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CAPITOLO PRIMO

1. IL PECCATO ORIGINALE DELL’ANTROPOLOGO: FARE RICERCA A CASA

1.2. La distinzione tra “casa” e “campo”

In antropologia la distanza classica tra “casa” e “campo” è stata fin dagli inizi identificata con la realtà empirica e metaforica del viaggio (cfr. Clifford 1997), presupponendo che la prima rimanesse immutata lì dove l’abbiamo lasciata al momento della partenza. “Casa” è ciò che è noto, familiare, ordinario e rassicurante, contrapposto al “campo” che deve rappresentare invece qualcosa di ignoto, inconsueto, stimolante, faticoso e pericoloso (in questo ultimo caso spesso costruendo una discriminazione di genere), un mondo sconosciuto in cui si approda con l’entusiasmo dell’esploratore. Solo allontanandosi dal consueto infatti si ritiene di poter creare quella frattura tra appartenenza e alienazione (Knowles 2004), quell’esoterismo che rende il lavoro sul campo l’esperienza che dà valore all’etnografia intera. La distinzione tra casa e campo è inoltre costruita su opposizioni binarie che discriminano soggetti antropologici eterogenei rispetto allo stereotipo dominante: così lo spazio domestico è tipicamente femminile mentre quello dello spostamento è maschile; l’insoddisfazione e il desiderio di conoscere ed esplorare è borghese mentre il povero, presumibilmente poco istruito, sta bene dove sta; il cittadino occidentale è cosmopolita e senza radici mentre quello non occidentale o non cittadino è più radicato nel proprio ambiente naturale e nelle proprie tradizioni locali (cfr. Clifford 1997).

Per raggiungere un luogo remoto e pericoloso, si presuppone che anche il viaggio debba essere altrettanto avventuroso, la prima tappa di quel percorso iniziatico che

porta alla costruzione della “antropologicità”, una sorta di immersione graduale nell’alterità per prepararsi allo stupore che attende l’etnografo sul campo. È per questo che a Joanne Passaro (1997), mentre faceva ricerca tra i senza tetto della sua città, New York, qualcuno fece notare quanto fosse inconcepibile che prendesse la metropolitana per raggiungere il campo : per la “facilità” (e dunque superficialità) dell’esperienza 9 etnografica, data la distanza sociale apparentemente nulla; per la quotidianità dell’esperienza, priva del romanticismo insito nell’idea di “viaggio etnografico”; perché infine la metropolitana è la quintessenza degli ambienti più caotici, stratificati e ingestibili presenti sul pianeta, le metropoli appunto, in cui è difficile condurre un’etnografia appropriata.

Per raggiungere il mio campo di ricerca, essenzialmente raduni, corsi, conferenze e quant’altro si teneva nei diversi ecovillaggi, cohousing o progetti di comunità sparsi per l’Italia, il mezzo di trasporto prediletto dai miei interlocutori era l’auto condivisa: sia perché spesso i luoghi non erano raggiungibili con i trasporti pubblici, sia perché socialità e sostenibilità sono una parte fondamentale di qualsiasi evento RIVE, indipendentemente dal tema specifico dell’incontro. Autonomamente, o tramite eventi appositi creati dalla RIVE sui siti di car sharing (come Blablacar o Roadsharing), coloro che partecipano tendono a organizzarsi per condividere il viaggio, invitati dalla RIVE stessa a cercare di diminuire il più possibile l’impronta ecologica necessaria per raggiungere il luogo di incontro (invito esplicitato anche negli Accordi di Base dell’associazione). Oltre all’aspetto ecologico, i viaggi condivisi sono sempre un’ottima occasione per stringere delle relazioni dirette prima di arrivare in un luogo dove potrebbero esserci centinaia di persone e dove spesso si va da soli; inoltre, spesso sono

“You can’t take the subway to the field!” è il titolo del suo saggio, considerato ironicamente come 9

esempio della pratica retorica di convalidare l’etnografia utilizzando come titolo una frase di un nativo, possibilmente in lingua originale. In questo caso tuttavia, come lei stessa ci dice, il “nativo” era un accademico incontrato durante una conferenza a New York, e il suo “dialetto” la teoria sociale (Passaro

viaggi lunghi e se vogliamo “avventurosi”, data l’ubicazione di molte comunità in contesti rurali o montani di difficile accessibilità. Per me ovviamente erano anche un’ottima occasione per condurre conversazioni informali con cui potevo sondare il terreno sulle storie di vita e le ragioni di coloro che decidevano di partecipare agli incontri, coadiuvata da quell’intimità che si crea ogni qualvolta si condivide con estranei uno spazio ristretto, un tempo sospeso e una condizione scomoda o anche solo molto noiosa. In qualche modo perciò il viaggio nella mia etnografia ha effettivamente rappresentato quell’immersione graduale nella diversità che mi apprestavo a studiare, nonché uno strumento analitico caratterizzato dall’esperienza di condivisione con i miei interlocutori.

Un tempo dunque era il concetto stesso di casa e tutto ciò che rappresentava a definire quello di campo. Oggi tuttavia, non solo l’idea di casa e la casa stessa possono mutare nel corso della ricerca, influenzati dalla precarietà e dalla mobilità internazionale che caratterizzano la vita accademica; ma lo stesso campo e chi lo anima tende a cambiare posizionamento in maniera a volte repentina sotto gli occhi stessi dell’etnografo, sotto l’influenza di guerre, crisi economiche, dislocamenti forzati e così via (cfr. Norman 2004). La mobilità dei due concetti ha fatto sì che spesso non sia più possibile riconoscere una differenza (spaziale, ma non solo) così netta come un tempo.

Una volta violata questa distinzione simbolica tra casa e campo (Knowles 2004), come ricostituire dunque la validità del campo di ricerca?

In primo luogo, accogliendo la consapevolezza che la distanza necessaria per creare quella frattura che spinge all’approfondimento analitico non è soltanto fisica.

Come afferma Caputo,

“The physical act of travel to another place does not guarantee cultural understanding or illumination on its own. Rather, the unique insights and experiences that are gained through fieldwork are apparent despite the actual physical distance travelled” (Caputo 2004: 29).

Se dunque consideriamo il viaggio come inteso da Clifford (1997), cioè come un insieme di pratiche più o meno volontarie legate all’allontanamento da un contesto familiare (dovunque e comunque sia considerato) in cerca di conoscenza, saggezza, differenza, avventura, una nuova prospettiva, un’esperienza eccitante, edificante ed estraniante, ecc., allora la distanza fisica che percorriamo per fare ricerca sul campo diventa insignificante.

In secondo luogo, riconoscendo che è ancora il concetto di casa e tutto ciò che rappresenta, specchio della soggettività del ricercatore, a proiettare la nostra idea di campo. Essendosi tuttavia prodotti cambiamenti nel primo, questi hanno influenzato anche il secondo. Un aspetto importante delle etnografie contemporanee è dunque quello di prendere piena coscienza del valore metodologico ed epistemologico dell’autobiografia dell’antropologo (cfr. Okely e Calloway 2005). Come affermato da Catherine Knowles (2004), diventa quello che noi definiamo e consideriamo casa, indipendentemente dalla distanza geografica, ciò che dà senso all’alterità, definisce il nostro campo e il nostro posizionamento in esso. In questo modo si evitano anche discriminazioni nei confronti dei cosiddetti antropologi nativi, che spesso considerano familiare quello che per noi è esotico e viceversa. Questo non significa che si può semplicemente riconoscere la storia di vita del ricercatore osservando il campo prescelto, o che lo si possa prevedere conoscendola. Ma entrambe sono ancorate al sé dell’antropologo, esplicitato nel suo senso di appartenenza: così ad esempio il campo può essere un modo per fuggire lontano da una situazione difficile o per soddisfare un desidero di avventura, come può servire per ricongiungersi con un luogo amato e da tempo abbandonato; oppure può rendere possibile concepire se stessi e la propria appartenenza in forme variate e magari contrastanti tra loro (ibidem). Ovviamente l’etnografia non si esaurisce con la scelta e la costruzione del campo di ricerca, e a questa non contribuiscono solo motivazioni personali ma anche esigenze accademiche e

interessi scientifici; è tuttavia necessario riconoscere quanta parte gioca la biografia dell’etnografo per evitare di cadere in mal celate discriminazioni professionali.

Per quanto mi riguarda, la scelta di concentrarmi sulle relazioni italiane della rete transnazionale degli ecovillaggi è stata in parte autobiografica, poiché all’inizio del mio dottorato avevo appena iniziato a costruire una famiglia in Italia. La definizione del campo era dunque anche un modo per rimanere vicina alle persone che amo e continuare a frequentare le reti di attivismo di cui già facevo parte, reti che si sono poi rivelate fondamentali per la ricerca stessa. Successivamente però, il mio compagno ha trovato lavoro negli Stati Uniti e ci siamo trasferiti nello stato di New York. Questo da una parte ha ampliato la mia rete di conoscenze nel mondo degli ecovillaggi, permettendomi di entrare in contatto con alcune comunità molto note all’interno del movimento globale (come L.A. Ecovillage in California e Ithaca Ecovillage nello stato di New York), di visitare luoghi storici del comunitarismo utopico come Oneida (NY) e di trascorrere un periodo di tempo continuativo in un ecovillaggio americano (Le Case Ecovillage, a San Diego) ; dall’altra parte la distanza ha trasformato la relazione con i 10 miei precedenti interlocutori, basandola unicamente su comunicazioni di tipo elettronico (email, videochiamate e videoconferenze, messaggeria instantanea, chat). La lontananza mi ha permesso di entrare nel gruppo che gestisce la comunicazione della RIVE (poiché era l’unico supporto concreto che potevo dare alla rete come attivista a distanza) e, in tal modo, di creare nuovi rapporti e stringerne maggiormente altri, diventare uno dei punti di riferimento per il network nazionale e per quello europeo e avere accesso a comunicazioni in cui si discutono tematiche fondamentali per la mia ricerca. Allo stesso tempo, la comunicazione remota ha fornito numerosi spunti di riflessione sul valore preponderante che ricoprono le relazioni vis-à-vis all’interno della

Le visite e i periodi trascorsi negli ecovillaggi e nelle comuni americane non rientrano ufficialmente 10

nella ricerca di campo del mio dottorato, poiché avvenuti durante la stesura dell’elaborato finale. Ciò non toglie che le esperienze e le riflessioni fatte in quei luoghi abbiano contribuito alla comprensione generale del fenomeno globale.

rete. Paradossalmente dunque, in campi in cui il gruppo sociale analizzato è così disperso e si riunisce solo sporadicamente, la cosa più simile a quell’osservazione partecipante continua e approfondita tanto cara alle etnografie classiche sono proprio le comunicazioni elettroniche (Amit 2004b). La presenza della tecnologia nelle pratiche e nelle relazioni della vita quotidiana è un dato talmente costante nelle etnografie contemporanee che le critiche a una ricerca parzialmente condotta tramite connessioni remote (cfr. Hastrup e Hervik 1994) hanno ormai perso gran parte del loro senso. Oggi poi è scomparso anche il carattere elitario dei decenni precedenti, che relegava l’accesso alle comunicazioni multimediali a determinate classi sociali; infine, queste non hanno più solo lo scopo di migliorare la comunicazione, ma sono diventate anche veri e propri luoghi di produzione di significati culturali (Pink 2004).