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CAPITOLO SECONDO

2. PER UNA METODOLOGIA TRANS-LOCALE: ETNOGRAFIA DI UNA RETE

2.4. Dubbi e scelte metodologiche

Una volta allargato lo sguardo a un fenomeno così localmente e globalmente interconnesso, mi si sono poste diverse questioni metodologiche da affrontare. Questo perché, come sottolineato da Juris e Khasnabish, “studying networks that are locally situated yet globally connected calls for novel modes of networked ethnography” (2013a:22). Tra queste tre sono state le principali: la prima riguardava il decidere quali percorsi intraprendere tra i numerosi che avevo appena iniziato a intravedere, e a quali invece rinunciare; conseguente a questa, la seconda era legata al

timore di condurre un’etnografia “superficiale”; la terza infine riguardava come applicare le metodologie classiche di raccolta dati che avevo appreso durante la mia formazione accademica a un campo così poco ortodosso.

2.4.1. “How do we carve out meaningful slices of culture?”

La prima questione è quella che mi ha creato e continua a crearmi più difficoltà, sia sul campo che nell’elaborazione dell’etnografia: quando fermarsi nell’ampliamento della visione generale o, al contrario, nell’approfondimento di ciascun aspetto? In altre parole, “How do we carve out meaningful slices of culture?” (Strauss 2004:164). Come suggerisce Appadurai (2007), quando si analizzano flussi transnazionali gli elementi da analizzare, con la loro provenienza, le loro diramazioni e le loro intersezioni, sono talmente tanti che risulta impraticabile seguire tutte le direzioni. L’analisi diventa ancora più complicata se si prendono in considerazione anche tutte le connessioni tra i “mondi immaginati” e le reti cosmopolite entro cui si intessono. È necessario perciò prima di tutto affrontare il problema nel presente storico (ibidem), senza tuttavia appiattire la complessità dei fenomeni in una dimensione rigidamente unitemporale; si opera sempre d’altronde una cesura arbitraria tra il passato e il presente, tra quello che si considera autentico e originario e quello che non lo è (autentico rispetto a cosa e a quando poi?). In secondo luogo, come accennato nel primo capitolo, è necessario riconoscere l’importanza della soggettività, sia del ricercatore che del suo interlocutore. Nel caso del ricercatore questa va presa in considerazione non solo nell’analisi ma anche nella definizione del problema studiato: se infatti non è possibile osservare un sistema senza modificarlo e dunque l’osservatore va considerato come parte integrante del campo di osservazione stesso, questo va interpretato non solo nelle conseguenze che produce la sua presenza, ma anche nelle cause che lo spingono a prediligere alcune pratiche e discorsi piuttosto che altri, e quindi in definitiva a costruire il campo intorno

a sé. Il terreno di ricerca si costruisce dunque intorno alle relazioni tra gli attori sociali presenti, antropologo compreso (Matera 2017). Ulteriore conseguenza di questa presa di coscienza è il fatto che la co-produzione di conoscenza che avviene attraverso l’esperienza etnografica si estende anche alla co-produzione dello spazio sociale (Falzon 2009).

Nel mio caso, fin dalle ricerche preliminari sul mondo eco-comunitario ero a conoscenza del fatto che molti degli ecovillaggi nel mondo fossero in connessione tra loro attraverso una rete internazionale, il GEN. Quello che non sapevo però era che del GEN facessero parte in quanto membri non solo le singole comunità, ma anche ulteriori reti di ecovillaggi più o meno autonome da esso, e che tra queste una delle più attive e riconosciute a livello internazionale fosse proprio quella italiana. Così ho deciso di costruire il campo focalizzandomi sui nodi e i fili che in quel patchwork che è il movimento internazionale compongono quella parte di ordito definita RIVE. La RIVE infatti, pur nella sua giovinezza, sembra essere più solida e sviluppata non solo dei singoli ecovillaggi che la compongono, ma anche di altre reti nazionali più datate come quella tedesca o americana, che pure sono rappresentate da comunità molto più ampie, antiche e consolidate. Anche per queste ragioni, oltre alle motivazioni pratiche e personali descritte nel primo capitolo, ho deciso di focalizzarmi sul contesto italiano e sull’emergere del movimento eco-comunitario in Italia. Ciononostante, data la natura transnazionale del movimento, ho avuto modo di partecipare anche a un incontro del GEN Europa come rappresentante RIVE, di visitare alcuni ecovillaggi stranieri (uno in Europa e tre negli Stati Uniti) e di conoscere esponenti di network stranieri che erano stati invitati ai raduni estivi per condividere i loro obiettivi e la loro esperienza.

2.4.2. Come rendere la superficialità profonda?

La seconda questione è in realtà un dubbio metodologico che attanaglia la ricerca multi-situata in generale, ovvero la capacità di approfondimento del campo preso in

considerazione. Durante le prime elaborazioni della ricerca, a fieldwork già iniziato, mi è capitato spesso di sentirmi dire che “c’era poca etnografia”, perché i soggiorni attraverso cui conducevo l’osservazione partecipante erano troppo “brevi” (ma d’altronde io rimanevo tanto quanto gli attori in gioco) o, nel caso delle lunghe permanenze negli ecovillaggi, perché questi ultimi avevano troppo pochi abitanti. Questa è d’altronde un’esperienza che molti colleghi dottorandi che hanno scelto di condurre una ricerca multi-situata hanno vissuto (vedi ad esempio Tomlinson 2011), ma che nel mio piccolo condivido anche con studiosi più illustri, come nel caso della recensione di “Strade” di Clifford, congedato da Geertz come “hit-and-run

ethnography” (cit. in Coleman e Von Hellerman 2011).

La superficialità del campo multi-situato è in realtà un problema che si pone soprattutto se si considera l’etnografia in questione come una ricerca sul campo di stampo classico portata avanti simultaneamente in più campi circoscritti. Se invece si considera il campo come uno studio dei flussi e delle relazioni che intercorrono tra i membri del gruppo analizzato, gruppo che può tranquillamente essere dislocato ma appartenere a una medesima entità politica, religiosa, professionale, sportiva, ecc. (cfr. ad esempio Wulff 2002 o Hannerz 2012), ci si renderà conto che i tratti delle loro vite e i contesti in cui queste si svolgono sono selezionati e approfonditi sulla base dell’interesse di ricerca, senza alcuna pretesa di coprire tutto lo scibile sull’argomento. L’accusa di superficialità decade dunque quando non vi è più uno standard circoscritto a cui applicarla.

Correlata alla mancanza di “profondità” c’è poi un’altra delle critiche maggiori poste alla ricerca multi-localizzata, ovvero la sua presunta pretesa di olismo (cfr. Candea e Hage in Falzon 2009). Se per olismo si intende lo studio di entità sociali nella loro interezza, questo è in realtà un tratto messo definitivamente al bando da tempo anche nell’antropologia più classica. Ma se invece lo intendiamo come la necessità di contestualizzare qualsiasi comportamento umano nella cornice più ampia delle sue relazioni e cosmologie allora sì, possiamo dire che la ricerca multi-situata pone la

conoscenza olistica tra i suoi obiettivi, e che questa, come afferma Candea, sia uno dei modi migliori per esprimere la presa di responsabilità del ricercatore nei confronti dei suoi interlocutori (ibidem).

I sostenitori della ricerca multi-situata hanno trovato numerose scappatoie alla supposta mancanza di profondità della loro metodologia (cfr. Falzon 2009). Tra queste, ritengo che la più ovvia e la più adeguata a descrivere la mia ricerca sia il fatto che, se tradizionalmente quello che dà spessore all’etnografia è l’osservazione partecipante, comprensiva di quella classica “routine spaziale” (Falzon 2009: 8) che si instaura in un campo mono-localizzato e che ci permettere di ripercorrere le traiettorie di vita e i gesti quotidiani dei nostri interlocutori, nel caso di un oggetto mobile o spazialmente e/o temporalmente dislocato come il mio condurre una ricerca “in movimento” è probabilmente l’unica maniera per fare esperienza del mondo come la fanno i nostri interlocutori, anche nel caso questa esperienza sia temporanea, frammentata o superficiale. Come affermato da Falzon (2009), “understanding the shallow may itself be a form of depth”, come non fare niente può essere la forma migliore di partecipare (cfr. Hannerz 2012), o vivere il silenzio la forma migliore di ascoltare (cfr. Wikan 1982), se è quello che meglio rappresenta l’esperienza quotidiana sul campo. I miei interlocutori, i soci della rete degli ecovillaggi e delle altre reti di transizione che le ruotano attorno, si muovono costantemente per raggiungere i raduni, gli unici momenti in cui il movimento acquista concretezza; si “muovono” costantemente online, attraverso i siti, le pagine Facebook, le chat con cui il movimento si tiene unito e attivo tra un incontro e l’altro; e si muovono costantemente nel comporre, scomporre e ricomporre i membri collettivi della rete, le comunità. Negli anni in cui ho seguito e partecipato al lavoro della rete, ero presente e attiva in tutti i momenti salienti di costruzione e negoziazione dell’identità della RIVE, in tutti i momenti in cui il movimento prendeva una forma reale in un luogo concreto, né più né meno degli altri attivisti. Quando cioè il campo è mobile e temporaneo tanto quanto la nostra ricerca

(cfr. Wulff 2002), il tempo effettivo passato con i nostri interlocutori è equiparabile a quello che loro passano tra di loro: questo fa sì che in un campo multi-situato si possano creare relazioni profonde tanto quanto quelle che caratterizzavano il lavoro etnografico classico. Inoltre, se alla multi-situazionalità si aggiunge la prossimità geografica, la possibilità di “tornare” più spesso sul campo riequilibra nel tempo la maggiore brevità delle visite. Infine, a volte il reincontrarsi, l’aver conosciuto la stessa persona o aver partecipato allo stesso evento da un’altra parte o in un altro momento creano un legame particolarmente intimo e stretto. La personalizzazione e la profondità delle relazioni sul campo che si crea in un contesto multi situato deriva perciò non tanto da un’interazione lunga e approfondita, quanto dal fatto che l’etnografo si colloca entro la medesima rete translocale di significati e valori di cui fanno parte i suoi interlocutori (Hannerz 2003 e 2012) e condivide con essi l’esperienza spaesante della multi-localizzazione (Riccio 2011). Questo è un po’ quanto intendevo nel primo capitolo, quando affermavo che il mio essere considerata insider negli ecovillaggi non riguardava tanto un’affinità regionale o linguistica (che pure spesso c’era), quanto l’attivismo nel medesimo contesto alter-globale. E in effetti quella sensazione di accoglienza e appartenenza che provavo non si limitava alle comunità italiane, ma anzi risultava ancor più intensa (poiché inaspettata) proprio in quelle straniere. Come sottolineato da Caroline Gatt (2009) nell’analisi di un movimento ambientalista transnazionale, in etnografie di questo tipo la multi-località non deriva tanto dalla quantità e varietà di luoghi geografici coinvolti, quanto dalla quantità e varietà di modi in cui gli attivisti - ricercatore compreso - fanno esperienza, sono coinvolti e contribuiscono a produrre diversi posizionamenti (emplacements) simultaneamente. L’impegno circostanziale del ricercatore tende inoltre a fornire una sorta di sostituto psicologico al rassicurante senso dell’esserci che nelle tradizionali ricerche mono-situate viene donato dall’osservazione partecipante (Marcus 1995).

2.4.3. Metodi di raccolta dei dati

Nonostante le preoccupazioni iniziali, l’ultima questione si è rivelata quella di più facile risoluzione, sebbene abbia sollevato dubbi costanti sulla maniera “appropriata” di fare esperienza e acquisire conoscenza antropologica (cfr. Gupta e Ferguson 1997a). Come messo in pratica da Joanne Passaro nel suo studio sulle vite dei senzatetto in una metropoli occidentale, analizzando un gruppo di individui caratterizzati proprio da mobilità, marginalità e da una rivalutazione profonda del concetto di “casa”, ho deciso di rinunciare a immaginare una comunità territoriale stabile (l’ecovillaggio), composta in realtà di persone, idee e pratiche in continua fluttuazione, e mi sono invece concentrata su un numero di siti (reali e virtuali) e fenomeni che permettessero diversi “posizionamenti in diversi punti lungo un continuum di partecipazione e osservazione” (Passaro 1997: 156). L’etnografia multi-situata richiede infatti al ricercatore di sapersi porre in maniera diversa nei confronti dei propri interlocutori e di saper adottare metodi di raccolta dati diversificati, triangolandoli efficacemente e adattandoli velocemente ai rapidi mutamenti del contesto. In questo “impegno polimorfo” (Wulff 2002: 117) un fattore determinante nella buona riuscita dell’etnografia diventa dunquela sua capacità di sintesi (Hannerz 2003) e di selezione. Nel corso della mia ricerca ogni sito (spaziale, temporale o virtuale) prevedeva diverse modalità di raccolta dati, di entrata e uscita dal campo, di relazione con gli interlocutori, creando così una metodologia ibrida. Prima di tutto la multi-località della ricerca (e, nel mio caso, anche l’attivismo nella rete e la vicinanza fisica col campo) ha favorito quella che Ricci chiama “spirale virtuosa” (2011:81): ogni fase della ricerca cioè, dalla documentazione all’analisi dati, dalla scrittura al coinvolgimento attivo, nel corso degli anni di dottorato si è intervallata e sovrapposta, riportandomi più volte nei medesimi luoghi e sugli stessi spunti di riflessione, ma ogni volta con una consapevolezza e una conoscenza maggiori. In particolare, la vicinanza biografica e ideologica con la rete e le esperienze condivise (che spaziavano dalla contestazione

all'auto-produzione) hanno reso l’ingresso e il ritorno nei vari contesti di ricerca relativamente facile, rendendone però di più difficile utilizzo i dati raccolti. Questo principalmente per motivi etici , ma anche perché le modalità di raccolta tendevano a 25 essere molto informali, essendo le registrazioni e le interviste strutturate poco apprezzate dai miei interlocutori.

1. Le interviste vere e proprie, aperte e narrative, sono state solo una ventina e quasi tutte condotte verso la fine della ricerca, quando si era instaurata una fiducia e una stima reciproca (alcune anche successivamente, tramite Skype). Per questo motivo nel corso della scrittura mi è capitato di utilizzare anche citazioni di interviste condotte da giornalisti o altri ricercatori e inserite in saggi, documentari o tesi di laurea e dottorato. I motivi alla base della selezione degli intervistati hanno spaziato dalla confidenza che c’era tra di noi alla necessità di approfondire alcune tematiche con alcuni personaggi chiave: ho perciò discusso la storia della RIVE con alcuni dei suoi fondatori; il ruolo della spiritualità nella rete con membri sia delle comunità più spiritualmente orientate sia di quelle più diffidenti verso questo tipo di approccio; l’importanza dello spazio abitato e dei concetti di casa o comfort con rappresentanti delle strategie abitative più estreme; la rete come movimento di cambiamento sociale con membri storici e recenti, comunardi e cittadini esterni, attivisti e non; e così via.

2. Alle interviste vere e proprie si sono aggiunte poi le numerose registrazioni di presentazioni, conferenze, cerchi e laboratori a cui ho partecipato, in cui l’oratore descriveva la propria storia di vita e l’esperienza comunitaria di cui faceva parte. In quest’ultimo caso si trattava di vere e proprie produzioni di conoscenza partecipate, poiché, oltre che ai miei interventi diretti, il protagonista rispondeva agli stimoli di tutti i presenti, tra i quali a volte erano presenti anche altri ricercatori o membri di altre

comunità. Ne scaturivano così conversazioni molto più spontanee di un’intervista semi-strutturata, in cui potevo comunque indirizzare la discussione verso le mie curiosità scientifiche specifiche. A questo proposito esemplare è il racconto degli esordi della Comune di Bagnaia narrato da uno dei suoi membri fondatori, che spinse uno dei membri del Popolo degli Elfi (altro storico esperimento comunitario italiano) a intervenire frequentemente, portando a un interessantissimo dialogo sulla dicotomia spontaneità/organizzazione alla base di due modi diversi di fare comunità.

La co-produzione di conoscenza sul campo non è cosa rara nell’ambito di ricerca dei movimenti sociali contemporanei (cfr. ad esempio Casas-Cortés et al. 2008 e 2013): poiché molti degli attori sul campo, come detto altrove, fanno parte di una classe media altamente scolarizzata, essi stessi si interrogano sulle questioni più pregnanti, sulle contraddizioni del movimento, sulle ideologie in gioco, producendo teorizzazioni più o meno consapevoli e agendo come veri e propri “para-etnografi” (Marcus 2009). A volte ho notato con una punta di orgoglio che erano state proprio delle mie riflessioni condivise in conversazioni o interviste private a stimolare dei dibattiti discussi poi da tutti i soci. ad esempio, la mia ipotesi che l’importanza data alle relazioni facesse degli ecovillaggi un movimento sociale oltre che un fenomeno stanziale (comunitario), per quanto mai esplicitata (se non a un informatore chiave, anch’esso ricercatore), riverberava ovviamente in tutte le domande e le curiosità che ponevo ai miei interlocutori. Mi è capitato così di sentirmi rispondere “mmm, non l’avevo mai considerata sotto questo punto di vista” da un ecovillaggista, e poi ascoltare quella stessa persona il giorno successivo incitare l’assemblea a focalizzarsi sull’esterno piuttosto che sull’interno, perché sebbene la pratica stanziale e quotidiana sia alla base dell’esperienza ecovillaggio, è solo facendo rete che la si può diffondere e produrre così un cambiamento sociale su più ampia scala. Questo rientra in quel fondamentale ruolo che l’etnografo attivista può ricoprire nel contribuire alla ricerca, alla riflessione e alla teorizzazione interna al movimento che sta studiando (Juris 2008). Nel mondo degli

ecovillaggi, dove molti abitanti e attivisti sono essi stessi accademici, questo contribuito è ancora più evidente e ben accolto. Durante la conferenza del GEN Europa nel 2016 ad esempio, si è tenuto un workshop aperto a tutti i ricercatori presenti che stavano studiando o vivevano in ecovillaggio, con lo scopo di dare vita a un gruppo di lavoro internazionale per connettere tutte le ricerche “in, about, on and by ecovillages” , con 26 cui in sostanza creare la base intellettuale del movimento.

3. La co-produzione etnografica non ha riguardato solo le riflessioni teoriche, ma anche l’elaborazione vera e propria dei dati etnografici: essendo il movimento caratterizzato da un coinvolgimento attivo di tutti i presenti e da metodi decisionali basati sul consenso e l’ascolto profondo, e avendo io affrontato il campo con un approccio

engaged, mi sono trovata spesso a contribuire personalmente a momenti importanti di

evoluzione nella struttura del movimento e di riflessione sulla sua identità. Difatti, come sottolinea Julia Paley (cit. in Juris e Khasnabish 2015:584) “ethnographers can contribute to the knowledge practices of the movements they study even as they generate ethnographic knowledge with and about those movements”. Il confine tra chi studiava e chi veniva studiato, tra teoria antropologica e pratica etnografica, tra emico ed etico, non era mai troppo netto (cfr. Casas-Cortés et al. 2013): ho scritto degli articoli divulgativi che sono poi stati utilizzati da alcuni attivisti “oggetto” del mio studio, trasformando così i miei stessi pensieri in parte di quell’oggetto; mi è capitato di utilizzare riflessioni di individui che erano a un tempo ecovillaggisti, colleghi ricercatori e confidenti; alcuni dei dibattiti interni al movimento (come quello se la RIVE debba essere considerata una rete “per” gli ecovillaggi o “di “ ecovillaggi, oppure se utilizzare o meno il termine “sostenibilità”) sono gli stessi che affollano le teorizzazioni degli

studi sui movimenti sociali, e a molti di questi ho potuto contribuire sia come ricercatrice sia come membro della rete; e così via.

Oltre alle interviste e alle registrazioni di momenti di confronto collettivi, altri strumenti metodologici più strutturati di cui mi sono avvalsa sono stati un questionario, un focus

group e quelle che Marion Hamm durante una Summer School sui movimenti sociali

organizzata dalla SIEF ha definito “perceptive walks”.

4. Il questionario è stato l’unico metodo quantitativo di raccolta dati che ho provato ad applicare, strutturato con domande aperte per far emergere i significati di natura, paesaggio e casa all’interno sia degli ecovillaggi che del mondo della permacultura (con lo scopo di poter poi attuare un’analisi incrociata tra i due ambiti di transizione ecologica) e per identificare le caratteristiche principali dei partecipanti a entrambi i tipi di sperimentazione . 27

Fin dalla primissima assemblea dei soci a cui avevo partecipato, tenutasi al Giardino della Gioia nel Gargano, avevo in realtà percepito una certa diffidenza nei confronti di metodi di produzione della conoscenza troppo rigidi: in quella occasione ad esempio era stato presentato un progetto di mappatura di un’altra ricercatrice basato su un questionario a crocette e tra i soci, pur ritenendo che la RIVE avrebbe dovuto promuovere e aiutare la ricerca negli ecovillaggi, c’era chi aveva espresso il timore di un possibile fraintendimento, richiedendo dunque che qualsiasi materiale venisse pubblicato su di loro fosse prima vagliato dalle comunità interessate. Anche le domande aperte del mio questionario tuttavia sono risultate poco apprezzate, e sebbene abbia ricevuto una ventina di feedback utili per la mia ricerca, l’intenzione di raccogliere un corpus quantitativo di dati a fini statistici è fallita miseramente.

La bozza di questionario utilizzata si trova nella quarta appendice. 27

L’idea iniziale era somministrare il questionario a tutti coloro che avevano partecipato a un corso di progettazione organizzato dall’Accademia Italiana di Permacultura o vi 28 stavano partecipando durante la mia osservazione partecipante. Nonostante quasi tutte le persone che ho incontrato in questi quattro anni di frequentazione del movimento fossero più che liete di parlare della loro scelta di vita con me, molti di quelli a cui ho fatto avere il questionario sono risultati tuttavia restii a compilarlo: consegnavo loro il