorta di immersione graduale nell’alterità per prepararsi allo stupore che attende l’etnografo sul campo. È per questo che a Joanne Passaro (1997), mentre faceva ricerca tra i senza tetto della sua città, New York, qualcuno fece notare quanto fosse inconcepibile che prendesse la metropolitana per raggiungere il campo : per la “facilità” (e dunque superficialità) dell’esperienza 9 etnografica, data la distanza sociale apparentemente nulla; per la quotidianità dell’esperienza, priva del romanticismo insito nell’idea di “viaggio etnografico”; perché infine la metropolitana è la quintessenza degli ambienti più caotici, stratificati e ingestibili presenti sul pianeta, le metropoli appunto, in cui è difficile condurre un’etnografia appropriata.

Per raggiungere il mio campo di ricerca, essenzialmente raduni, corsi, conferenze e quant’altro si teneva nei diversi ecovillaggi, cohousing o progetti di comunità sparsi per l’Italia, il mezzo di trasporto prediletto dai miei interlocutori era l’auto condivisa: sia perché spesso i luoghi non erano raggiungibili con i trasporti pubblici, sia perché socialità e sostenibilità sono una parte fondamentale di qualsiasi evento RIVE, indipendentemente dal tema specifico dell’incontro. Autonomamente, o tramite eventi appositi creati dalla RIVE sui siti di car sharing (come Blablacar o Roadsharing), coloro che partecipano tendono a organizzarsi per condividere il viaggio, invitati dalla RIVE stessa a cercare di diminuire il più possibile l’impronta ecologica necessaria per raggiungere il luogo di incontro (invito esplicitato anche negli Accordi di Base dell’associazione). Oltre all’aspetto ecologico, i viaggi condivisi sono sempre un’ottima occasione per stringere delle relazioni dirette prima di arrivare in un luogo dove potrebbero esserci centinaia di persone e dove spesso si va da soli; inoltre, spesso sono

“You can’t take the subway to the field!” è il titolo del suo saggio, considerato ironicamente come 9

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viaggi lunghi e se vogliamo “avventurosi”, data l’ubicazione di molte comunità in contesti rurali o montani di difficile accessibilità. Per me ovviamente erano anche un’ottima occasione per condurre conversazioni informali con cui potevo sondare il terreno sulle storie di vita e le ragioni di coloro che decidevano di partecipare agli incontri, coadiuvata da quell’intimità che si crea ogni qualvolta si condivide con estranei uno spazio ristretto, un tempo sospeso e una condizione scomoda o anche solo molto noiosa. In qualche modo perciò il viaggio nella mia etnografia ha effettivamente rappresentato quell’immersione graduale nella diversità che mi apprestavo a studiare, nonché uno strumento analitico caratterizzato dall’esperienza di condivisione con i miei interlocutori.

Un tempo dunque era il concetto stesso di casa e tutto ciò che rappresentava a definire quello di campo. Oggi tuttavia, non solo l’idea di casa e la casa stessa possono mutare nel corso della ricerca, influenzati dalla precarietà e dalla mobilità internazionale che caratterizzano la vita accademica; ma lo stesso campo e chi lo anima tende a cambiare posizionamento in maniera a volte repentina sotto gli occhi stessi dell’etnografo, sotto l’influenza di guerre, crisi economiche, dislocamenti forzati e così via (cfr. Norman 2004). La mobilità dei due concetti ha fatto sì che spesso non sia più possibile riconoscere una differenza (spaziale, ma non solo) così netta come un tempo.

Una volta violata questa distinzione simbolica tra casa e campo (Knowles 2004), come ricostituire dunque la validità del campo di ricerca?

In primo luogo, accogliendo la consapevolezza che la distanza necessaria per creare quella frattura che spinge all’approfondimento analitico non è soltanto fisica.

Come afferma Caputo,

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Se dunque consideriamo il viaggio come inteso da Clifford (1997), cioè come un insieme di pratiche più o meno volontarie legate all’allontanamento da un contesto familiare (dovunque e comunque sia considerato) in cerca di conoscenza, saggezza, differenza, avventura, una nuova prospettiva, un’esperienza eccitante, edificante ed estraniante, ecc., allora la distanza fisica che percorriamo per fare ricerca sul campo diventa insignificante.

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interessi scientifici; è tuttavia necessario riconoscere quanta parte gioca la biografia dell’etnografo per evitare di cadere in mal celate discriminazioni professionali.

Per quanto mi riguarda, la scelta di concentrarmi sulle relazioni italiane della rete transnazionale degli ecovillaggi è stata in parte autobiografica, poiché all’inizio del mio dottorato avevo appena iniziato a costruire una famiglia in Italia. La definizione del campo era dunque anche un modo per rimanere vicina alle persone che amo e continuare a frequentare le reti di attivismo di cui già facevo parte, reti che si sono poi rivelate fondamentali per la ricerca stessa. Successivamente però, il mio compagno ha trovato lavoro negli Stati Uniti e ci siamo trasferiti nello stato di New York. Questo da una parte ha ampliato la mia rete di conoscenze nel mondo degli ecovillaggi, permettendomi di entrare in contatto con alcune comunità molto note all’interno del movimento globale (come L.A. Ecovillage in California e Ithaca Ecovillage nello stato di New York), di visitare luoghi storici del comunitarismo utopico come Oneida (NY) e di trascorrere un periodo di tempo continuativo in un ecovillaggio americano (Le Case Ecovillage, a San Diego) ; dall’altra parte la distanza ha trasformato la relazione con i 10 miei precedenti interlocutori, basandola unicamente su comunicazioni di tipo elettronico (email, videochiamate e videoconferenze, messaggeria instantanea, chat). La lontananza mi ha permesso di entrare nel gruppo che gestisce la comunicazione della RIVE (poiché era l’unico supporto concreto che potevo dare alla rete come attivista a distanza) e, in tal modo, di creare nuovi rapporti e stringerne maggiormente altri, diventare uno dei punti di riferimento per il network nazionale e per quello europeo e avere accesso a comunicazioni in cui si discutono tematiche fondamentali per la mia ricerca. Allo stesso tempo, la comunicazione remota ha fornito numerosi spunti di riflessione sul valore preponderante che ricoprono le relazioni vis-à-vis all’interno della

Le visite e i periodi trascorsi negli ecovillaggi e nelle comuni americane non rientrano ufficialmente 10

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rete. Paradossalmente dunque, in campi in cui il gruppo sociale analizzato è così disperso e si riunisce solo sporadicamente, la cosa più simile a quell’osservazione partecipante continua e approfondita tanto cara alle etnografie classiche sono proprio le comunicazioni elettroniche (Amit 2004b). La presenza della tecnologia nelle pratiche e nelle relazioni della vita quotidiana è un dato talmente costante nelle etnografie contemporanee che le critiche a una ricerca parzialmente condotta tramite connessioni remote (cfr. Hastrup e Hervik 1994) hanno ormai perso gran parte del loro senso. Oggi poi è scomparso anche il carattere elitario dei decenni precedenti, che relegava l’accesso alle comunicazioni multimediali a determinate classi sociali; infine, queste non hanno più solo lo scopo di migliorare la comunicazione, ma sono diventate anche veri e propri luoghi di produzione di significati culturali (Pink 2004).

1.3. Vantaggi e svantaggi della ricerca at home

Analizzare un fenomeno sociale prodotto dal nostro stesso ambiente socio-culturale implica una serie di vantaggi e svantaggi all’apparenza evidenti. Tuttavia, tra le caratteristiche peculiari dell’antropologia a casa molte risultano controverse, a seconda di chi ne fa menzione e per quali ragioni (cfr. Messerschmidt 1981; Jackson 1987; Gupta e Ferguson 1997a; Amit 2004; Hannerz 2012). In ogni caso, è fuor di dubbio che condurre un’etnografia at home stia diventando sempre più comune, sia che venga considerata antropologicamente valida o meno. Va inoltre sottolineato che tale giudizio di validità si basa esclusivamente sulla scelta del campo e dell’oggetto della ricerca, preponderanti nel determinare l’antropologia “autentica” (Gupta e Ferguson 1997a), e non sulle metodologie, la prospettiva teorica e le competenze del ricercatore (cfr. Weston 1997).

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queste c’era la drastica diminuzione dei fondi alla ricerca scientifica, per cui condurre un’etnografia entro i propri confini nazionali risultava spesso l’unica opzione disponibile ; a ciò poi si aggiungeva l’ingresso progressivo nel mondo della ricerca di 11 esponenti di minoranze etniche e sociali, che, per quanto fosse un dato intrinsecamente positivo, comportava una maggiore competizione non solo per il reperimento dei finanziamenti ma anche in merito al “diritto” di parlare in nome dei propri concittadini. Inoltre, con il compimento graduale del processo di decolonizzazione, il rifiuto da parte di alcuni paesi di accogliere ricercatori accomunati con i precedenti dominatori si stava facendo sempre più concreto da una parte e, dall’altra, una disciplina che si occupava esclusivamente dell’umanità “non occidentale” cominciava a risultare poco accettabile sia moralmente sia da un punto di vista politico e intellettuale (Hannerz 2012). Infine, la sempre maggiore specializzazione in sottodiscipline (antropologia urbana, antropologia medica, ecc.) permetteva a molti ricercatori di lavorare fuori dal mondo accademico, mettendo le conoscenze antropologiche al servizio delle istituzioni locali. Hannerz (2012), da una prospettiva più recente, sottolinea che se il compito dell’antropologia è quello di esplorare la diversità, oggi ce n’è abbastanza a casa senza la necessità di spostarsi altrove; anzi, avrebbe poco senso escludere tale diversità solo in base a un criterio di vicinanza. L’antropologo svedese cita inoltre un’ulteriore motivazione spesso taciuta, ovvero il fatto che la tendenza odierna ad accelerare i percorsi di studio per equipararsi alle necessità del mondo lavorativo rendono ancor più difficile portare avanti una ricerca di stampo classico, quella che per intenderci Evans-Pritchard riteneva dovesse comprendere due anni di preparazione teorica, l’ottenimento di un finanziamento, due anni sul campo, altri cinque anni almeno per elaborare e pubblicare i risultati della ricerca e, implicitamente, una condizione di vita libera da qualsiasi altro

In Italia la situazione è probabilmente anche peggiore: ricordo un professore al primo anno di 11

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impegno professionale o familiare (Hannerz 2003). Tali condizioni sono evidentemente difficili da raggiungere oggi ancor più di ieri, eppure questo modello continua ad avere un ruolo predominante nelle modalità di concezione e insegnamento della materia, creando una dissonanza sempre più crescente tra i progetti di ricerca scritti e i siti e i metodi di ricerca concretamente vissuti (Des Chene 1997), tanto che, da antropologi neofiti, oggi ci si forma con una nostalgia intrinseca per una mancanza a priori, quasi che il campo classico fosse il peccato originale dell’etnografo contemporaneo.

Sembra quasi scontato sottolineare che fare ricerca a casa porti una serie di evidenti vantaggi pratici, come un linguaggio veicolare - verbale e non - condiviso da tutti i poli della relazione etnografica, il risparmio economico dovuto a viaggi più brevi, una quantità maggiore di conoscenze e informazioni preliminari, un accesso al campo più facile e veloce e la possibilità di potervi tornare più frequentemente, intervallando così le fasi di raccolta dati a quelle di elaborazione degli stessi. In generale, fare ricerca a casa spesso comporta condizioni di vita più agevoli (“un lavoro sul campo senza pillole della malaria”, come ironicamente osservato da Hannerz 2012: 92) e la mancanza di tutte quelle conseguenze relative all’isolamento e alla nostalgia di casa che rendono così difficile (e per alcuni significativa) l’esperienza.

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