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CAPITOLO TERZO

3. LA RETE DEGLI ECOVILLAGGI COME MOVIMENTO TRANS- E ALTER-GLOBALE

3.4. Gli ecovillaggi come movimento sociale

Molti degli elementi sopra descritti, ritenuti indispensabili per definire un movimento sociale come tale, sono presenti anche nel mondo degli ecovillaggi: questo è infatti rappresentato da un meshwork di interazioni flessibili tra individui, comunità e reti o associazioni che si riconoscono in una visione del mondo “profetica”, radicata nella convinzione che la sopravvivenza del pianeta e del genere umano siano da affidarsi a una sempre maggiore diffusione di “consapevolezza” e stili di vita sostenibili. Che la condivisione dei valori di base (solidarietà, condivisione, partecipazione, fiducia reciproca, ecc.) e il senso di appartenenza che ne deriva siano più importanti del criterio più evidente per identificare i membri del movimento, ovvero il vivere sostenibile e comunitario, è dimostrato dal fatto che sia la rete nazionale che quella internazionale si stanno sempre più aprendo a membri individuali o collettivi che non sperimentano la coabitazione, in risposta a un’esigenza che proviene dalla società stessa. È come se la

Come tuttavia lo stesso Schehr ammette, la critica ai movimenti utopici risale alle prime teorizzazioni 58

dei nuovi movimenti sociali, quando veniva data ancora particolare enfasi al conflitto manifesto. Una volta ridimensionato il ruolo del conflitto nel determinare il movimento, lo stesso Melucci afferma che le istanze utopiche non devono essere considerate un pretesto per negarne il potenziale (cfr. Melucci 1996).

comunità, più che un obiettivo, fosse uno degli strumenti migliori per raggiungerlo in maniera più organica, rapida ed efficace. Sebbene possano esserci tra i nodi di questa rete gruppi più o meno strutturati, solitamente la conformazione è di tipo frattale, nel senso che le comunità e gli altri gruppi che ne fanno parte tendono ad avere la stessa organizzazione orizzontale, partecipata e flessibile del movimento più ampio.

Anche l’aspetto conflittuale nel rapporto con la società e la relazione con il cambiamento sociale, promosso sia a livello sistemico che locale, appaiono evidenti negli ecovillaggi, sebbene l’opposizione sia più di tipo valoriale, mentre nella pratica si tenda più al compromesso, alla negoziazione e al confronto costruttivo. Il concetto di “storicità” introdotto da Touraine sembra particolarmente adatto per analizzare questo aspetto del conflitto: secondo Touraine (1981) infatti, i nuovi movimenti rappresenterebbero gruppi di attori sociali in lotta contro altri gruppi per il controllo del “sistema di significati che determina le norme dominanti in una determinata società”, la storicità appunto. Gli ecovillaggi infatti rientrano nello stesso orizzonte di significati della società a cui si contrappongono: partendo da idee e pratiche condivise, questi cercano di riappropriarsene infondendovi nuovi valori. Così ad esempio le pratiche alimentari sono tutte incentrare sul benessere del consumatore (cibi sani e biologici), del lavoratore (filiera corta e consumo etico) e dell’ambiente (rispetto per gli animali e rigenerazione delle risorse). Analogamente gli scambi economici si basano su principi di eticità, equità e reciprocità: vengono dunque predilette forme di dono o scambio non monetario, circuiti virtuosi di compravendita come i GAS o i mercati contadini, l’utilizzo complementare di monete alternative, ecc. La mancanza di un conflitto aperto ed eclatante con le istituzioni governative è probabilmente uno dei motivi che ha tenuto gran parte dei media e dell’opinione pubblica all’oscuro della loro esistenza.

Altri elementi che identificano inequivocabilmente gli ecovillaggi come un movimento sociale sono la proliferazione in concomitanza con l’acuirsi della crisi ambientale ed

economico-finanziaria e l’attivismo precedente di quasi tutti i suoi membri , 59 manifestazione del confluire di ideologie e interessi differenti. Questa diversità interna tuttavia, analizzata dagli studi classici sui movimenti come una delle cause di instabilità e fallimento, nel caso degli ecovillaggi è diventata invece una delle principali forze unificatrici . 60

Oltre a quanto detto finora, ci sono poi alcune caratteristiche degli ecovillaggi che, se da una parte li identificano inequivocabilmente come una diramazione del movimento alter-globale, dall’altra li caratterizzano in maniera univoca.

3.4.1. La protesta

Un elemento che potrebbe rendere più oscura l’ascrizione degli ecovillaggi a una definizione classica di movimento sociale (che molti studiosi ancora prevedono) è l’utilizzo predominante di forme politiche non convenzionali. Tra queste spicca la protesta, suddivisa in violenta (scontri con le forze dell’ordine, danni ai beni materiali), pacifica (cortei, volantinaggio) e perturbativa (scioperi, occupazioni). Come tuttavia sottolinea Diani (1992), questa non può essere considerata una caratteristica distintiva di tutti i movimenti sociali, dato il ruolo marginale che gioca in quei movimenti orientati più verso il cambiamento culturale o interiore (tra cui rientrano appunto gli ecovillaggi).

Pur volendola considerare un elemento distintivo, ampliando l’interpretazione delle tattiche e delle strategie possibili gli ecovillaggi possono tranquillamente considerarsi “movimenti di protesta”: rientrerebbero infatti in quei movimenti che mirano a una trasformazione culturale più che politica, attraverso l’attuazione di strategie particolarmente radicali (De Luca 2007b), come la creazione di modelli sociali alternativi in scala. Per quanto riguarda le tattiche, i network di ecovillaggi non

vedi a tal proposito il paragrafo 1.4.2. 59

Ne parlerò approfonditamente nell’ultimo capitolo. 60

prevedono né la mobilitazione di massa né l’arrecare danni economici, azioni che hanno entrambe lo scopo di venire identificate dai poteri forti come un nuovo soggetto antagonista con cui dover fare i conti sulla scena politica. Le azioni messe in atto dalle comunità rientrano invece in una terza categoria, sviluppatasi a partire dagli anni ’70 e basata sull’esempio: lo scopo dunque non è dimostrare di essere una minaccia o una maggioranza, bensì di testimoniare l’esistenza di situazioni talmente ingiuste che alcuni individui sono disposti a gesti radicali pur di sovvertirle (ibidem). Sebbene in quest’ultima categoria vengano solitamente menzionati atti subitanei di disobbedienza civile, gli scioperi della fame o le dimostrazioni ambientaliste (come quella di Julia “Butterfly” Hill, l’attivista che a partire dal 1997 trascorse due anni su una sequoia per impedirne l’abbattimento), ritengo che tutte le azioni praticate quotidianamente dagli ecovillaggisti per sperimentare modelli di vita alternativi, dall’utilizzo a turno di tre auto in trenta (come avviene ad esempio alla Città della Luce) all’utilizzo della compost

toilet nell’orto, possano rientrare tra queste.

La rete degli ecovillaggi dunque può considerarsi un movimento di protesta a tutti gli effetti, “solo che”, come mi spiegò una volta Alfredo di Bagnaia, “invece di essere un movimento sociale che urla, è un movimento sociale che fa”, un movimento che mira a un cambiamento culturale, sfidando il pensiero dominante nel suo ruolo di produttore di “storicità” e proponendone al contempo un’alternativa. Continua Alfredo:

“…quando tu poni il problema dell'autosufficienza alimentare, dell'autoproduzione di energia, dell’autonomia economica che ti permette di essere indipendente rispetto alla realtà che ti circonda, l'autonomia totale delle decisioni, il rifiuto di un modello di consumo e di produzione…Tutto questo significa realizzare una società dal basso, dove valgono principi che sono di carattere democratico fondati sul consenso dei membri, dove vale il principio della condivisione delle scelte, dove vale il principio del rispetto e della solidarietà tra i membri, dove vale il principio - che io considererei veramente molto importante - del lavoro sul territorio, ma per trasformarlo e per cambiarlo, non

per accettarlo così com'è. Quindi di fatto noi siamo come delle formiche che piano piano, piano piano, piano piano, portano a casa diciamo così tutta una serie di esperienze, ma che nello stesso momento continuano il loro lavoro dal basso. Gridare, contestare… no ma io sono anche per scendere in piazza quando serve, non è questo il problema, il problema che ti pongo è che noi in quanto non violenti siamo dei costruttori di

pace e dei costruttori di un'alternativa sociale. Coloro che scendono in piazza, urlando e

cercando lo scontro, fanno il lavoro esattamente opposto. Io sono arrivato al punto di pensare che non c'è una grande differenza tra i black block e i fascisti, così come non c'è una grande differenza tra i poliziotti più fanatici e coloro che rifiutano qualsiasi tipo di mediazione in nome di un anarchismo violento, non c'è differenza. Può esserci differenza nelle motivazioni, ma quando poi i risultati sono quelli, quando poni il problema sul piano dello scontro sterile, di fatto poi non produci nulla, e noi non possiamo starci. Non possiamo starci. Poi ci possiamo stare quando ci sono invece le grandi iniziative e manifestazioni che permettono di fare a tutti quanti un salto in avanti: io sono d'accordo con i social forum, con le iniziative che cercano di promuovere anche opinioni, anche rischiando eh, non è il rischio che mi fa paura o che ci deve fare paura. Ma non con l'obiettivo di essere portatori esclusivi di uno scontro fisico e violento con il sistema. Il sistema lo cambi in un altro modo, costruendone nel frattempo un

altro completamente diverso. È questo il nostro obiettivo: costruirne un altro

profondamente diverso. Che in questo momento sta convivendo all'interno di questa Terra con l'altro sistema, ma che non ha nessun rapporto con l'altro sistema, è proprio una forma completamente altra di vita e di modi relazionarsi e soprattutto di modi di costruire.” (Alfredo, luglio 2015).

Alfredo dunque considera la RIVE parte di un movimento per il fatto che gli ecovillaggi propongono un’alternativa sociale concreta al modello consumistico capitalista che sta portando il pianeta e la società al collasso. Molti degli ecovillaggisti con un passato di impegno politico più “tradizionale” la vedono allo stesso modo: “La cosa più forte che può proporre un movimento di stampo sociale è un cambiamento dell'approccio alla società, e quindi come faccio a considerare la RIVE qualcosa di diverso?” mi dice Marco. Oppure Roberto: “…in questi termini il cambiamento è la diffusione di una

cultura diversa: noi nelle assemblee [della RIVE, n.d.R.] ci siamo detti ‘sì, prendiamo il caffè, ma quindi…No, in cialde no, facciamo la moka, ma poi l’acqua se manca andiamo a comprarla, allora no…Arriva tanta gente costruiamo i compost e i pipi ponic…Il cibo lo prendiamo da produttori locali…’ Quindi cioè c’è una critica dietro, una critica e un’attenzione verso tipi di consumo, verso scelte alimentari…Quindi più che contestazione sono questioni di forme di cambiamento…Cioè contestare ormai mi sembra veramente una parola anacronistica”.

C’è da dire che invece coloro che si ritengono assolutamente estranei o addirittura contrari all’attivismo politico, tra cui rientrano molti dei comunardi associati alla RIVE tramite le loro comunità che però non partecipano individualmente alle attività della rete, non si considerano attivisti, visto che stanno “semplicemente vivendo il cambiamento”. Tuttavia, d’accordo con Pleyers (2015), non li considero per questo meno parte di un movimento, poiché rimane comunque la consapevolezza di un cambiamento sociale attuato attraverso una responsabilizzazione personale e un’azione collettiva. Inoltre, come affermato nel capitolo precedente, il movimento degli ecovillaggi non è tanto formato dalla giustapposizione di tutti gli individui che vivono in una comunità ecosostenibile, ma da quell’insieme di comunità, individui (ecovillaggisti o meno) e associazioni/reti amiche che collaborano con un obiettivo e una visione comune.

Sebbene l’azione degli ecovillaggi sia rappresentata da e indirizzata a una porzione della cittadinanza attiva molto ristretta, il suo lavoro è indispensabile anche per la società civile più ampia, proprio perché si basa sulla forza dell’esempio:

“…è un movimento sociale un po' diverso da quello che magari ci immaginiamo, che abbiamo vissuto noi nei centri sociali […] A me piace molto pensare alla RIVE come un movimento sociale osmotico, perché io che cerco di vivere in un certo modo e ne parlo con i miei colleghi, tu stai là in America e ne parli coi tuoi… io c'ho proprio idea invece che sia un movimento sociale molto

dal basso, molto più lento di quello che appunto può essere un'occupazione, ma comunque che si dirama. Io questa percezione e anche questa speranza ce l’ho” (Paola, maggio 2014).

Pur riconoscendo l’importanza di altre forme di protesta (sempre che non siano violente), del loro maggiore impatto mediatico e delle conseguenze più immediate, gli attivisti della RIVE e chi ha deciso di vivere in ecovillaggio ritiene che queste abbiano poco valore quando si tratta di cambiare in maniera profonda e duratura le cose, e possano anzi essere anche controproducenti, perché disperdono energie che potrebbero altrimenti essere incanalate nel trovare soluzioni concrete alle problematiche socio-ambientali. Le considerano spesso uno stadio precedente nel processo di cambiamento sociale, che per essere davvero efficace deve partire prima da un lavoro interiore per risolvere i conflitti con sé stessi e con chi ci sta attorno, e solo dopo può essere applicato alla società intera. Eva, un altro dei membri fondatori della rete, lo spiega così:

“Io credo che la lotta non è una cosa male, va bene lottare, battersi, però si può scegliere di lottare per o contro qualcosa, io personalmente ho scelto di lottare "per", perché lottare contro secondo me è uno spreco di energie. È tutto molto personale, perché ho capito che è anche importante mettere un po’ di sabbia negli ingranaggi di come funziona la politica. Credo che siano scelte molto personali, ma credo che questa idea che bisogna lottare “contro” sia una cosa molto della nostra cultura che non ha ancora superato il concetto di attacco e fuga. Io personalmente penso che se riusciremo a superare questa cosa di lottare contro, e prendere di più il concetto di andare oltre, allora sì che l’evoluzione parte. Finché te sei contro sei nello stesso piano di evoluzione, no? È importante andare oltre, tu il movimento di Gandhi lo chiameresti un movimento? Eh, e lui non ha lottato contro. Questo è un po’ un mio ideale, questa è una

lotta, ma non una lotta “contro” ma una lotta “per” […] Per creare un nuovo modello per come si può vivere diversamente, scusami tanto se è poco questo. […] Non puoi avere la tua energia

sia qua che là, a un certo punto fai una decisione, chi è molto arrabbiato per come stanno le cose andrà a vedere cosa fanno gli altri e gli vai contro, chi ha un po’ superato questa rabbia dice va bene vediamo un po’, allora cercherà di creare.” (Eva, agosto 2015, enfasi mia)

Hall, attuale presidente del GEN Europa, lo spiega in maniera più o meno simile ma con particolare idealismo durante un cerchio a un raduno della RIVE, quando dal pubblico giunge una domanda su come affrontare il problema delle multinazionali e della loro ingerenza politica a livello globale:

“I would say that we need to be a non-confrontational movement. It’s true that many corporations are responsible for much of the destruction of the Earth, and many countries are facilitating these corporations, and many of these countries are dependent on these corporations. But I would like to say that both corporations and governments are dependent on people, and this is especially true for governments: people in the governments have families, children and parents and they are also hearing the same information, so they know that things have to change as well. Not everyone in government is positive to GEN, but we need to work with those who are positive to us, and we think they are becoming more and more. And this is our idea of adapting governance: instead of expecting us to creating a new society and that the current governments would just collapse one day, it’s more reasonable to think of an evolution when governments will want to change and they will want to adapt to the new reality. So I believe we should create this new reality and at the same time have this interaction to allow this change of government.” (Robert, luglio 2014, enfasi mia)

In questo intervento si tocca un altro aspetto fondamentale della protesta: non solo gli ecovillaggi non applicano strategie di confronto diretto con le istituzioni, ma spesso cercano di evitare o superare il conflitto ricercando invece la collaborazione. Questo è tanto più vero a livello internazionale rispetto a quello nazionale o locale, dove invece si ricerca soprattutto la collaborazione con la società civile. Come mi spiegò Genny, che lavora sia per la RIVE che per il GEN, questo è dovuto al fatto che nelle reti locali (in particolare modo in Italia) “è più facile incontrarsi, è strutturato in modo che ci si incontra più volte e quindi ci si conosce di più” e si creano legami su basi affettive e individuali; all’interno del GEN invece c’è una “professionalità maggiore” e una

“biodiversità più selezionata”, poiché chi può permettersi di lavorare per il network globale è qualcuno che ha già determinate competenze (linguistiche, informatiche, comunicative) e dunque è più inserito in una struttura. Così ad esempio il GEN, oltre ad avere rapporti con numerose reti e organizzazioni non governative locali e mondiali che si occupano di sviluppo sostenibile, ricopre un ruolo attivo anche in diverse attività dell’ONU, direttamente o attraverso i propri membri: ha status consultivo speciale sullo sviluppo sostenibile per il Consiglio Economico e Sociale; è associato all’UNITAR (l’Istituto di Insegnamento e Ricerca delle Nazioni Unite); ha collaborato con l’UNESCO durante la decade 2005-2014 di Educazione allo Sviluppo Sostenibile (Lockyer 2007). Questo atteggiamento nei confronti delle istituzioni rientra in quei principi di universalismo alla base del movimento che spesso sforano nell’ambito mistico-religioso, secondo cui gli esseri umani sono tutti connessi, sono parte integrante della Natura e partecipano di una medesima coscienza collettiva. Ha dunque poco senso andare contro altri esseri viventi, umani o non, perché non si arreca danno che a se stessi. Sempre il presidente del GEN Europa infatti, nel medesimo intervento sopra riportato, inizia proprio dicendo: “penso che il concetto fondamentale della nostra visione del mondo sia l’armonia (“the oneness”) che connette tutti gli esseri umani.”

3.4.2. La politica prefigurativa

Per un certo periodo (un anno circa) ho frequentato un gruppo di persone in zona Castelli Romani con l’intenzione di creare una comunità intenzionale. L’idea era nata dalle ceneri di un circolo locale di decrescita di cui facevo parte, in particolare da una fazione che avrebbe voluto lavorare maggiormente sulla gestione dei conflitti, sperimentando tecniche di facilitazione e metodi decisionali consensuali, e che venne fortemente osteggiata. Il movimento della decrescita ci dava l’opportunità di “vivere il cambiamento” come tutti noi auspicavamo, apprendendo ad esempio a farci il pane, l’orto o i detersivi in casa e potendo poi condividere le nostre conoscenze attraverso la

diffusione di un “saper fare” ecologico. Come disse Maurizio Pallante (uno dei teorici del movimento) durante una conferenza che organizzammo nella nostra cittadina, cambiare il proprio stile di vita non serve solo a mettersi a posto la coscienza, o a fare un atto di disobbedienza civile: ti dà la forza e l’esperienza per essere d’esempio agli altri, per dimostrare concretamente che un’altra via è possibile, contribuendo così a un cambiamento più ampio.

Tuttavia molti di noi sentivano che questo non era ancora abbastanza, che poco sarebbe cambiato se non avessimo imparato a superare i contrasti ideologici e caratteriali in nome di un “bene comune”. Senza un focus sul processo e una pratica costante per re-imparare a relazionarsi in una maniera che fosse coerente con i principi che professavamo infatti, anche coloro che erano più consapevoli e impegnati nel voler sovvertire le politiche dominanti si trovavano inconsciamente intrappolati nelle stesse forme di pensiero e azione autoritarie e individualizzanti (cfr. Casas-Cortés et al. 2008). Nel frattempo eravamo venuti a conoscenza del mondo degli ecovillaggi, dove avevamo toccato con mano gli effetti positivi dell’utilizzo di strumenti di comunicazione non violenti per raggiungere degli obiettivi collettivi. Così pian piano nacque l’idea di creare un gruppo “diffuso” con cui sperimentare gli aspetti più ostici del vivere comunitario (risoluzione dei conflitti, condivisione del lavoro, cassa comune) per poi, una volta trovato il luogo adatto, cimentarsi concretamente nella convivenza. A questo nucleo iniziale si aggiunsero subito altre persone interessate al mondo della sostenibilità e della comunicazione nonviolenta, tra cui anche i fondatori di un altro progetto comunitario arenatosi da poco, l'ecovillaggio a Pedali. Così nacque Tribulab, progetto di ecovillaggio diffuso. Il termine “diffuso” è utilizzato spesso nel contesto italiano per identificare un insieme che mantiene volutamente alcune caratteristiche di unità e affinità pur essendo composto da elementi dislocati nello spazio. Il termine è