CAPITOLO TERZO
3. LA RETE DEGLI ECOVILLAGGI COME MOVIMENTO TRANS- E ALTER-GLOBALE
3.3. Caratteristiche dei movimenti sociali
Alcuni studiosi ritengono che quando gli attori sociali percepiscono se stessi come agenti di cambiamento sociale, questo basti a decretare che un movimento sociale è effettivamente in atto (Gusfield in Schehr 1997). Se a ciò si aggiunge la consapevolezza di una visione e di obiettivi condivisi e la partecipazione organizzata in reti e associazioni più o meno strutturate, appare evidente che quello delle comunità intenzionali sia un movimento a tutti gli effetti (Schehr 1997). Raramente tuttavia viene considerato tale: non esiste quasi nessuno studio sui movimenti sociali che analizzi le relazioni tra ecovillaggi , come non esiste nessuno studio antropologico pubblicato, 57 fatta eccezione per alcune tesi di laurea e di dottorato. Tra le rare eccezioni si trova l’analisi sociologica di Robert Schehr del 1997, che tuttavia si riferisce alle comunità intenzionali in generale più che a quelle ecosostenibili e a un’epoca che precede le possibilità illimitate di connessione fornite oggi da Internet, possibilità che hanno in buona misura riplasmato le strategie dei movimenti, ecovillaggi inclusi. L’unica vera eccezione è forse Karen Litfin, professoressa di scienze politiche e studi ambientali dell’Università di Washington, che in una serie di articoli descrive il movimento transnazionale come una “pragmatic knowledge community” (Litfin 2009:126) e i singoli ecovillaggi come “dynamic nodes of global engagement” (Litfin 2012:129).
Nonostante l’assenza del fenomeno comunitario nelle analisi dei movimenti sociali, alcuni cambiamenti nei paradigmi di riferimento hanno reso i due ambiti di conoscenza molto più vicini che in passato. È infatti a partire dagli anni Sessanta, con l’emergere cioè di forme di contestazione nuove sia per le problematiche affrontate che per i valori espressi e per gli attori coinvolti, come il movimento studentesco, femminista, pacifista
Molti studiosi di ecovillaggi, provenienti da vari ambiti disciplinari, danno per scontato che quello 57
degli ecovillaggi sia un movimento, senza soffermarsi sulle motivazioni storiche e strutturali e senza approfondire il significato che ne consegue per attivisti e accademici (cfr. Andreas e Wagner 2012; Veteto e Lockyer 2013). Di contro, nessuno tra gli studiosi di movimenti sociali e movimenti alter-globali sembra
e ambientalista, che le teorie classiche con cui i movimenti venivano normalmente interpretati entrano in crisi. In particolare, il modello struttural-funzionalista di stampo durkheimiano e quello dell’interazionismo simbolico di Blumer, dominanti negli ambienti accademici statunitensi, così come l’approccio marxista e weberiano della tradizione sociologica europea, sembrano non essere più in grado di dare un senso alle mobilitazioni di massa, fino a quel momento considerate un fenomeno marginale, irrazionale e una devianza del sistema, piuttosto che uno degli attori principali del mutamento sociale (Schehr 1997; De Luca 2007a). Le teorie sociali sviluppatesi a partire da questo periodo cominciano dunque a focalizzarsi sulle caratteristiche principali che presentavano i movimenti a loro contemporanei, come la consapevolezza del proprio ruolo nel cambiamento sociale e l’attenzione agli aspetti culturali e allo stile di vita piuttosto che alla lotta di classe. Gli studiosi cominciano inoltre a rendersi sempre più conto di come il rigido attaccamento alla protesta pubblica come caratteristica distintiva di un movimento non coincida più con la realtà: sempre più studi riconoscono la presenza e l’importanza da una parte di strategie politiche più convenzionali, dall’altra della possibile mancanza di rivendicazioni politiche, sostituite dalla produzione diretta di beni collettivi e immateriali, come ad esempio l’attuazione comunitaria di stili di vita alternativi o il muto aiuto (Della Porta e Diani 2015). La perdita di valore della protesta pubblica come elemento chiave dei movimenti è stata man mano rafforzata nella pratica (e di conseguenza nelle teorizzazioni) dalla diffusione di Internet, dei social media e delle nuove tecnologie in generale, capaci di rimodellare la cultura della partecipazione attraverso la possibilità di comunicare, riunirsi e organizzarsi sia virtualmente che autonomamente, dando perciò un peso maggiore alle scelte individuali (Bennett e Segerberg 2015; Della Porta 2015).
Il ruolo del cambiamento sociale come motore di azione, l’attenzione agli aspetti culturali, l’uso di forme di protesta meno dirompenti e più incentrate su cambiamenti
negli stili di vita, così come l’utilizzo pivotale del mondo virtuale per creare cellule autonome di azione locale sono tutti elementi distintivi del mondo degli ecovillaggi. Riunendo le analisi delle principali teorie sociologiche sull’argomento elaborate a partire dagli anni ’60, ovvero il Collective Behaviour di Turner e Killian, la Resource
Mobilization Theory di Zald e McCarthy, il Political Process di Tilly e la Teoria sui nuovi
movimenti sociali di Melucci e Touraine, è possibile identificare le caratteristiche essenziali attribuite oggi a un fenomeno collettivo perché possa essere considerato un movimento sociale, e quindi distinto da altre forme di mobilitazione di massa (Diani 1992; De Luca 2007b). L’importanza di circoscrivere un fenomeno sociale non ha tanto valore in sé o per i soggetti che vi partecipano, ma ha un valore analitico che, nel caso degli ecovillaggi, serve anche a illuminare il ruolo che questi rivestono nel movimento alter-globale. Un movimento per essere definito tale deve dunque essere caratterizzato da:
1. un sistema di relazioni prevalentemente informali, deboli e variabili tra individui, gruppi e/o organizzazioni: questo significa che per sentirsene parte non bisogna aderire a nessuna specifica organizzazione, sebbene tra i nodi della rete possano rientrare anche associazioni dotate di una struttura più formalizzata. L’esistenza di questi network e la loro natura permette sia la diffusione delle condizioni essenziali alla mobilitazione, sia l’ambiente adatto per l’elaborazione di specifiche visioni del mondo e stili di vita.
2. Un sistema elaborato di valori, credenze condivise e visioni del mondo alternative a quelle dominanti, che creano un senso di appartenenza e un’identità collettiva e in qualche modo “profetizzano” il mutamento sociale: non sono cioè solo il risultato di momenti di crisi, ma sono anche il segno delle profonde trasformazioni già in atto (Melucci 1996).
3. Una relazione conflittuale di tipo politico e/o culturale con la società più ampia (istituzioni, autorità o determinati valori da queste rappresentati), mirata a promuovere o ostacolare il cambiamento sociale a livello sistemico o locale.
Un movimento sociale inoltre nasce in momenti storici in cui i valori e le norme dell’ordine costituito entrano in crisi, generando sentimenti di malcontento, sfiducia, frustrazione e risentimento che accomunano chi ne fa parte. È stato anche riscontrato come spesso emergano dalla fusione e dalla convergenza di appartenenze precedenti, che per questo li rendono internamente instabili. Questa instabilità è ulteriormente rafforzata dalla mancanza di una solida struttura normativa e organizzativa, ma viene controbilanciata dalla produzione di una visione ideale che funge da collante tra i membri. Le ideologie prodotte dai movimenti sono spesso considerate dagli studiosi sociali come utopiche e astratte, basate su un’energia oppositiva (e quindi destinata a esaurirsi, a meno che non siano in grado di evolversi nel tempo) più che propositiva. Normalmente dunque si ritiene che l’ideologia sia indispensabile per dare vita al movimento, per passare cioè dall’insoddisfazione individuale all’azione collettiva, ma che non sia sufficiente per mantenerlo in vita, trasformando la visione ideale in realtà; così gradualmente il movimento si dota di una struttura organizzativa, di un apparato burocratico e di una leadership che spesso ne decretano la fine in quanto tale. Se così fosse, varrebbe anche per i movimenti la “legge ferrea dell’oligarchia” elaborata da Robert Michels per i partiti politici, secondo cui, partendo da una base democratica, questi per sopravvivere all’interno del sistema devono man mano “imborghesirsi”, strutturandosi intorno a un gruppo elitario di leader e dando sempre meno importanza agli aspetti ideologici (De Luca 2007b). Tuttavia questo processo di disgregazione può avvenire in modi e tempi diversi: un movimento può scomparire per “istituzionalizzazione” ma anche per “radicalizzazione”, qualora creda che le strategie fino ad allora attuate per raggiungere i propri obiettivi siano state inutili o insufficienti; oppure la graduale organizzazione interna, il più delle volte inevitabile per la
sopravvivenza del movimento, può portare a un rafforzamento e a una crescita piuttosto che a una decadenza, qualora si riesca a mantenere la struttura segmentata, policefala, reticolare e partecipata che ne rispecchia i valori di base.
Tra tutte le teorie elaborate a partire dalla comparsa dei movimenti di contestazione sessantottini quelle che meglio interpretano i movimenti contro-culturali da cui emergeranno anche gli ecovillaggi sono quelle sui “nuovi movimenti sociali”, elaborate principalmente in Europa da sociologi come Alberto Melucci e Alain Touraine. Tali teorie infatti spostano l’attenzione dal “come” un movimento si forma, al “perché” questo avviene (Melucci 1980), in relazione a cambiamenti socio-culturali di più ampia scala. Si passa inoltre dall’analisi del conflitto tra classi sociali all’interno di uno stesso sistema all’analisi del conflitto tra il sistema stesso, quello neocapitalista, post-industriale e tecnocratico, e chi ne critica i valori di base (consumismo, utilitarismo, progresso). Uno degli elementi distintivi dei nuovi movimenti sociali è infatti la solidarietà, non solo come prerequisito per aderire e come valore che si genera naturalmente nell’interazione, ma anche come obiettivo a cui tende la maggior parte delle pratiche e delle strategie messe in atto, con lo scopo di consolidarne e diffonderne l’abitudine (Melucci 1980). La solidarietà come vedremo è una delle caratteristiche centrali dell’attivismo prefigurativo tipico degli ecovillaggi, che cercano di mettere in pratica nel personale e nel collettivo, così come nel contenuto e nella forma, il cambiamento che vorrebbero vedere nel mondo.
Nonostante le somiglianze, gli stessi teorici dei nuovi movimenti sociali non consideravano però gli esperimenti comunitari come tali: il riferimento empirico più vicino alle comunità intenzionali sono quelle che Melucci definisce “utopie regressive” (1980: 222), ovvero quei movimenti che nella loro ri-articolazione dei processi identitari si immedesimano eccessivamente con un passato tradizionale e riducono la complessità del reale all’unità di un principio universale che spesso prende connotazioni religiose e porta a un integralismo comunitario, politico-religioso o
mistico-ascetico. Questa eccessiva propensione a una “riappropriazione identitaria” porterebbe dunque a una fuga dal confronto diretto con le istituzioni, e in definitiva a un’impotenza politica che priverebbe tali esperimenti dello status di “movimento" (cfr. Schehr 1997 ). In maniera analoga quello che Touraine definisce “anti-movimento”, 58 cioè quelle azioni collettive che richiamano la comunità in difesa di un qualche nemico esterno, può riferirsi alle comunità intenzionali (ibidem). Chiusura verso l’esterno, apoliticità, universalismo mistico e idillio mitico e rurale sono infatti tutti elementi che possono riscontrarsi negli ecovillaggi. Ci sono tuttavia numerose altre ragioni che portano a identificarli come movimenti di critica e cambiamento sociale, come cerco di dimostrare nel prossimo paragrafo.