CAPITOLO PRIMO
1. IL PECCATO ORIGINALE DELL’ANTROPOLOGO: FARE RICERCA A CASA
1.1. Cosa significa fare antropologia a casa?
È difficile delimitare univocamente quello che viene definito con il termine “casa”, un concetto da cui non possiamo estrapolare il bagaglio soggettivo che le si attribuisce ogni volta che lo utilizziamo analiticamente. Cosa si intende per fare ricerca a casa? Fare ricerca nella propria nazione? Nell’epoca contemporanea in cui migrazioni, capitalismo globale e Internet rendono qualsiasi processo culturale un fenomeno transnazionale o in qualche modo connesso causalmente al resto del mondo, è difficile e poco produttivo definire una cultura nazionale. Fare ricerca in contesto occidentale? Come affermato da Ulf Hannerz nella sua descrizione delle società complesse (Barnard e Spencer 2005), una delle loro caratteristiche principali è l’organizzazione della diversità, la presenza di numerose subculture interrelate, che rendono dunque difficile essenzializzare l’Occidente come contesto univoco che produce fenomeni culturali omogenei. Quale di questi poi verrebbe definito “casa”?
C’è spesso la convinzione che l’antropologo del “Nord del mondo” che faccia ricerca in quello stesso nord (essenzialmente in un contesto occidentale, urbanizzato e industriale), seppur a migliaia di chilometri di distanza non possa non sentirsi a casa. Eppure è raro che questo avvenga, poiché anche a pochi passi da casa propria l’antropologo tenderà a ricercare l’altro da sé, a indagare la diversità intrinseca alla
propria società. Questa diversità interna è sempre esistita: se un tempo era rappresentata da un passato in progressiva sparizione (spesso delegato agli studi demologici), successivamente, con l’aumento dei fenomeni di migrazione transnazionale e il riconoscimento delle minoranze, è diventato soprattutto una questione di etnicità. In seguito poi, una volta determinatasi come categoria di pensiero a sé stante, si è allargata anche alle distinzioni di classe, di genere, di età e persino di stili di vita (Hannerz 2012), come nel caso della mia ricerca.
La varietà terminologica con cui l’antropologia a casa viene identificata evidenzia la difficoltà nel determinarla: alcune definizioni, come auto-antropologia, auto-etnografia,
peer-group research o antropologia introspettiva, ne sottolineano il carattere riflessivo, e
difatti - in maniera non priva di ambiguità - vengono utilizzati anche per definire qualsiasi etnografia che ragioni sui risvolti autobiografici e relazionali della ricerca (cfr. Tedlock 2011). Altri termini, come antropologia indigena o nativa, ricerca insider (contrapposta all’outsider research) o ricerca endogena, evidenziano invece il posizionamento - spesso puramente geografico - del ricercatore rispetto ai soggetti studiati. Ognuna di queste terminologie viene maggiormente preferita qualora si tratti di una ricerca condotta in contesto occidentale e altamente industrializzato da un membro del gruppo sociale dominante (in questo caso si prediligono le espressioni riflessive); oppure una ricerca condotta da un esponente di una minoranza (etnica e non) in quel medesimo contesto, o ancora da un antropologo originario di un paese extra-occidentale nel proprio paese di origine (in quest’ultimi due casi si parla più spesso di antropologia “nativa”) (cfr. Messerschmidt 1981a). Molte di queste definizioni, in particolare quelle che delimitano univocamente l’antropologo come indigeno, nativo o interno al processo culturale studiato, tendono a un’essenzializzazione sia dello studioso che degli studiati (cfr. Narayan 1993; Weston 1997).
Secondo la definizione di Marylin Strathern (1987), l’“auto-antropologia” è quella sotto-disciplina applicata nel contesto sociale che ha prodotto la sotto-disciplina stessa, ovvero un’antropologia in cui le rappresentazioni del mondo di coloro che studiano e di coloro che vengono studiati implicano un insieme condiviso di presupposti riguardanti la vita sociale, presupposti fondanti l’antropologia stessa. Tuttavia, spesso gli “antropologi nativi” che fanno ricerca in contesti extra-occidentali si sono formati in paesi occidentali, dunque non è detto che i presupposti culturali del ricercatore siano rimasti gli stessi dei suoi conterranei; oppure, come fa notare il filosofo Terence Rajivan Edward (2014), è possibile che un gruppo sociale e un ricercatore condividano una parte di questi presupposti senza tuttavia avere un medesimo background, o che ne condividano solo una parte. In che grado perciò ci si definisce a casa quando si fa ricerca a casa? Ci si può sentire a casa ma “non completamente a casa” (ibidem)? Nessun ricercatore, neanche nel contesto a lui più familiare, può essere considerato un completo insider: una quota di “shock culturale” è sempre rinvenibile, dovuta al proprio stile o alla propria storia di vita, ai ruoli in gioco, a quella complessità sociale che può concentrare in pochi chilometri quadrati decine di pratiche e visioni del mondo differenti e rendere due strade parallele nello spazio due mondi lontani anni luce nella comunicazione interculturale (cfr. Messerschmidt 1981a; Narayan 1993; Clifford 1997; Gullestad 2007). È possibile ad esempio che il ricercatore e i soggetti studiati abbiano la stessa formazione e facciano parte dello stesso gruppo etnico all’interno della medesima società, ma ci siano comunque dei confini di classe, professionali o ideologici che rimangono invalicabili. Quest’ultima è una condizione comune a molte etnografie condotte in contesto occidentale tra i membri del gruppo sociale dominante che si rappresenta. È quello che ad esempio racconta Susan Brandt Graham (1981) nell’analisi di un villaggio operaio di una compagnia mineraria in Arizona negli anni ’60, in cui l’accettazione all’interno della vita sociale comunitaria era direttamente correlata al grado di adempimento alle norme comportamentali socialmente attribuite alla donna,
norme a cui lei in quanto donna indipendente e lavoratrice non aderiva in pieno. Similmente, Craig Molgaard ed Elizabeth Byerly (1981) raccontano come, durante una ricerca sulla medicina New Age in una comune nordamericana, a causa del diffuso anti-intellettualismo e dell’atteggiamento di diffidenza nei confronti dell’ordine costituito tipici del movimento hippie inizialmente fosse stato necessario lavorare sodo per superare una aprioristica diffidenza ideologica, nonostante gli interlocutori appartenessero allo stesso gruppo etnico (maggioritario) e avessero spesso la stessa età ed estrazione sociale dei ricercatori. Nel mio caso, malgrado le comunanze culturali e sociali tra me e gli abitanti degli ecovillaggi che ho frequentato, una relativa distanza e uno spiazzamento si sono comunque prodotti, poiché individui con una storia di vita così simile alla mia (o a quella dei miei genitori e dei miei nonni) stavano intraprendendo un percorso che come si vedrà in seguito li avrebbe condotti a scelte di vita radicali e a modificare gran parte delle abitudini quotidiane in cui mi riconosco culturalmente.
In maniera più generica e volutamente ambigua, Nigel Rapport e Joanna Overing definiscono auto-antropologia lo studio antropologico di ciò che riguarda il ricercatore stesso e quello che lui definisce casa, “quel territorio nebuloso a un tempo fisico, fenomenologico, psicologico, sociale e personale” (2003: 18). Così “casa” non deve necessariamente coincidere con un luogo fisico e reale, ma può anche essere rappresentata da una comunità virtuale e dislocata, da un fenomeno culturale transnazionale, da un insieme di valori e ideali che possono essere condivisi da individui uniti da una comunanza diversa da quella fisica (di genere, di classe, di età, ecc.). Per Helena Wulff (2004) ad esempio, “casa” è il mondo itinerante e internazionale del balletto classico. In generale, il concetto di casa è fortemente correlato a quello di appartenenza, dunque fare ricerca a casa implica investigare un terreno a cui il ricercatore si ritiene vicino o implicato, che sia culturalmente, socialmente, linguisticamente o professionalmente (Ouattara 2004). Comunque la si voglia intendere
e giudicare, l’antropologia a casa rappresenta sicuramente una contrazione spaziale (più o meno grande) del triangolo relazionale che rappresenta il lavoro etnografico, formato dal ricercatore, i soggetti della ricerca e il pubblico per il quale l’etnografia è pensata (Hannerz 2012), fino all’estrema coincidenza del primo coi secondi, o dei secondi col terzo.
Nel mio caso definisco dunque la ricerca “a casa” non tanto perché il campo si è svolto prevalentemente in Italia, a maggior ragione se si considera che le comunità e gli individui in rete con cui ho lavorato sono parte di un movimento globale più ampio e sono connessi con numerose altre reti transnazionali. La definisco at home piuttosto perché condivido con gran parte dei miei interlocutori un medesimo senso di appartenenza, contraddistinto da una lingua comune, un’origine geografica, un’estrazione sociale borghese, un orientamento politico progressista, un’educazione medio elevata spesso incentrata su studi umanistici e sociali, un attivismo umanitario e ambientalista. Ma soprattutto condivido con loro un momento storico e un posizionamento in esso ben preciso: la sensazione di affogare nella stessa liquidità fatta di precarietà, perdita di certezze, instabilità economica e politica, relazioni usa e getta, individualismo, utilitarismo, mancanza di progettualità collettiva e partecipazione attiva, una fretta e un qualunquismo che tolgono spazio alla riflessione e alla comprensione della complessità dell’esistenza, una mobilità obbligata che preclude qualsiasi forma di radicamento (Bauman 2001; Bauman 2013; Matera 2017). E, al contempo, lo stesso desiderio di rimanere a galla attraverso una particolare forma di resistenza attiva che assume caratteri quotidiani, transnazionali e prefigurativi, identificandosi con quella che Paul Ginsborg chiama “classe media riflessiva”, una classe cioè attenta e preoccupata ai risvolti etici, ambientali e sociali del sistema capitalistico globale, che utilizza l’educazione e il capitale relazionale a sua disposizione per ottenere una solidarietà civile e una coesione sociale nonostante il poco peso nelle decisioni politiche ed economiche che la riguardano (Grasseni 2014). Dati i criteri che
ho selezionato per definire la mia ricerca at home, è per me ulteriormente difficile distinguere tra la nozione di casa e quella di campo, non solo perché il secondo rientra nella prima sia spazialmente che concettualmente, ma anche perché l’esperienza etnografica è per me uno di quei momenti di riflessione, crescita e acquisizione di conoscenza che costituiscono la mia nozione di familiarità, e che quindi mi fanno sentire “a casa”.