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CAPITOLO TERZO

3. LA RETE DEGLI ECOVILLAGGI COME MOVIMENTO TRANS- E ALTER-GLOBALE

3.5. Ecovillaggi e alter-globalizzazione

Quella che io per semplicità definisco “alter-globalizzazione” è in realtà un fenomeno complesso e variegato definito a seconda delle fonti come movimento dei movimenti, movimento alter-globale o alter-mondiale, movimento per la giustizia globale, globalizzazione alternativa o dal basso, movimento no-global o anti-globalizzazione. Tutte le definizioni si riferiscono però alla stessa ondata transnazionale di lotta contro il sistema neoliberista che molti fanno convenzionalmente iniziare con le rivolte zapatiste degli anni ’90 (Graeber 2002; Juris 2008) e che guadagnò visibilità pubblica al cambio di millennio con le mobilitazioni di protesta e i contro-vertici organizzati in concomitanza di incontri politico-finanziari internazionali, come quello tenutosi a Seattle nel 1999 contro l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) (per cui spesso all’inizio il movimento veniva definito “Popolo di Seattle”); quelli di Praga contro il vertice della Banca Mondiale e di Washington contro il Fondo Monetario Internazionale nel 2000; quello di Genova in concomitanza del summit dei G8 del 2001 (Della Porta 2007; Juris 2008; Juris e Khasnabish 2013b). L’ondata convergerà e culminerà nel Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre nel 2001, evento pensato come contro-vertice del Forum Economico Mondiale che si tiene ogni anno a Davos, in Svizzera, e che come questo si è poi istituito in una piattaforma di scambio e collaborazione stabile, oltre a diventare luogo privilegiato di sperimentazione di forme di democrazia diretta (seppur con le sue contraddizioni, cfr. Pleyers 2004) e ad aver dato vita a numerosi forum paralleli, tematici e locali in giro per il mondo (Juris e Khasnabish 2013a; Carpano 2015).

La mancanza di una denominazione univoca sottolinea la natura di meshwork del movimento: questo è infatti composto da reti informali e solidali di individui, associazioni e organizzazioni molto diversi tra loro, connessi in maniera debole e variabile, privi di un’organizzazione interna strutturata e con una tendenza all’orizzontalità e alla de-centralizzazione, ma con obiettivi comuni di portata globale

(come il debito pubblico dei paesi del Sud del mondo o il cambiamento climatico). Nonostante infatti le numerose declinazioni che il movimento può prendere per quanto riguarda strategie e tattiche di protesta, estrazione etnica, sociale o politica dei membri, ubicazione geografica, obiettivi a breve termine, rapporti con le istituzioni, ecc., quello che accomuna tutti coloro che si sentono parte del movimento è, nelle parole di uno dei principali pensatori, “cambiare il mondo senza prendere il potere” (Holloway 2002): de-costruire cioè i valori e le regole della società dominante creandone di alternative in spazi autonomi di espressione, auto-determinazione e auto-gestione (Graeber 2002; Pleyers 2015).

Quasi nessuno degli attivisti si riconosce nelle denominazioni proposte, la maggior parte emersa in ambito accademico o giornalistico. I termini di natura oppositiva in particolare, come quello di no-global largamente diffuso in Italia, sono spesso stati utilizzati sia da parte di testate giornalistiche apertamente ostili, sia da quella stampa di sinistra preoccupata dal carattere prevalentemente anarchico del movimento, per enfatizzarne il presunto carattere violento e anti-sistemico (Graeber 2002). In realtà il movimento può dirsi tutto tranne che contrario alla globalizzazione: piuttosto, si pone in atteggiamento critico nei confronti del corporativismo, delle multinazionali e dell’accezione neoliberista del termine, limitato alla libertà di movimento di beni e capitale, proponendone una visione alternativa. Come afferma David Graeber:

“If one takes globalization to mean the effacement of borders and the free movement of people, possessions and ideas, then it’s pretty clear that not only is the movement itself a product of globalization, but the majority of groups involved in it — the most radical ones in particular — are far more supportive of globalization in general than are the IMF or WTO (2002:62).

Un’utile suddivisione per analizzare il polimorfismo del movimento è quella che opera Pleyers (2015) nel suo studio dell’”Alter-Europa” tra diverse “culture di attivismo”. Tra

queste culture militanti, che lui definisce come insiemi coerenti di agentività, azione e cambiamento sociale, si distinguono i movimenti di piazza, quelli per la transizione ecologica, gli attivisti esperti (cioè gli intellettuali impegnati) e gli “agitatori di folle”. I movimenti di piazza come gli Indignados, le cui azioni sono quelle che hanno la maggiore copertura mediatica, rappresentano in realtà solo la punta dell’iceberg di una “rete sommersa” (Melucci 1985) composta da cittadini e iniziative connesse da pratiche e valori comuni che sperimentano “in latenza” alternative concrete in ambito politico, economico, sociale, alimentare, ecc. nella sfera quotidiana, fino a quando le circostanze richiedono un’attivazione che li renda visibili. Se infatti gli Indignados cercano di mettere in pratica la loro idea di democrazia nei vari camping e presidi organizzati periodicamente, sono tuttavia quelli che Pleyers come me definisce “attivisti della transizione” che mettono in pratica un impegno prefigurativo costante nella loro vita quotidiana. Con lo scopo di implementare stili di vita più sostenibili, basati essenzialmente su un consumismo minore e un senso di comunità maggiore, questi attivisti cercano di “passare dalla produttività alla convivialità” (Illich 1973), creando un tessuto sociale più forte.

Come affermato in più occasioni, molti degli ecovillaggisti provengono da esperienze di militanza precedenti e per molti il passaggio dall’insoddisfazione per strategie di protesta più convenzionali all’approdo a forme di vita eco-comunitarie ha avuto come punto di transizione i forum sociali, i presidi e le altre forme di attivismo riconosciute nel movimento alter-globale. Veronica ad esempio, dopo anni dall’ultimo corteo a cui aveva partecipato, in cui sentiva di perdere tempo e vedeva che comunque le cose non cambiavano mai, sentì nuovamente un’esigenza di impegno civile con la manifestazione promossa dal movimento spagnolo del 15 maggio (15-M) che avvenne in molte città del mondo il 15 Ottobre 2011; da lì iniziò a partecipare giornalmente al presidio che si stanziò a Piazza del Popolo a Roma e successivamente decise prima di creare un circolo di decrescita nella propria zona e poi di sperimentare con una

comunità diffusa, per mettere in pratica quello di cui si discuteva ai presidi e che, per quanto stimolante perché proponeva soluzioni concrete, continuava di fatto a rimanere teoria. Alla domanda sulla relazione fra queste due fasi della sua vita, fra movimenti di piazza e movimenti di transizione, afferma dunque:

“Penso che entrambi i movimenti partono da una stessa esigenza, che è quella che mi ha spinto a comprare il libro [La Felicità Sostenibile di Maurizio Pallante, n.d.R.] e mi ha spinto ad andare alla manifestazione. Poi ognuno s’accontenta delle risposte…cioè a me le risposte che davano gli Indignados mi hanno aperto molte strade, perché ho capito tante cose, cioè è stata una bella parentesi per me, però…come ti posso dire, volevo concretizzare ecco, metterle in pratica. Sì in teoria è tutto molto bello, gli orti, le riunioni, “volemose bene”, ecc., ma come si mette in pratica tutta sta roba? […] Secondo me il movimento della decrescita voleva dare una risposta differente, cioè voleva dare una risposta più concreta, una risposta che partisse veramente dal basso. […] Cioè se noi non facciamo esperienza diretta non possiamo neanche sapere se funziona sta roba che è scritta! E quindi niente, io ho sentito l’esigenza di mettere in pratica tutti i concetti che mi erano chiarissimi, ma poi metterli in pratica è tutta un’altra cosa.” (Veronica, novembre 2017).

Malgrado le somiglianze, l’ampia letteratura dedicata al movimento alter-globale non cita mai gli ecovillaggi in questa tipologia di attivismo (fra le rare eccezioni, si veda Trainer 2002, i saggi raccolti in Lockyer e Veteto 2013 e Carpano 2015), persino quando si parla di movimenti di transizione, nonostante gli ecovillaggisti riassumano gran parte delle loro pratiche (consumo critico, semplicità volontaria, economie del dono e del baratto, filiere corte, auto-produzione, orti comunitari, ecc.). Sebbene sia vero che le comunità ecosostenibili di oggi rappresentino il prodotto finale di tutta una serie di sperimentazioni comunitarie che si sono succedute nella storia (come si vedrà nel capitolo successivo), piuttosto che il risultato di una volontà cosciente di far parte dell’ondata insurrezionale anti-capitalista degli ultimi decenni, le motivazioni e i valori

alla base, così come gli individui che ne fanno parte e gli anni in cui si sono sviluppate sono più o meno gli stessi. Inoltre, nonostante le associazioni di ecovillaggi non facciano mai ufficialmente menzione del movimento alter-globale, molte comunità più attive politicamente partecipano ad attività convenzionalmente riconosciute nell’ambito delle azioni alter-globali, e molti individui hanno partecipato a eventi connessi. Lo stesso GEN tramite i suoi membri e le sue sottodivisioni partecipa ormai da anni ai World Social Forum. D’altronde, come sopra menzionato, le definizioni del movimento sono spesso a uso e consumo accademico e giornalistico: molti attivisti non vi si riconoscono, molti non si considerano neanche attivisti (cfr. Pleyers 2015) e il movimento in quanto tale non crede nelle definizioni.

A mio parere dunque gli ecovillaggi possono essere considerati la punta di diamante e insieme la summa di questi movimenti, a cui danno un contributo originale nella sperimentazione più completa di pratiche prefigurative e nella connessione con i movimenti spirituali, come si vedrà nell’ultimo capitolo (cfr. Szerszynski 1992). Quello che negli altri movimenti è lasciato alla discrezionalità delle vite private dei singoli membri o è circoscritto ai momenti di riunione e attivismo collettivo, negli ecovillaggi viene sperimentato tutti i giorni, ventiquattro ore su ventiquattro, in tutti gli aspetti della vita quotidiana. Ai membri del movimento si richiede dunque un impegno e un coinvolgimento maggiore e più prolungato nel tempo rispetto agli altri movimenti di transizione, impegno che spesso implica abbracciare uno stile di vita radicalmente nuovo, condividere uno spazio abitativo o trasferirsi in un contesto rurale. Ma questo coinvolgimento totale significa anche che le sperimentazioni sociali, politiche, agricole, ecc. avvengono in maniera più concreta ed efficace. Questo perché, come affermò durante un raduno Macaco, membro della federazione di ecovillaggi di Damanhur e presidente del GEN Europa dal 2010 al 2015,

“Cosa si propone un ecovillaggio? Si propone di creare nuovi modelli di vita, nuovi modelli di società. E come lo fa? Lo fa non isolandosi dal resto del mondo, bensì essendo consapevole che siamo dei laboratori nei quali i processi avvengono in una maniera estremamente più accelerata, perché le persone hanno deciso di fare queste cose qui.”

Si intende, ventiquattr’ore su ventiquattro.

Per concludere dunque, tre sono gli aspetti che rappresentano il contributo originale del movimento degli ecovillaggi nel più ampio movimento alter-globale.

Innanzitutto i membri del movimento sono prevalentemente comunità e non individui: sebbene ci siano molti soci singoli anche nelle reti di ecovillaggi, così come il movimento alter-globale ingloba numerose realtà collettive (tra cui lo stesso GEN), la caratteristica più evidente del movimento degli ecovillaggi è proprio quella di non connettere e rappresentare individui con una stessa visione del mondo, quanto piuttosto gruppi di individui che quella visione del mondo stanno cercando di metterla in pratica quotidianamente e a 360 gradi in piccoli gruppi interconnessi tra loro.

Questo è un secondo aspetto distintivo del movimento: i valori, gli ideali e gli obiettivi che rivendica vengono agiti e resi operativi attraverso le pratiche che compongono la vita quotidiana. Se infatti prese singolarmente queste possano trovare applicazioni migliori in altre espressioni del movimento ambientalista alter-globale (coltivazioni biologiche più rigorose, strutture più sostenibili, sistemi energetici più puliti, processi decisionali più efficaci, ecc.), l’unicità degli ecovillaggi sta nel combinarle insieme in un tutto che è più grande della somma delle singole parti e che dà vita a una vera e propria “cultura” della sostenibilità (Greenberg 2013). Tali conoscenze vengono poi confrontate, scambiate, diffuse e supportate attraverso le reti locali e internazionali, creando una “global knowledge community” (Litfin 2009).

Infine, terzo e fondamentale aspetto che contraddistingue il mondo degli ecovillaggi dal resto del movimento alter-globale di cui fa parte è la centralità del concetto

eco-spirituale di interconnessione tra tutti gli esseri viventi (Levasseur 2013). Questo, come spiego nell’ultimo capitolo, è a mio avviso non solo un aspetto peculiare degli ecovillaggi all’interno del movimento di giustizia sociale, ma è anche ciò che permette al movimento di restare unito e di progredire, una sorta di metanarrazione che riunisce tutte le altre.