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CAPITOLO PRIMO

1. IL PECCATO ORIGINALE DELL’ANTROPOLOGO: FARE RICERCA A CASA

1.4. La diffidenza del mondo accademico

Un’ultima difficoltà connessa al fare ricerca a casa, nonostante questa sia molto più diffusa che in passato, è il fatto che continui a sollevare voci di dissenso in ambiente accademico.

Da un punto di vista più politico c’è chi ritiene che, esistendo già molte altre discipline accademiche che si focalizzano sulla società e la cultura occidentali, sia un dovere dell’antropologia farsi portatrice degli interessi dei “senza voce” e delle popolazioni non occidentali.

Da un punto di vista più epistemologico c’è invece chi la considera alla stregua di un’analisi folklorica, disciplina dal passato problematico poiché, se in alcune tradizioni accademiche (come quella statunitense) non si è mai radicata ed è rimasta dunque incompresa o ignorata, in altre ha avuto forti connessioni con i regimi autoritari che auspicavano la costruzione di una identità nazionale forte e compatta selezionando arbitrariamente dal passato locale (Hannerz 2012), e dunque viene considerata priva di quella libertà scientifica necessaria al raggiungimento di una profondità teorica.

Infine, anche dal punto di vista metodologico sembra che alcune distinzioni tra un campo condotto “Qui” o “Altrove” siano ricorrenti: in generale, il secondo sembra 16 poggiare in maniera più noncurante sulla serendipità del campo e su una selezione arbitraria di metodi di raccolta dati, focus di ricerca e informatori, mentre al ricercatore a casa si richiedono giustificazioni e fondamenta epistemologiche più solide. Le cause

Cfr. Harry F. Wolcott (1981) per un’interessante constatazione delle differenze pratiche tra un campo 16

“Here” and “There” riguardo all’applicazione di meccanismi come l’empatia, la generalizzazione, la prospettiva, la relazione con il lavoro di altri esperti, ecc.

di una simile attitudine non sono state ancora accuratamente analizzate; a mio parere queste potrebbero risiedere nel fatto che “altrove” ci troviamo di fronte un intero sistema culturale a noi ignoto, da cui dobbiamo necessariamente estrapolare alcuni elementi e relazioni per poter condurre una ricerca efficiente. Al contrario, “qui” ci sentiamo che stiamo già analizzando solo una piccola parte di un complesso più ampio che sentiamo di conoscere meglio: di quel pezzetto dunque abbiamo la necessità e il dovere di cogliere e trasmettere il più possibile. È una sensazione che ho sperimentato personalmente per tutta la durata della mia ricerca sul campo, quando decidere di isolare un unico elemento del sistema culturale (l’alimentazione, il rapporto con l’ambiente, l’economia, il sistema educativo, ecc.) mi sembrava estremamente difficile e limitante.

Come affermato più volte, chi storce il naso nei confronti di una ricerca condotta vicino casa spesso la ritiene manchevole di quella distanza necessaria che si crea quando un elemento estraneo viene inserito in un contesto (Rapport e Overing 2003), distanza che l’antropologia classica creava rendendo l’etnografo invisibile nell’elaborazione scritta e scegliendo campi di ricerca il più lontano possibile dall’esperienza quotidiana (Amit 2004b). Tale mancanza impedirebbe sia agli interlocutori che al ricercatore di riflettere su quelle nozioni e quelle pratiche messe in atto inconsciamente nella quotidianità, così da richiedere necessariamente all’antropologo una comparazione con etnografie extra-occidentali e, di conseguenza, subordinando l’antropologia at home a quella tout court (Rapport e Overing 2003). A tal riguardo, bisogna innanzitutto sottolineare come questa distanza invocata dall’antropologia classica sembri applicarsi solo ai “visi pallidi indigeni del centro” (Hannerz 2012: 123), poiché i cosiddetti “ricercatori nativi” (termine intrinsecamente etnocentrico, dato che viene tradizionalmente applicato solo a coloro che sono nati e fanno ricerca in uno di quei luoghi esotici prediletti dall’antropologia classica) facevano ricerca “a casa” già ai tempi di Malinowski (cfr. Hannerz 2012). Il padre dell’antropologia tuttavia auspicava la ricerca

a casa come un momento preliminare e necessario alla successiva etnografia all’estero: “we must start by knowing ourselves first, and only then proceed to the more exotic savageries” (Malinowski in Kenyatta 1959: VII). A mio giudizio invece, il confronto necessario con le raccolte etnografiche extra-occidentali della tradizione antropologica non solo non è da considerarsi un limite per l’antropologia a casa, ma va inteso come uno dei suoi presupposti fondamentali, e non viceversa. Siamo infatti oggi in grado di rivolgere uno sguardo antropologico alla nostra società proprio perché ci siamo prima allontanati (personalmente o attraverso la disciplina) da quello che è familiare, dalle nostre abitudini, dalle nostre convinzioni culturali, da quello che avevamo sempre ritenuto “naturale” e di senso comune. La “cassetta degli attrezzi” che utilizziamo cioè per studiare un qualunque ambito sociale e culturale si è costituita e si va man mano costituendo in connessione (più che in comparazione) allo studio delle altre società (Remotti 1990). Cos’è d’altronde l’antropologia se non un giro più lungo per tornare a casa (Kluckhohn in Remotti 1990), quindi per conoscere meglio se stessi? Non è insolito infatti che l’altro venga considerato una sorta di specchio per far risaltare ciò che il pubblico che leggerà l'etnografia tende a considerare naturale o a dare per scontato nella società di appartenenza (Hannerz 2012), ed è ormai generalmente riconosciuto che il testo etnografico non sia che una finzione narrativa utile a chi lo produce (l’antropologo, l’accademia a cui si rivolge e la società più ampia in cui si colloca) per meglio comprendere la diversità (Matera 2017). In accordo con la decostruzione del concetto di campo (si veda a tal proposito il capitolo successivo), questo stesso può essere visto come un meccanismo per creare l’altro in quanto forma distinta di umanità nel dialogo con se stessi (Knowles 2004). Era più che scontato dunque che prima o poi saremmo tornati a casa, con la consapevolezza di poter osservare ciò che ci è familiare con uno sguardo nuovo nato dal confronto con l’altro, ma anche con la consapevolezza di quelle lenti culturali etnocentriche che non possiamo mai toglierci e con cui osserviamo la diversità. Del resto,

“Although cross-cultural fieldwork has been (and, I am quite certain, will continue to be) the sine qua non for the individual ethnographer, the most important consequence of the cumulative ethnographic endeavor is not an accumulation of hard-won insights into the lives of members of remote societies, but the cross-cultural perspective it provides for examining our own lives.” (Wolcott 1981: 255).

Nella mia personale esperienza nel mondo degli ecovillaggi, il riconoscimento della loro peculiare diversità, ovvero il lavoro costante sulle relazioni che portano avanti per raggiungere un equilibrio con l’ambiente naturale e sociale e recuperare un senso di condivisione, radicamento e appartenenza ritenuti ormai perduti, mi è servito per vedere più chiaramente alcune delle mie mancanze e alcune delle necessità del mio ambiente sociale di cui non ero completamente cosciente, scoprendo così le motivazioni profonde che risiedono alla base del mio interesse nei confronti di realtà simili. E questo a due passi da casa.

1.4.1. Il disagio nei confronti delle esperienze comunitarie

Per quanto riguarda la diffidenza e lo scetticismo dell’antropologia accademica nei confronti della mia ricerca nello specifico, questi si sono rivelati maggiormente legati alla scelta precisa dell’oggetto di studio, piuttosto che a un generico ostracismo nei confronti di ricerche condotte in contesto occidentale (per quanto, come spiego più avanti, i due aspetti non sono poi così scollegati tra di loro). La tradizione antropologica infatti, tradizione peraltro influenzata da meccanismi istituzionali, di prestigio e di potere che di fatto determinano quali oggetti di ricerca possano godere di legittimità intellettuale e di supporto economico (Gupta e Ferguson 1997b), ha cristallizzato una gerarchia di purezza riguardo all’”antropologicità” o meno degli ambiti di ricerca, nella quale apparentemente gli ecovillaggi si trovano molto in basso.

Durante i primi tentativi di riportare la mia esperienza sul campo in ambito accademico, notavo come un certo disagio accompagnasse i miei resoconti, spesso mascherato da risatine e battutine. Era come se quella sospensione del giudizio, quella tolleranza, quel relativismo culturale che come antropologi impariamo ad allenare in contesti lontani da noi non potessero applicarsi nelle immediate vicinanze, in particolare con quei membri della nostra società che riteniamo “etnocentrici" perché incapaci di contestualizzare i concetti e le credenze altrui (Gellner 1973). Un atteggiamento più giudicante e intollerante e una mancanza evidente di pazienza e sensibilità è qualcosa che ho riscontrato non solo tra i miei colleghi, ma che ho messo involontariamente in atto io stessa durante l’osservazione partecipante, se comparo questo lavoro con quello portato avanti in contesti a me più estranei. Quando mi trovavo ad Habitat per esempio ero particolarmente allergica a tutti i comportamenti che ritenevo contraddittori rispetto ai valori comunemente professati dagli ecovillaggi, in particolare eticità e sostenibilità; tuttavia, comparando quello che stavo effettivamente vivendo in quell'ecovillaggio toscano con alcune situazioni che avevo vissuto in Bolivia, con individui che lavoravano costantemente per il rispetto della madre Terra ma poi magari bruciavano i rifiuti (compresi quelli tossici) nel campo dietro casa, mi rendevo conto di quanto fossi più propensa a relativizzare i comportamenti di coloro che si trovavano culturalmente più lontani da me.

Come racconta Caputo (2004), nonostante l’impegno profuso nel difendere l’importanza di studiare un gruppo sociale cruciale per capire un mondo in rapido cambiamento (i bambini per lei, le comunità ecosostenibili per me), e nonostante gli sforzi per assicurare (e rassicurarsi) che il campo “a casa" avesse tutte le caratteristiche di un “vero” campo (il viaggio, la full immersion in un contesto non familiare, il rito di iniziazione, il continuo movimento “fuori e dentro”, ecc.), alcune tematiche continuano a collocarsi al limite di ciò che è considerato accettabile in antropologia.

Tra le conseguenze di tale atteggiamento può riscontrarsi la lacuna antropologica nell’analisi del movimento comunitario, fenomeno tipicamente occidentale. Questa a sua volta probabilmente si lega alla compartimentalizzazione disciplinare delle scienze sociali, per cui agli antropologi spettano le proteste dei contadini, dei poveri nelle metropoli del Sud del mondo, delle minoranze etniche e delle sette sincretiche o millenariste, mentre tutti gli altri tipi di mobilitazione in contesti occidentali sono lasciati a sociologi, storici e scienziati politici (Edelman 2001).

In questa “divisione accademica del lavoro” (ibidem) i fenomeni comunitari contemporanei rimangono in zone di “fuori gioco”, ai margini dello studio antropologico poiché non rientrano in nessuna delle attuali classificazioni culturali (Stoczkowski 2001): si comportano come “tribù”, ma si trovano in contesto occidentale; fanno agricoltura, ma non vengono considerati “veri contadini”; credono nell’avvento di una “Nuova Era”, ma non rientrano in nessuna religione millenarista; fanno parte di un movimento migratorio interno, ma non rappresentano quei fenomeni di dislocamento forzato di minoranze vulnerabili e marginalizzate, anzi al contrario sono composti da cittadini di classe media in cerca di uno stile di vita migliore (cfr. Pink 17 2004).

Wiktor Stoczkowski (2001) suggerisce ci siano ancora ambiti di studio in contesti occidentali che, proprio perché “troppo vicini”, gli antropologi considerano in qualche modo inopportuni, offensivi, ridicoli o futili, e che per questo difficilmente diventano oggetto di studio. Il suo caso specifico riguarda l’occultismo e le pseudo-scienze; nel mio caso ritengo che le correnti New Age, le teorie complottiste e le realtà comunitarie (considerando che queste ultime hanno un certo collegamento con entrambe), suscitino in ambito antropologico un medesimo disagio e scetticismo. Questa è un’eredità che

Definite di volta in volta “neorurali” (Hervieu and Léger 1983; Nogué 1988) o back-to-the-land (Jacob 17

anch’io mi sono portata dietro durante le mie prime ricognizioni del fenomeno comunitario, con un bagaglio di preconcetti legato non solo alla diffidenza incorporata nel percorso accademico, ma anche a una conoscenza superficiale che non aveva alcun fondamento analitico o esperienziale, ma si limitava a espressioni artistiche (film, serie TV e romanzi) o alle informazioni di seconda mano che circolano negli ambienti radicali ambientalisti.

Più che inopportuno in realtà, quello dei fenomeni comunitari in contesto occidentale sembra esser considerato dall’accademia un argomento futile: durante una conferenza sulle migrazioni, a un’antropologa che si occupava di cosiddette “life-style migrations”, ovvero quelle migrazioni non forzate che riguardano individui di classi medie e istruite in cerca di un lavoro e una qualità della vita superiore (di cui molti dei giovani accademici contemporanei fanno parte), fu fatto notare dal pubblico che un’antropologia delle migrazioni che non abbia come obiettivo primario aiutare i settori più vulnerabili e marginalizzati della società sia da considerarsi inutile (Pink 2004). Gabriella D’Agostino nell’editoriale del numero di “Archivio Antropologico Mediterraneo” dedicato alla decostruzione del campo di ricerca, pur affermando che l’etnografia oggi si fa e deve farsi sempre di più a casa, e che “la nozione di campo deve accogliere nuovi contenuti e farsi sempre più interdisciplinare, costruendo nuovi “oggetti”, ricercando modi adeguati per applicare sensibilità e “cassetta per gli attrezzi” a contesti spesso dall’accademia ancora ritenuti off limit”, sottolinea altresì che bisogna farla “in tutte quelle istituzioni e luoghi preposti alla riproduzione di assetti sociali, alla formazione di individui, alla costruzione e gestione dell’’ordine’ che non ammette eccezioni, che riproduce gerarchie, che ribadisce ‘poteri’, più o meno potenti e sottili, che stabilisce chi è ‘dentro’ e chi è ‘fuori’, chi ‘dà’ e chi ‘prende’” (2013:7). Per quanto questa missione sia encomiabile e perseguibile, è evidente la persistenza di una gerarchia nelle tematiche di cui l’antropologia può e dovrebbe occuparsi.

Normalmente, quando ci si trova di fronte a fenomeni come quello delle comunità intenzionali, la tendenza dell’antropologia è quella di “antropologizzarli”, analizzandoli cioè come “nuove tribù” e studiandone le pratiche e i discorsi come fossero “riti e miti moderni”, senza nulla aggiungere né alla complessità che li caratterizza, né ai filoni di studio a cui si attinge (Stoczkowski 2001); oppure di ignorarli, perché si ritiene che siano essi stessi a voler esotizzare la cultura occidentale, costruendo a tavolino un’alternativa sociale che non nasce da un’evoluzione o da una rottura spontanea all’interno della società in cui emerge, ma si avvale di un’incongrua e confusionaria appropriazione indebita di tradizioni altrui, alla ricerca di un’astorica “autenticità”.

Pur non negando che questo avvenga, non lo ritengo però motivo valido per considerare fenomeni simili a quello comunitario privi di interesse antropologico: innanzitutto, perché il ruralismo idealizzato e l’autenticità fuori dal tempo che gli ecovillaggi in parte esprimono hanno radici profonde in un immaginario occidentale che la prima antropologia e le scienze sociali cugine hanno contribuito pesantemente a creare. Secondo poi, perché le comunità intenzionali sono un’espressione culturale diffusa e ricorrente nel mondo industrializzato, che emerge in concomitanza con epoche in cui alcuni valori alla base vengono percepiti in crisi e che negli ultimi anni ha avuto un incremento esponenziale in tutti i paesi non solo occidentali ma anche occidentalizzati . La diffusione globale degli ecovillaggi è dunque diretta conseguenza 18 della diffusione globale di uno stile di vita neoliberale e della frammentazione delle ideologie, per cui gli attori sociali sempre più spesso producono autonomamente i modelli culturali di cui hanno bisogno, attingendo un po’ ovunque grazie ai media.

Non è un caso infatti che i paesi dell’Europa meridionale (nello specifico Italia, Penisola Iberica, Grecia 18

e Slovenia) abbiano visto un incremento esponenziale nel numero di progetti di ecovillaggio a partire dalla crisi economica del 2008, e lo stesso sia avvenuto negli Stati Uniti a ridosso della Grande Depressione del ’29, quando il movimento comunitario che sarebbe poi esploso negli anni ’60 iniziò a fare

Terzo, perché gli ecovillaggi propongono soluzioni concrete a problemi reali percepiti da gran parte della società, come la distruzione del pianeta, la mancanza di relazioni significative e di strategie efficaci di gestione del conflitto, la disoccupazione e la crisi economica, ecc. Infine, perché, anche se non rispecchiano precisamente i soggetti marginali e marginalizzati di cui tradizionalmente l’antropologia si occupa, gli abitanti degli ecovillaggi rappresentano comunque individui politicamente ed economicamente senza voce (Matera 2013), dominati da un sistema (quello capitalista e industriale) in cui, un po’ per contingenze esterne un po’ per scelta consapevole, vivono ai margini, poco si identificano con la comunità di appartenenza e anzi si spostano volontariamente verso i suoi confini più esterni per esercitare più liberamente il proprio atteggiamento critico. Rappresentano dunque in pieno quegli individui considerati dal proprio contesto sociale irrilevanti, insoliti o marginali, per i quali l’antropologia dovrebbe costituire una delle poche piazze dell’accademia in cui possono esprimersi e dove vengono presi seriamente in considerazione (Gupta e Ferguson 1997b).

1.4.2. I pregiudizi sul vivere comunitario

Uno dei primi spunti di ricerca che ho seguito è stato quello di provare a capire e decostruire i preconcetti legati al vivere comunitario. Approfondendo la conoscenza del campo infatti, la maggior parte dei pregiudizi di cui ero a conoscenza si è rivelata infondata o comunque non determinante nella comprensione del movimento. Molti di questi nascevano da una conoscenza superficiale delle comuni degli anni ’60, prevalentemente letteraria, mediatica o cinematografica, e anche quelli che potevano avere un fondamento di verità all’epoca hanno poco a che vedere con le realtà contemporanee. Avendo riscontrato questa mancanza di approfondimento anche in contesto accademico, e avendola trovata poco coerente con la pratica etnografica, inizialmente mi sono soffermata a riflettere sulla natura, l’origine e il significato dei luoghi comuni più noti. In particolare mi sono chiesta perché prevalesse una concezione

così ideologicamente orientata del vivere in comunità e quanto questa dipendesse dal fatto che tali “realtà parallele” nascano e si sviluppino nel nostro stesso ambiente culturale. Consapevole dell’ostracismo delle scienze sociali nei confronti degli stereotipi culturali, ho cominciato a riflettere sui loro aspetti in qualche modo più positivi, pensandoli come risorse cognitive a disposizione degli individui e dei gruppi per mantenere un senso di appartenenza e un ancoraggio a un panorama sociale ben definito (Rapport e Overing 2003). Questa necessità è ancora più sentita nella complessità e frammentazione del mondo contemporaneo, specialmente quando tale distinzione è necessaria “a casa propria”. Sebbene abbia poi messo in secondo piano tale problematica, il riflettere sui pregiudizi nei confronti delle realtà comunitarie mi ha aiutato a comprendere meglio la natura del mio oggetto di studio e la sua relazione con la società esterna.

Tra i cliché più comuni che circolano sulle comunità alcuni si fanno particolarmente strada nell’immaginario dell’opinione pubblica: tra questi ci sono l’idea che in comunità si pratichi l’amore libero, che la struttura sociale sia settaria e gerarchica, che un eccessivo idealismo impedisca la realizzazione di soluzioni concrete, che si lavori di più ma si viva di stenti, che i membri siano esclusivamente giovani e che nessun esperimento perduri nel tempo, dunque che queste siano esperienze elitarie che possono far parte della vita di un individuo solo se limitate nel tempo e se si ha una discreta sicurezza economica, come una sorta di rito di passaggio che si compie prima di entrare nella “vita reale” adulta.

In realtà, gran parte di queste idee corrisponde ben poco alle situazioni riscontrate sia nella letteratura sugli ecovillaggi che nelle svariate comunità da me osservate. La sperimentazione sessuale tipica delle comunità anni ’60 ad esempio è oggi sempre più rara (un’eccezione è l’ecovillaggio tedesco ZEGG), sostituita da relazioni a lungo termine e da un atteggiamento nei confronti dei rapporti affettivi spesso più moralista di quello della società esterna (Metcalf 2012), incentrato sull’esigenza di relazioni più

profonde, durature e significative. Così la famiglia, sebbene allargata oltre la concezione convenzionale e mononucleare del termine, ma comunque spesso fondata su una relazione monogamica, è alla base della maggioranza delle comunità (cfr. Bramanti 2009; Sapio 2010).

Per quanto riguarda invece la struttura gerarchica tipica delle sette religiose, che spesso vivono in comunità, questa è molto lontana dai valori di base degli ecovillaggi, in cui le relazioni tra membri, come in gran parte delle esperienze alter-mondialiste, si fondano su cooperazione, condivisione e consenso, dunque su processi decisionali e operativi di tipo orizzontale. Ciò tuttavia non toglie che possano esserci figure più carismatiche di altre, soprattutto tra i fondatori, e che la presenza inconsapevole di gerarchie o l’importanza della leadership abbiano un peso all’interno del movimento e delle singole comunità.

Anche l’idea che gli ecovillaggi siano composti da un manipolo di treehuggers che passano le giornate a meditare o a fare uso di sostanze stupefacenti predicando la pace universale e l’amore fraterno è alquanto lontana dalla realtà: nonostante questi - l’ecologia profonda, le pratiche meditative, la nonviolenza e la solidarietà - siano tutti elementi presenti nel movimento, nel quotidiano gli ecovillaggisti studiano e sperimentano soluzioni pratiche e concrete all’insostenibilità del vivere quotidiano applicabili facilmente anche fuori dal contesto comunitario, come l’utilizzo della bioedilizia in associazione all’auto-costruzione, l’auto-produzione dei beni primari, la condivisione dei servizi per diminuire spese e sprechi, e così via. Discorso a parte quello sulle droghe: anche qui non solo la sperimentazione è quasi nulla se comparata a