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L'economista: gazzetta settimanale di scienza economica, finanza, commercio, banchi, ferrovie e degli interessi privati - A.03 (1876) n.112, 25 giugno

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L’ECONOMISTA

GAZZETTA SETTIMANALE

SCIENZA ECONOMICA, FINANZA, COMMERCIO, BANCHI, FERROVIE. INTERESSI PRIVATI

Anno III - Voi. V

D om enica 25 g iu g n o 1876

N. 112

STUDII S U LLA PESCA

§ 3

Discussione alla Camera del progetto Finali

Stimo opportuno di dar conto, in modo somma­ rio, di questa discussione, rilevando le differenze e le modificazioni arrecate al progetto Castagnola e a quello approvato dal Senato.

Vedemmo dalle attinenze che ha quest’ industria a quali scopi, a quali mire deve intendere una legge sulla pesca. E poiché si deve prima esaminare la relazione Alvisi, che precede la discussione alla Ca­ mera, così vedremo da essa quale è la situazione giuridica e legislativa della pesca e comincieremo a conoscere alcune delle modificazioni portate ai primi progetti.

« La relazione ministeriale dell’onorevole Casta­ gnola tesse brevemente la storia della legislazione sulla pesca marittima e fluviale presso le nazioni che specialmente nell’ ultimo ventennio si misero all’opera riformatrice delle loro antiche prescrizioni e consuetudini come la Francia, l’ Inghilterra, la Germania e gli Stati Scandinavi.

« Dall’esame anche superficiale delle provvisioni capitali delle diverse legislazioni indicate, si devono tirare critorii così assodati e positivi da guidare il legislatore italiano nello studio delle fonti più pure del diritto universale che è il diritto romano. In­ vero a questa sorgente inesauribile attinsero le mas­ sime fondamentali delle proprie leggi sulla pesca le nazioni civili del mondo; il mare è il patrimonio inviolabile comune a tutti gli uomini, gli animali selvaggi, gli uccelli, i pesci non hanno speciali pa­ droni, ma, res nullius, sono di chi se li pigliano.

« Da così universali principii deriva che la pesca marittima fu sempre considerata libera e illimitata. Solo fu la repubblica di San Marco che volle ser­ barsi il dominio anche in materia di pesca lungo le coste della Dominante e fu più per lo intento poli­ tico di affezionarsene gli abitatori che per esercitare un monopolio speciale.

« Così stando le cose, le provvisioni che ha fatto ogni nazione per regolare e limitare la pescagione

procedono non già per far atto che menomi la li­ bertà e il diritto universale, ma per meglio conser­ vare questa proprietà comune a tutti gli uomini e perciò sono indirizzate più a scopo ittiologico, vale a dire a conservare, a moltiplicare la produzione dei pesci, che può essere disturbata e anche impe­ dita da congegni e da arnesi speciali, e particolar­ mente dall’esercizio della industria nelle stagioni degli amori e devastata dalla stupida avidità e dallo in­ sensato capriccio di coloro, che tentano distruggere il bene proprio e comune.

« Dunque le questioni di diritto si svolsero co­ piosamente intorno alla pesca delle acque dolci che, come si disse, scorrono framezzo la superficie della terra, dappertutto popolata dagli uomini. Questa qua­ lità di pesca è limitata per sua natura e però ha dovuto trovare continui competitori nella occupazione che è il primo fondamento del diritto di proprietà. Quindi secondo gli avvenimenti delle epoche stori­ che della società, il diritto romano ebbe a soffrire parziali e radicali riforme. È indubitato che col di­ ritto romano tutte le acque correnti erano pubbliche, e private soltanto erano quei fossi, stagni e peschiere che giacevano entro i confini e sul fondo di pro­ prietà privata.

« La pesca dunque presso i romani era libera e tale si è conservata fino a che gli imperatori ed i re, arrogandosi il diritto di proprietà sulle cose co­ muni, disposero a loro talento dei prodotti delle acque pubbliche, e sotto il titolo di demaniali inve­ stirono del diritto di pesca i proprii clienti, i quali acquistato il titolo feudale o di regalia, lo traman­ darono come proprietà ai proprii dipendenti e suc­ cessori. Così fu che l’uso comune delle acque pub­ bliche diventò demaniale e individuale, donde de­ rivarono i diversi sistemi sul diritto di pesca dei quali abbiamo il saggio nella molteplice legislazione degli Stati italiani.

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750 L ’ E C O N O M I S T A acque demaniali riducendole a quelle, sopra le quali

il Governo esercita direttamente un’ industria, dalle acque pubbliche come sono i fiumi, i laghi, i tor­ renti, occ., sopra le quali si è riservato soltanto il diritto di sorveglianza.

« Ma dai diversi modi di considerare il diritto di pesca nelle acque pubbliche e demaniali deriva­ rono tre sistemi, quello vigente in Francia, regolato dalla legge 1829 di attribuire allo Stato il diritto di pesca nelle acque pubbliche o demaniali, quello che chiameremo inglese dell’appropriazione privata anche nelle acque pubbliche e quello della libertà di tali acque. Le relazioni ministeriali e segnata- mente quella dell’ onorevole ministro Castagnola pre­ ferirebbe il sistema inglese, cioè di avocare allo Stato il diritto di pesca, per poi venderlo e cederlo ai privati ; il che significa abbracciare il sistema fran­ cese, di dichiarare cioè lo Stato proprietario delle acque delle quali dispone per proprio conto. Nella legge francese però si fanno due eccezioni a favore dei privati, le quali sono : la prima, che gli abitanti lungo le sponde delle riviere abbiano diritto alla pesca, ciascuno dalla sua parte fino alla metà del fiume; la seconda, che anche nelle acque demaniali ciascuno possa pescare, tranne il tempo di frega colla lenza a mano (tigne flottante tenue à la mairi). Il sistema, che diremo italiano, è quello della li­ bertà per le acque pubbliche, ed è il francese e l’ inglese per quelle acque sopra le quali lo Stato esercita come un privato per diritto di regalia o di dominio, un titolo di investitura o di proprietà.

« Forse, per la produzione del pesce, per mag­ giore utilità dell’erario e per lo incremento della pesca, si potrebbe vagheggiare l’idea dell’onorevole ministro Castagnola, di dichiarare cioè tutte le acque correnti di proprietà dello Stato, col patto di cederle per zone più o meno estese o per corsi più o meno lunghi all’industria privata, ma temiamo l’offesa ai sani principii del diritto e amiamo meglio che la libertà sia in tutto fondamento della nostra legislazione ci­ vile. E molto più desideriamo cotesto perchè si pos­ sano risolvere più facilmente molti più dubbi sulle sanzioni penali, e, secondochè la pesca è di diritto pubblico o privato, stabilire che le infrazioni alle leggi siane contravvenzioni o delitti. In così fatto modo il relatore del Senato ha trattato con larghis­ sima interpetrazione e degna di un Corpo legislativo liberale tutto quanto concerne la sanzione penale per le offese al diritto e alle leggi sulla pesca. Il chiaro relatore del Senato, come la Corte di Cassazione della Toscana rispettò il diritto di reclamare la pro­ prietà e non lasciando allo Stato il diritto di confi­ sca, dichiarò nello stesso tempo esser semplice con­ travvenzione la pesca illecita e F appropriazione del pesce nelle acque correnti demaniali e private, ritenendo qual furto soltanto la sottrazione del pesce

25 giugno 1876 in bacini, peschiere e conserve assolutamente chiuse e situale in un fondo privato.

« Io ho ancora fiducia che la educazione popo­ lare giungerà a correggere i cattivi istinti e allora sarà assecondato il potere dello Stato, che fonda le sue leggi sopra la libertà e non di meno vuole ri­ torni la primitiva abbondanza del pesce, sia nel mare che nei fiumi o nei laghi. Ammettiamolo, o signori, di buona voglia: più che le pene valgono i buoni costumi, più che la mano punitrice dell’autorità gio­ vano le idee di una onesta morale consacrata dalla voce, dalla raccomandazione e dalle leggi del Go­ verno.

« Sì, quanti siamo amatori della patria e del- F umanità legislatori e scrittori, cittadini privati e magistrati, uomini popolari e filosofi, cerchiamo d’ infondere un sentimento di ribrezzo e di vergogna per tutte quelle azioni stupide e malvage che di­ sturbano lo incremento della pubblica economia col distruggere, vuoi piante, vuoi animali utili all’uomo. Come vediamo in molte gentili città e persino in alcuni villaggi produrre buon effetto le raccoman­ dazioni municipali, che affidano ai buoni sentimenti dei cittadini la custodia delle aiuole di fiori nei pub­ blici giardini; così invece dei bandi, delle gride mi­ nacciami e degli articoli penali è da credersi gio­ verà anche al nostro intento apporre lungo i fiumi, i laghi e le coste marine nelle stagioni propizie alla riproduzione questo ricordo: « Alla guardia degli abitanti è affidata la conservazione e la riproduzione del pesce, cibo e risorsa del popolo laborioso. »

« Con queste premesse e con queste considera­ zioni stimiamo poter dichiarare essere informate a buoni principii di diritto e di giustizia le provvi­ sioni legislative poste nello schema di legge datoci ad esaminare. Il che si dimostrerà man mano che riassumeremo le discussioni intorno ai tre progetti di legge che diedero vita a quello dell’onorevole Finali approvato dal Senato e sul quale la Commis­ sione presenta ora i suoi studii alla Camera. »

Qui l’onorevole Alvisi fa la storia degli schemi di legge che servirono di guida alla compilazione dell’ultimo progetto Finali, poi continua:

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25 giugno 1876 L’ E C O N O M IS T A 751 alle Casse degli invalidi della marina mercantile.

Non parve all’onorevole Finali utile un’ istituzione che avesse una giurisdizione speciale pegli interessi privati ai quali provvedono abbastanza i giudici conciliatori e il diritto comune. Non fu giudicato conveniente l’ istituire per legge le comunie come associazioni di mutuo soccorso finché esiste l’obbligo di pagare la Cassa degli invalidi e in epoca di li­ bertà, nella quale fioriscono simili associazioni, sem­ brava un fuor d’opera l’ intervento governativo. L’onorevole Finali soppresse ancora la circoscrizione dei distretti marittimi ed il Senato radiò la nomina di una Giunta centrale, avendo il Ministero facoltà di crearla quando gli occorra. Noi che siamo av­ versi alle Commissioni permanenti consultive nomi­ nate come dipendenza del Ministero, siamo perfet­ tamente d’accordo nel riconoscere il dovere del Ministero di circondarsi di Commissioni speciali quando sorgono casi particolari e gravi circostanze che interessano la pubblica economia. Dobbiamo adunque approvare la soppressione di massima, come le altre due che forse complicavano una legge che ha bisogno, come tutte le leggi di molta chiarezza e semplicità. Ma vedremo poi come fu risoluta la questione nella Commissione con l’intervento dello stesso ministro Finali. Il Senato, sia col mezzo della propria Commissione, relatore l’onorevole Giovanola, sia nella discussione che ebbe luogo nella tornata del 17 aprile ultimo, propose altre modificazioni, tutte informate a sani principii di giustizia ed a quelle massime di giurisprudenza civile e penale che richiamano la legge all’origine del diritto e al­ l’ indole sua della libertà e del diritto di tutti alla pesca.

« Due modificazioni importantissime che vinsero la opposizione in Senato di alcuni autorevoli sena­ tori e dello stesso ministro riguardano la licenza e la tassa che doveva accompagnarla. F u ritenuto dal Senato che invece della licenza da rilasciarsi dal prefetto potesse bastare una dichiarazione dinanzi al sindaco di ciascun Comune evitando in tal guisa una perdita di tempo e un disagio ai poveri eser­ centi questa industria. Sottoporre ancora, dice la re­ lazione, poverissimi cittadini all’annuo pagamento di un balzello che nel più dei casi dovrà chiamarsi la tassa della fame, sarebbe una pratica di Governo feudale, anziché di nazione risorta a libertà. È con la evidenza di queste ragioni che nel 17 aprile, la proposta del relatore fu approvata in Senato e quindi la tassa ministeriale da 1 a 15 come la carta di licenza rilasciata dal regio prefetto, furono cancel­ late dal disegno ministeriale.

« E dopo tutto ciò restiamo meravigliati come il Senato non abbia affrontata un’ altra questione, quella cioè di sciogliere questa industria della pesca da quei vincoli feudali di origine e signoriali, che

sono particolari diritti derivanti da antiche conces­ sioni a privati, a comunità, a corpi morali e in al­ cuni luoghi anche allo Stato stesso. Malgrado che in tutte le proposte dal Ministero presentate e nelle pratiche iniziate dal Parlamento per regolare i diritti di pesca, si sia affermato sempre doversi procedere mettendo capo al principio della libertà, si è tuttavia lasciato sussistere le accennate eccezioni tanto offen­ sive alla buona regola. Tanto dalla prima che dalla seconda Commissione parlamentare si sono ripro­ dotti al riguardo documenti, reclami, petizioni, voti di rappresentanze elettive; ma nulla fin qui si è fatto di concreto, e il quadro che si trova negli al­ legati alla relazione della Giunta parlamentare, nu ­ mero 10, sebbene incompleto, ci dimostra l’aperta contraddizione fra il principio di libertà e i vincoli che in molti luoghi la restringono con diritti reali e con tasse rilevanti. »

Su questo ultimo punto della relazione che com­ pletamente approviamo, ritorneremo meglio nel se­ guito di questo studio.

« Sebbene i diritti sulla pesca (seguita l’onore­ vole Alvisi) per lo Stato importano la somma di lire 284 mila e per i Corpi morali ,e privati ascen­ dano a lire 274,776 e quindi sia sensibile l’annua rendita dello Stato, come pure quella dei Corpi mo­ rali e dei privati, tuttavia la Commissione deve, in omaggio ai principii sui quali fonda la nostra legge e alla semplicità deU’amministrazione formulare un ordine del giorno perchè con una provvisione spe­ ciale sian risolte le questioni concernenti i diritti tanto dei privati come del demanio. L’ordine del giorno sarebbe cosi concepito: « La Camera invita il Ministero a presentare un progetto di legge per la estinzione dei diritti d’uso che vincolano in al­ cune località l’esercizio della pesca. »

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752 L’ E C O N O M IS T A 23 giugno 1876 Ed ora, prima di venire all’esame speciale per

quanto breve esso possa farsi, dei singoli articoli del progetto è d’uopo rilevare le considerazioni ge­ nerali esposte sulla legge alla Camera.

Nella tornata del 19 marzo ultimo scorso, l’ono­ revole Della Rocca fu il primo a parlare su questo progetto e giustamente cominciò col lamentare l’in­ differenza che si dimostra verso quei progetti di legge, i quali, come questo, tendono a regolare le forze produttive del paese, mentre sono aspettati con impazienza e sono discussi con tanta premura (sono sue parole) tanti altri progetti di legge, i quali tendono ad esinareire il paese. Dichiarava di accettare in generale il progetto, ma formulava al­ cune sue rispettose critiche, come egli le chiamava : 1° Avrebbe voluto che si risolvesse la questione dei diritti di pesca, abolendoli, poiché sono un residuo degli antichi diritti feudali, e non limitarsi come aveva fatta la Commissione, a presentare un ordine del giorno per invitare il Ministero a studiare que sta materia, che d’altronde e stata regolarmente studiata. 2°. Deplorava la divisione del territorio in compartimenti marittimi, perchè egli diceva non es­ ser giusto che un pescatore che è iscritto in un compartimento non possa esercitare il diritto natu­ rale della pesca in un altro compartimento. 3° Pa­ trocinava la istituzione dei probi-viri, che avrebbe voluto vedere riprodotta, perchè essi tutelassero gli interessi della classe dei pescatori, e dessero il loro avviso sopra i regolamenti della pesca. 4° Lam en­ tava a buon diritto l’ingerenza del Governo nell’ap­ provazione dei regolamenti locali. Non si deve ri­ chiedere per essi l’approvazione del Ministero, ma lasciare la cosa alle autorità e corpi locali. 3° Il Governo dovrebbe incoraggiare e spingere Y indu­ stria del corallo, col togliere gli ostacoli che ci sono a questa pesca, ostacoli che esistono nella legge della marina mercantile: si accordino maggiori faci­ litazioni per l’approvazione a capitano, non si parla di un legno di grossa portata, ma di una piccola barca pescareccio, non richiedendo da questo un esame gravissimo, che pochi possono superare, e richiedendo l’età di 21 anno invece di 2 5 ; si ado­ peri maggiore energia per l’arresto dei marinari di­ sertori che colla loro fuga compromettano il capi­ tale e l’industria pescareccia: per l’opposto si de­ plora che i pescatori si arrestino per reati di lieve momento, onde invece di attendere alla pesca lan­ guiscono in carcere inoperosi. Yi è nel progetto una disposizione che dice che il ritrovatore dei banchi corallini abbia il diritto di usufruirne a preferenza dagli altri. Ciò è giusto ed anzi egli vorrebbe che ciò non fosse soltanto p e r le acque dello Stato, ma per qualunque acqua.

Succedeva al deputato Della Rocca, l’on. Varò, il quale presentava tre articoli che voleva che fossero

preliminari del progetto: 1° Voleva che si comin­ ciasse, come egli diceva, a legare la proprietà pri­ vata della pesca, il diritto di pesca colla proprietà delle acque; e quindi il suo articolo primo era cosi concepito: « Non si può pescare nelle acque di proprietà privata contro il diritto del proprietario » lasciando poi, quanto alle pene, regolare la cosa al diritto comune, alla legge generale. 2° Nelle acque pubbliche o demaniali avrebbe attribuito il diritto di pesca allo Stato, all’oggetto che il Governo es­ sendo proprietario di esse vi promuovesse la pisci- coltura.

Li 44 maggio 4876.

Avv. Cablo Gat t esch i.

L’IMPOSTA SUI REDDITI DI RICCHEZZA MOBILE

IN RAPPORTO

AI LAVORATORI DEL SUOLO

A ll’onorevole signor deputato commendatore Isacco Pesaro-Maurogònato, presidente della Commissione d ’inchiesta sull'imposta di ricchezza mòbile.

Piombino-Dese, 46 ottobre 1875. La Commissione consorziale per la risoluzione dei reclami concernenti le imposte dirette, istituita pei Comuni di Piombino-Dese e Trebaseleghe (Padova) ha avuto campo, nel veder funzionare da vicino e in quanto ha di più ingrato e fiscale l’imposta su’red- diti di ricchezza mobile, di rilevare tali e tante sconcordanze e incongruenze che stima debito suo renderne senza più informata la S. V. 111.ma, che è, se la memoria non falla, presidente di una Com­ missione amministrativa d’inchiesta, istituita appunto per investigare e riferire sull’andamento dell’impo­ sta stessa, nonché per suggerire quei provvedimenti che fossero stimati opportuni ad ovviare ai mag­ giori inconvenienti che si fossero manifestati nella sua applicazione. Teme, a dir vero, che arriverà troppo tardi, perchè le cose su cui verrà discor­ rendo possano trovar posto in quella relazione che, a quanto si dice, la suaccennata Commissione d’in­ chiesta ha già presentata, ma ad ogni modo si af­ fida che a lei non mancherà mezzo di richiamare sulle stesse, ove stimi prezzo dell’opera il farlo, la attenzione dei di lei colleghi in Parlamento e quella, che più importa, di chi è più direttamente interes­ sato alla retta applicazione delle leggi.

Son questioni affatto rusticane quelle di cui si occuperà, ma degne ciononostante dello studio più diligente perchè interessanti in sommo grado la giu­ stizia e l’ equità e quindi anche un poco la pub­ blica moralità.

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25 giugno 1876 L’ E C O N O M IS T A 753 mezzadri, terza.rii, ecc., che coltivano in una parola

il fondo col patto di dividere i prodotti (Articolo 9 della legge 11 agosto 1870, num. 578-1) e quella degli affittavoli che esercitano la industria agra­ ria, cioè che essendo estranei alla proprietà del suolo conseguiscono redditi assumendo affittanze agrarie con correspettivo fisso in generi o da­ naro (articolo 9 della legge 11 luglio 1861, nu­ mero 1830 e successive disposizioni) ; pei primi la tassa si liquida con norme speciali e favorevolis­ sime — il 5 per cento dell’imposta prediale principale governativa che colpisce il fondo dato a colonia, quando quest’ imposta tocchi o sorpassi le lire 50 annuali — pegli altri invece vige la regola comune ed i redditi rispettivi accertati e resi imponibili colle solite detrazioni e normalità van soggetti pure alla solita tassa del 13 20 per cento.

La Commissione scrivente non va a sindacare le ragioni che possano aver consigliato questa di­ versità di trattamento; certo che, se si è partiti dal concetto che le affittanze a correspettivo fisso sieno sempre una speculazione industriale, si è fatto una strana e deplorabile confusione: ad ogni modo se in Toscana e in Lombardia, dove è di regola la

m ezzadria e non si ha quasi esempio di affittanze

agrarie assunte dagli im m ediati lavoratori del suolo la cosa può stare, in altre parti, e specialmente da noi dove succede quasi l’ inverso, esso non fa che produrre una stuonatura marcatissima, aggravata poi anche da due circostanze, estranee se vogliamo alla questione, ma pure influentissime alla sua retta intelligenza, cioè a dire lo stagliato rapporto tra lira d’ imposta fondiaria e il corrispondente reddito

colonico, ogni qualvolta questo debba concorrere ad

accertare il m inim um imponibile di redditi di altra categoria; e secondo la gravosità della tassa incom­ bente all’affittazione a correspettivo fisso non solo in via assoluta, ma anche in confronto — che il confronto è inevitabile — colla gravissima tassa pre­ diale che colpisce in via principale i fondi dati in affittanza.

Tratteggiata così per sommi capi l’ essenza e la gravità della questione, la Commissione scrivente di­ scende senz’ altro al suo svolgimento, cominciando poiché le torna, dallo sbagliato rapporto tra la lira d’ imposta fondiaria e il reddito colonico.

Ma cosa è prima di tutto questo rapporto, e come è che sbagliato manifesti così apertamente la sua dannosa influenza? P er ben comprendere tutto que­ sto è necessario risalire alle origini, alla genesi cioè ed allo scopo per cui un tale rapporto fu sta­ bilito.

Dopo che dalla legge era stata provvisto ad una tassazione pei coloni basata su di un criterio af­ fatto diverso di quello degli altri industriali, il re­ golamento si è trovato subito di fronte alla neces­

sità di provvedere pel caso che un colono — come quasi sempre avviene — fosse anche contempora­ neamente un piccolo industriale, ma, lo si noti, in condizioni tali che nè la colonia nè il reddito del- l’ industria, separatamente considerati raggiungessero il rispettivo minimo imponibile. Allora, per vedere se questo colono industriale potesse esser compreso nelle liste dei contribuenti nasceva la necessità che i due redditi di cui godeva fossero assieme riuniti ; ma poiché a lato di un reddito effettivamente accer­ tato non si aveva che una presunzione di reddito basata sul criterio dell’ imposta fondiaria pagata dal fondo tenuto a colonia, così per sommare assieme due quantità tanto eterogenee, occorreva prima di ogni altra cosa, ridurle, per così dire, al medesimo denominatore, e cioè tradurre il criterio di reddito in reddito vero, dando al criterio stesso un valore determinato, ossia adottando un rapporto che ser­ visse a determinare a quanto di reddito effettivo dovesse intendersi corrispondere una lira d’ imposta fondiaria. Stabilito questo, era facile vedere se il red­ dito industriale di un colono unito ai redditi colo­ nici, richiamati per sola memoria, potesse ritenersi superiore al minimo di lire 400 imponibili e dovesse per conseguenza sottoporsi a tassa coll’aliquota or­ dinaria, nonostante che per sè solo fosse di molto inferiore al minimo stesso.

Se senza tanto strologare, chi presiedeva alla com­ pilazione del Regolamento avesse considerato che, astrazione fatta dalla diversità del modo di liquidare la tassa, agli effetti della imponibilità, tanto vale­ vano le 50 lire d’imposta fondiaria per un colono che le 400 di reddito per un altro industriale, il rapporto che si andava cercando sarebbe stato na­ turalmente e rigorosamente stabilito colla equazione 50: 400 :: 4 : x — e cioè = x 8, e ogni difficoltà sa­ rebbe sparita prima ancora di sorgere, con sodisfa- zione di tutti e con rispetto alla logica, inquantochè 1’ ¡stesso rapporto di uno d’imposta ad otto di red­ dito era già stato dalla legge stabilito in confronto dei proprietarii dei fondi dati a colonia, (dividenti a metà il prodotto) che come i coloni dei quali si discorre si trovassero anch’essi nel caso di eserci­ tare una piccola industria non producente per sè sola un reddito uguale o superiore al limite mi­ nimo di lire 400 imponibili (art. 7 della legge 41 agosto 1870). E a dir giusto che questa fosse l’in­ tenzione del legislatore non vi ha dubbio di sorta :

dopo aver lasciato intendere — nelle relazioni che accompagnavano la proposta — come e perchè ab­ bia creduto opportuno stabilire pei coloni e una speciale aliquota, e un criterio così diverso da quella

effettività di reddito che è base normale dell’ impo­

sta, dichiara che « ove l’ imposta principale fondia­ ria non giunga a questo limite di 50 lire il reddito

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inferiore al limite minimo (art. 9 della legge citata) »

Ora è certo che questo limite minimo cui si rap­ porta la legge altro non è che il minimo imponibile adottato in via generale, e certo è pure che non si avrebbe potuto in modo più chiaro e concettoso esprimer l’ idea che come si tassano le colonie pa­ ganti da 50 lire d’imposta fondiaria in su, solo per­ chè queste 50 lire si presumono equivalere a lire 400 di reddito imponibile, così ogni frazione di lire 50 d’ imposta dovea intendersi corrispondere a una

egual frazione di lire 400 di reddito.

Il Regolamento . però non ha creduto così ; esso ha considerato che la legge dopo aver stabilito in

via generale che l’aliquota principale d’ imposta sui

redditi di ricchezza mobile dovesse essere del 12 per cento, ha dichiarato, puramente e semplice- mente, che i coloni saranno tassati in base al 5 per cento dell’imposta principale fondiaria cadente sul fondo condotto a colonia; questo — secondo lui — non vuol dire che la legge abbia pei coloni stabi­ lito, oltre che un diverso criterio di reddito anche una diversa aliquota, ma sì una aliquota che deva necessariamente e sostanzialmente corrispondere alla aliquota generale, colpire cioè esattissimamente nella proporzione del 12 per cento quel reddito colonico che è rappresentato dal criterio delle 50 lire d’im­ posta. Ha in altre parole invertito i termini del raf­ fronto, e anziché tener per equiparato il criterio di reddito al reddito effettivo, è partito dal concetto di una aliquota uguale, cosicché « stabilito il rap­ porto fra l’aliquota speciale d’imposta sul reddito colonico rappresentato (1) dalla tassa fondiaria e l’aliquota normale per ogni altro reddito, ogni lira d’ imposta fondiaria erariale principale dovuta per il fondo condotto a colonia si valutò per lire 0,41666 di reddito imponibile di ricchezza mobile » (Rela­ zione sull’ amministrazione delle imposte dirette dal 1861 al 1870, presentata dal ministro Sella nella tornata del 12 dicembre 1871, pag. 105-106). E in questa maniera, dopo avere elevato l’imposta fondiaria alla dignità di reddito presunto tassabile al 5 per cento, ha voluto, estraendone pe’ contin­ gibili casi il reddito effettivo, desumerlo dal rapporto che correva tra il 12 0[Q dell’ aliquota generale ed il 5 0[0 della aliquota speciale, ed in conseguenza colla equazione ormai famosa 1 2 : 100 :: 5 : x e cioè x = 41,636 — ha avuto, per non dire altro, il coraggio civile di dichiarare, come si è visto, che ogni lira d’imposta fondiaria non poteva

corrispon-(1) Proprio così; l’Amministrazione ne’suoi calcoli, non ha desunto il reddito dall’imposta fondiaria, ma ha ritenuto senz’ altro che questa rappresentasse il reddito, tanto è vero che ne'prospetti e nelle s ta ti­ stiche ufficiali, non si parla infatti già più d’imposte fondiarie accertate come criterio del reddito dei

coloni, ma si e senz’ altro come redditi colonici.

25 giugno 1876 dere che a lire 0, 41666 di reddito- colonico effet­ tivo (art. 55 del Regolamento 25 agosto 1870), e cioè che quelle 50 lire d’imposta fondiaria che se­ condo il senso e la lettera della legge dovevano ri­ tenersi corrispondere al limite minimo, ossia che lire 400 di reddito imponibile, non rappresentavano invece che un reddito effettivo di (50 X 0, 41666) lire 20 8 3 !!

Quest'errore grossolano non ha e non può avere alcuna influenza finché trattisi della tassazione di redditi puramente colonici, ma si rileva facilmente e fino all’evidenza ogni qualvolta i redditi colonici stessi debbano concorrere a far determinare l’ im ­

ponibilità dei redditi di altra categoria, ossia ogni

qual volta si abbia necessità di valersi del succitato rapporto per vedere se uniti questi redditi di altra categoria col reddito colonico si abbia, come dice il Regol. una « somma che ecceda le lire 400 im­ ponibili (art. 55).

Un colono, per esempio, che abbia una colonia pagante oltre lire 50 d’ imposta fondiaria, entra per questo sol fatto nel novero dei contribuenti e quel qualunque altro reddito — fosse pure per un dato di sole lire 60 — che ritraesse da un’ altra indu­ stria, dovrebbe senza bisogno d’altra investigazione esser tassato coH’aliquota normale del 12 ( lo 20) per cento. Difatti quando l’ imposta fondiaria pagata pel fondo è censita corrispondere a un reddito di ricchezza mobile superiore al limite m inim o, nes­ suno cerca più in là e quel qualunque altro re d ­ dito di diversa categoria che il colono possiede ri­ cade necessariamente e per forza di legge tra gli imponibili coll’ aliquota ordinaria del 13 20 per cento. P er contro un altro colono che anziché 60 avesse 370 lire di reddito d’ altra industria, ma avesse una colonia pagante solo lire 49 d’ imposta fondiaria principale, andrebbe esente da ogni pagamento, per­ chè tradotte le lire 49 d’imposta in reddito impo­ nibile col rapporto favoritoci dal Regol. esse non corrisponderebbero che a lire (49 X 0, 41666) 20 42, e queste sommate colle altre lire 370 forme­ rebbero un totale di lire 390 42, sempre inferiore a quel limite minimo che segna la non imponibilità dei redditi industriali. Per cui siamo a questa strana conseguenza che mancando una giusta rispondenza di estimazione tra redditi colonici superiori od in­ feriori al criterio che serve da limite minimo, più potrebbe la differenza in meno di una lira sulla somma dell’ imposta ■ fondiaria della colonia, che quella di 310 lire in più sull’ imposta dei redditi industriali di un’altra categoria.

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25 giugno 1876 L’ E C O N O M IS T A 755 bile e marcata quella differenza di trattamento che

già esiste per legge tra coloni ed affittuali a cor- respettivo fisso in forza del criterio pensatamente adottato pei primi. Infatti, mentre i coloni hanno un trattamento che in definitiva li assoggetta ad una tassa di meno che 0, 60 per cento del reddito effet­ tivo, gli altri son dalla legge trattati da veri indu­ striali e peggio (1), e i loro redditi depurati dalle poche spese di produzione che si ammettono in de­ duzione, e ridotti ad imponibili vengono tassati nel solito ammontare del 13 20 per cento. Ora a que­ sta differenza legale, contro cui non si contrasta — arrogi l’altra che scaturisce dal Regolamento nel caso frequentissimo che coloni ed affittuali abbiano redditi di altre industrie e che a fo rm a r l’imponi­

bile di questi debbano rispettivamente concorrere o

i redditi della colonia o quelli dell’affittanza, i co­ loni, valendosi del rapporto sullodato, che fa loro diminuire di quasi 2[5 quel reddito che in forza del criterio adottato è già presunto in somma otto volte minore del probabile, sfuggiranno quasi necessaria­ mente ed ogni tassazione, mentre gli affittuali non avran sol che li asciughi e dovran pagare di santa ragione, nonostante che e per esperienza che se ne fa tutti i giorni, e per concorde opinato della scienza sieno in genere in assai peggiori condizioni dei coloni.

Tutte queste circostanze han posto in grave im­ barazzo i presidenti ed i membri delle Commissioni consorziali di campagna posti in giornaliero contatto coi contribuenti e costretti a giustificare l’opera pro­ pria riportandosi alle disposizioni di un Regolamento non conforme alla legge, e adducendo delle ragioni che come non convincon loro, così non possono a maggior ragione convincere chi vi sia niente niente interessato. E se non fosse stata l’acquiescenza, o a dir giusto la ragionevolezza degli agenti delle impo­ ste (cui del resto, solo ora avanza tempo di spie­ gare la loro attività su questo argomento) essi si

(1) È un fatto che non può passare inosservato. Mentre per tu tte le altre industrie è ammesso il di­ falco dal reddito delle spese per l’opera prestata da famiglie associate, o da figli maggiorenni (art. 51 del Regolamento e decisione della Commissione centrale, num. 8107. Fase. I o, pag. 125), per le co­ lonie ed affittanze agrarie non è ammessa separa­ zione di sorta, ed esse sono considerate come un solo ed unico ente. (Art. 9 della legge e 63 del Re­ golamento), è insomma tassato l'ente produttore non chi ne fruisca il prodotto.

È un’altra strana anomalia poco giustificata dal sistema patriarcale vigente ordinariamente nelle affit­ tanze e niente affatto dal maggior comodo dell’am­ ministrazione, o come si è asserito dalla lievissima

tassa. (Relazione della Commissione dei provv. finan­

ziari 2 maggio 1870, pag. 71).

sarebbero trovati nella necessità di rassegnare un mandato insostenibile; nonostante questo, dovranno farlo in seguito ripugnando loro di prestar mano a un compromesso che riesce ad una menzogna, forse pietosa, ma che li pone in contradizione col man­ dato che hanno, senza toglier nulla all’ intrinseca in­ giustizia del diverso trattamento surrammentato ed alle conseguenti cantonate del Regolamento. E que­ sta sarebbe che qui dove il reddito di un affittuale a correspettivo fisso, netto dalle deduzioni ammesse dalla legge, potrebbe senza sforzo esser ritenuto di 60 o 70 lire per ettaro, fu ritenuto in media di soli 25, cosicché si potè, escludendo i piccoli, compren­ dere nei ruoli dei tassabili solo quei grossi affittan- zieri che raggiungono il minimo imponibile in modo evidente e lo passano, lasciando stare tutti quegli altri che pure a stretto rigore avrebbero dovuto es­ servi compresi.

E diversamente non potevano fare. Una masseria, poniamo, dell’estensione di 40 ettari della rendita (1) effettiva di lire (46 75 per ettare) 1877, e censuaria (nel rapporto di 1 ad 1 82) di lire 1031 32, paghe­ rebbe a titolo di imposta fondiaria principale (in base all’ aliquota 0, 205) lire 211 42, per cui se data a colonia farebbe, in ragione del 5 per cento sulla imposta fondiaria, pagare al colono un’imposta di ricchezza mobile di lire 10 57 — data in affittanza a correspettivo fisso farebbe pagare al conduttore sul suaccennato reddito netto di lire 1877 — impo­ nibile lire 1407 71 — un carico di annue lire 185 81, cioè 18 volte più che al colono e tanto

quasi quanto paga all’erario p er imposta fondiaria principale il proprietario del fondo.

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756 L’ ECON contadini e per deprimere sempre più l’agricoltura del nostro paese, colpita con questo da un flagello peggiore del macinato, che è almeno in sè stesso, se non nei suoi effetti, uguale per tutti, mentre que­ sto ora denunciato colle sue sconcordanze e colla sua diversità di trattamento dà luogo a confronti più che odiosi, pregiudizievoli e vergognosi.

Giunta a questo punto e preoccupata della possi­ bilità della facile obbiezione che è più presto tro­ vato il male che suggerito il rimedio, la Commis­ sione scrivente ha dovuto fare a sè stessa una do­ manda che venia naturale. Che si dovrebbe dunque lare? Innalzar la tassa pei coloni a livello di quella pegli affittuari, abbassar quella di questi a livello di quella degli altri, o sopprimerla addirittura per gli uni e per gli altri.

Indubbiamente la prima, se adottata, produrrebbe uno scoppio di reazione incalcolabile e per la sua gravezza anche di fronte all’imposta fondiaria pagata dal proprietario del fondo dovrebbe presto soppri­ mersi o quanto men modificarsi. Ma anche modifi­ cata nel senso che pel reddito degli affittuali e dei coloni si formi una nuova categoria e si stabilisca l’imponibile colla detrazione dei 5[8 del reddito ef­ fettivo netto da spese, si ricadrebbe sempre nella difficoltà che si era inteso schivare col provvedi­ mento adottato pei coloni nella legge degli l i agosto 1870, vale a dire nelle laboriose difficili e quasi impossibili operazioni di un giusto apprez­ zamento.

P er contro col ridur la tassa pegli affittuali a li­ vello di quella dei coloni, basandone l’accertamento e la riscossione sulle stesse modalità non se ne ot­ terrebbe sicuramente che un unico effetto : quello di render gli introiti a questo titolo così esigui da non valere quasi la spesa della loro escussione ; (I) tanto più che le finanze dello Stato rimarrebbero sempre esposte ad un pericolo contro cui non hanno riparo e del cui manifestarsi si han già i primi

sin-(1) L'Annuario del Ministero delle finanze pel 1875, dà che furono per lo stesso anno accertati in tu tto il regno redditi colonici (imposte fondiarie relative a colonie) per lire 11,755,868, locchè al 5 50 per cento (decimo compreso) da un introito di poco più di 600,000 lire. Tassati coll’istesso metodo anche g li affittuali si potrebbe calcolare al più al più su di un reddito uguale (i piccoli sarebbero sempre esclusi) e quindi su di un totale di lire 1,200,000. Del resto tu tta Italia messa a colonia e niente escluso dalla tassa, non potrebbe dar più dei 6 milioni di lire.

Ora la tassa a carico degli affittuali, a giudicarla ad occhio e croce e tenendo presenti tu tte le cir­ costanze che possono avere influito sul giudizio delle Commissioni non si può ritener superiore ad un milione e mezzo di lire.

25 giugno 1876 tomi, la divisione cioè e la suddivisione, fittizia se vuoisi e puramente nominale, ma legalmente accer­ tata delle grosse masserie in tante parti che singo­ larmente prese costituiscano delle affittanze non pa­ ganti le 50 lire d’ imposta principale governativa. E così anche quel poco che si dovrebbe incassare sfuggirebbe di mano proprio quando si credesse di aver fatto cosa di che tutti potessero andarne con­ tenti.

Resterebbe quindi 1’ ultimo espediente sul quale la Commissione non si ferma neppure perchè non sarebbe già più un espediente, ma un abbandono puro e semplice della tassa, e così per tutti buono meno che per le finanze dello Stato, che vedrebbero in esso una sosta fatale nel sospirato cammino del pareggio.

E la questione sul da farsi rinasce quindi tanto più momentosa quanto più deve essere risolta con benigno riguardo, così alle finanze dello Stato come alle condizioni de’contribuenti.

Questa Commissione è ben lungi dal pretendere d’essere arrivata a una soluzione inappuntabile; ma però, persuasa com’ è che ognuno debba concorrere del suo meglio a rischiarare quelle questioni che interessino il pubblico benessere e l’ ordine sociale, non si perita di esporre alla S. Y. Ill.ma un’idea che, nata negli umili dibattimenti di un Commis­ sione di campagna, può forse meritare di essere presa in attenta considerazione.

E l’idea sarebbe che, abbandonata l’attuale duplice organismo della tassa in quanto colpisca i coltiva­ tori de! suolo, essa si rimaneggi così che venga a colpire in modo uniforme e tassativo il suolo nei suoi coltivatori, ma in misura così tenue che, am­ messa pure qualche differenza nella produttività e rendita dei fondi, nessuno abbia giusto motivo a la­ gnarsene, e la tassa stessa possa essere, quanto può esserlo una tassa, bene intesa e bene accolta da tutti. Cadendo la tassa sul suolo piuttostocbè sul reddito cessa la ragione ed anche l’occasione della distinzione di limite imponibile o no : la tassa così riformata verrebbe a far riscontro all’imposta fon­ diaria senza esserne una superposizione, chiaro e s ­ sendo che cadrebbe a carico del proprietario allora solo che fosse anche coltivatore del suolo e dovrebbe poi essere tenue (senza esserlo ridicolosamente), sia per non sollevar clamori fondati, sia per potersi senza sforzo, commisurare alle scarse risorse dei contadini.

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25 giugno 1876 IV E C O N O M IS T A 757 giore di quello del proprietario, in altri, quantunque

notoriamente agiato o solvibile, possa andar esente mentre non lo è dalla sua imposta fondiaria un proprietarucolo accasciato sotto il peso de’ debiti e de’continui bisogni.

D’altronde il salto, che ora vi è, da 40 lire di imposta di ricchezza mobile a niente affatto è troppo marcato, nelle campagne specialmente, perchè non abbia a dar luogo a poco benigni commenti, e per­ chè il maggiore pregio di un imposta, quello della sua proporzionalità, non sembri sconvolto o da una fatalità che non si capisce e non si spiega, o dal­ l’arbitrio del primo commissario venuto. Parlate a un contadino di limite imponibile, di discrinazione, di Categorie; vi capisce? Che! Sa che Tizio è un affittuale come lui, quasi quanto lui, e non paga un centesimo contro i 40 franchi che a lui toccano ; sa che Caio è un colono con doppia, tripla terra della sua e non paga pur niente. Oh ! che gli importa del resto?

E si noti — e i contadini sei sanno e lo dicono — che il maggior numero de’campi tenuti in affit­ tanza dagli immediati coltivatori del suolo non è argomento di maggiore benessere, ma solo effetto de’maggiori bisogni di una più grossa famiglia, e che del resto, grossi e piccoli alla fin d’anno sono tutti ricchi ad un modo, e son bravi se — meno eccezioni non calcolabili — riescono a mettersi in n à r i col proprietario del fondo.

E la riforma proposta verrebbe opportuna a met­ tere un po’ d’armonia nelle due imposte — la fon­ diaria e la ricchezza mobile — in quanto troviamo

ne’fondi il loro ceppo comune e fornirebbe alla

ricchezza mobile un primo gradino e una equa base a quella progressione che la giustifica e la rende tollerabile.

Nè l’abolizione del minimo imponibile, per la nuova categoria, può essere un serio ostacolo quando il criterio della imposta e conseguentemente il tasso, sia così sostanzialmente diverso da quello generale, e quando specialmente nella legge attuale già se ne ha esempio pei redditi della Categoria A . soggetta a tassa per qualunque minimo ammontare. Or bene, quel che si è fatto in alto, si può ripetere anche in basso della scala dell’imposta senza alterarne l’or­ ganismo, tanto più che anche ora pe'coloni la tassa che pur si dice di ricchezza mobile avrebbe cambiato fisonomía, senza che alcuno fiatasse. Ma la nuova pro­ posta avrebbe questo vantaggio che sodisfacendo le esigenze più puritane, metterebbe in armonia il fisco colla morale, e sarebbe giusta, sarebbe equa, sarebbe proporzionale.

Calcolata quindi, poniamo senz’altro riguardo, in ragione di centesimi 50 in media per Ettare cioè a seconda della Classe rispettiva in cent. 40 50 o 60 per uno coltivato e ritenuto le frazioni superiori

a mezzo Ettare come un Ettare intero, essa colpi­ rebbe il coltivatore solo in ragione di circa l’I per cento del reddito effettivo — e sarebbe quindi sop­ portabile dalle più modeste fortune, — e potrebbe ciononostante dare allo Stato, sui 24 milioni (^Ettari censiti in Italia un introito di 12 milioni circa cioè 4 o 5 volte più di quel che gli rendono attual­ mente i redditi dei coloni o degli affittuali cumulati assieme. L’accertamento dei redditi imponibili ossia degli enti tassabili, sarebbe facilissimo, tutto risol­ vendosi nella riproduzione dei ruoli dell’ imposta fondiaria per superficie censita, anziché per rendita censuaría ; e la riscossione pure, nulla ostando che si possa benissimo prescrivere che l’ imposta s ia , come ora pe’coloni, anticipata dal proprietario del fondo, salvo a lui di rivalersene sul coltivatore (1).

Alle obbiezioni che si potessero fare all’adozione di questo sistema, la Commissione scrivente non trova difficile rispondere. E, prima di tutto a chi dicesse che desso implicherebbe l’ abolizione del minimo imponibile per la categoria dei coltivatori del suolo o cambierebbe perciò natura alla tassa, oltre il già detto, soggiunge che questo cambiamento non è tale che possa far ostacolo poiché è anche diverso il criterio che regolerebbe la tassa rifermata, e se è vero che pagherebbe tassa anche chi avesse un mi­ nimo reddito è però vero che questa sarebbe in misura così tenue da non potersi manco confrontare col tasso che colpisce attualmente i redditi agricoli che non siano privilegiati come quelli de’ coloni. L’abolizione del limite imponibile andrebbe di conserva coll’abbassamento dell’aliquota e il resultato sarebbe una compensazione, un livellamento di condizioni orà assai disparate e mal confrontabili tra loro. Del resto, come si è già detto, l’imposta così riformata senza cessar d’esser una vera e propria imposta di

(1) La riforma proposta potrebbe operarsi anche estendendo a tu tti i coltivatori il provvedimento ora vigente pe'coloni: solo per ottenerne l’ istesso prodotto occorrerebbe elevare al 10 per cento 1’ a- liquota attuale e toglier sempre l’ esenzione per le colonie che sono al disotto delle 50 lire d'impos+a. Però cosi facendo si ridesterebbe naturalmente l’idea d’un

quarto decimo sulla fondiaria e potrebbe incontrar

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758 L’ E C O N O M IS T A 25 giugno 1876 ricchezza mobile, dovrebbe più che altro far riscontro

all’ imposta fondiaria assimilandosene l’ organismo, solo che anziché colpire il proprietario nella rendita, colpirebbe il coltivatore nel profitto e così come non vi ha esenzione pe’piccoli possidenti nulla ob­ bliga che vi abbia ad essere pe’ piccoli coltivatori. L’ente produttore in un caso e nell’altro è sempre

uno, il suolo, ed è questo che viene colpito produca

pel proprietario o pel coltivatore.

Si dirà forse che i piccolissimi coltivatori, quantunque piccolissima la tassa che lor competa non sapranno come fare a pagarla; ma e perciò? Non son forse in riguardo all’imposta fondiaria molto più grave, nell’istessissimo caso anche i piccoli possidenti? Chi non conosce o non rammenta qualcuno di loro espropriato appunto perchè impossibilitato a pagarla.

Più seria obbiezione potrebbe essere l’altra che il sistema di tassa escogitato venendo a colpire an­ che i proprietari che siano coltivatori de’propri fondi, verrebbe ad essere per loro, quantunque in lieve misura, una sovrapposizione all’ imposta fon­ diaria, sovrapposizione alla quale il Parlamento si è sempre mostrato contrario, tanto quando era pro­ posta dall’ onorevole Scialoia come tassa sull’ en­

trata fondiaria come quando nel 1870 fu pro­

posta dall’onorevole Sella come tassa sui redditi

dell’industria agraria, esercitata dal proprietario del

fondo. Ma però riesce opportuna un’importante os­ servazione e cioè che la riforma o, se più piaccia, la nuova tassa proposta non avrebbe alcuna analogia con quelle altre volte presentate all’apprezzamento della Camera e che nel caso concreto l’imposta colpirebbe il fondo non pel suo reddito complessivo ma solo pegli utili della sua exploitation, vale a dire pel profitto che resta all’affittuale dopo pagato il fitto, e pel maggior reddito che un proprietario avveduto può ritrarre e ritrae senza dubbio amministrando un fondo in economia diretta piuttosto che cederlo ad altri in affittanza.

Difatti conglobando una stessa persona gli attri­ buti di proprietario e di coltivatore è fuor di dubbio che accumula in se stessa la rendita del primo e il profitto del secondo: ora se questo sarà obbli­ gato a pagare sul suo profitto un tanto, non è egli giusto, logico e conveniente che paghi anche il primo pel suo! Perchè dovrebbe, come fa ora, goderlo ri­ spetto agli altri, assolutamente e gratis.

Pel decreto-legge Scialoia, sull’ entrata fondiaria il proprietario avrebbe pagato le tassa su tutto il reddito di tutti i suoi fondi ; pel progetto di legge presentato dal Sella il proprietario sarebbe stato colpito dall’imposta di ricchezza mobile su tutto il reddito de’fondi tenuti in economia; pel progetto in esame il proprietario sarebbe colpito solo per il

di p iù del reddito dell’economia diretta in confronto

dell’affittanza. La differenza quindi di questa dalle

precedenti proposte è troppo marcata perchè si possa senz’esame riportarsene alla cosa giudicata, e d’ al­ tronde poiché è certo che un vantaggio, o grande o piccolo esiste, col lavorare la terra in economia, è giusto che questo vantaggio, che è poi un maggior reddito sia scontato e paghi una tassa massime quando questa tassa si contenga in così onesti e ristretti limiti da riescir quasi quasi insensibile. Certo poi che, caso avvenendo, non si dovrebbero far eccezioni e che il proprietario dovrebbe esser obbligato al pagamento in qualunque caso anche quando il fondo in diretta economia, più che per speculazione fosse tenuto per lusso o per comodità, come nel caso dei parchi delle ville, delle vigne, ecc. l’utilità del fondo essendo allora rappresentante dall’uso che se ne fà piuttostochè dal reddito che se ne cava.

Nè la intellettuale separazione del reddito dello stesso fondo in redditi di proprietà e redditi di utiliz­ zazione (exploitation) sarebbe cosa del tutto nuova per noi e per la nostra legge: abbiamo infatti il caso di un’industria esercitata a domicilio, in cui il proprietario deve con prudente arbitrio distinguere il reddito proprio del fabbricato dal reddito prove­ niente dall’industria, così che non si farebbe pei fondi che quello che si è fatto ed ammesso — e fu giusto — per le case che un proprietario tiene ad usi industriali, per cui vi sarebbe un altro punto di contatto, di legame e di analogia tra le varie leggi d’imposta del nostro paese.

E mentre da un lato — quello della imponibi­ lità del reddito — il colono avrebbe in ric­ chezza mobile, 1’¡stesso trattamento fatto al proprie­ tario dalla legge sull’imposta fondiaria, dall’altro — quella della incidenza della tassa — al proprie­ tario coltivatore sarebbe fatta l’ istessa posizione del coltivatore puro e semplice, e così, tolta ogni naturale o artificiale differenza, sarebbero tutti eguali innanzi alle esigenze ed alle necessità del fisco, che vedrebbe senza urti e senza scosse, anzi smozzando orni angolosità, srandemente facilitato il suo com- pito e accresciuto il suo introito di circa 9 milioni per anno. Del vecchio meccanismo della tassa, in quanto si applichi a redditi siffatti, rimarrebbero in piedi due sole cose: il calcolo de’redditi stessi in ragione di otto volte l’imposta fondiaria ogniqual­ volta debbono concorrere a far determinare l’impo­ nibilità dei redditi di altra natura, e l’applicazione pura e semplice della Legge attuale quando si tratti di redditi provenienti dalla vera e pvopria industria

agraria, cioè di affittanze assunte per pura specu­

lazione da individui non immediati coltivatori del

suolo; e quindi tanto quelli che le assumono per

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25 giugno 1876

La Commissione è spiacente che le sia mancato tempo, e modo di approfondire un argomento che presenta un così vasto orizzonte, ad ogni modo non dubita d’essersi spiegata quanto basta perchè l’idea, se meritevole, sia raccolta e fatta opportunamente valere. In ogni caso dichiara, che mentre per quanto riguarda la riforma proposta, deve rimettersi al giu­ dizio di chi sia di lei più competente in materia, deve insistere in ogni e più formale maniera perchè sieno corrette le sbagliate disposizioni del nostro Regolamento e sia senza più sostituito nel calcolo dei redditi dei coloni, ogni qualvolta essi s’ introdu­ cano nell’estimazione d’altri redditi a pura memoria al rapporto di 1 d’ imposta e 0 ,4 1 6 6 6 di redditi, l’altro più razionale e solo giusto di 1 d’imposta ad 8 di reddito. È questione di puro Regolamento e quel che più importa di Regolamento sbagliato ; nulla può ostare alla sua immediata correzione.

L a Commissione consorziale d i Piombino-Bese e Trebaseleghe :

Avvocato Gaetano T o rri, presi­ dente — Agostino Rarbiero — Giacomo Cagnin — Agostino De Grandis.

RIVISTA BIBLIOGRAFICA

G. Fortunato. — Delle Società cooperative di cre­ dito. — Napoli, 1875.

La soluzione del problema della distribuzione della ricchezza è la questione più grave, o certo una fra le più gravi che presenti la scienza econo­ mica. Tutti sono d’accordo nel dire che la distri­ buzione deve esser fatta secondo giustizia, ma al­ l’atto pratico è facile il vedere che i principi'! astratti di giustizia non possono fornirci il criterio deside­ rato. Imperocché da una parte noi abbiamo la pro­ prietà e il capitale, il cui profitto può scendere al

m inim um senza che per questo il capitale risenta

un danno, perchè può esserne cresciuta la massa ; dall’altra abbiamo la moltitudine dei lavoranti, la quale non può veder migliorate le sue condizioni che da un aumento della mercede reale.

Ora T aumento della mercede reale non può aver luogo che quando ribassino i prezzi delle mercanzie che entrano nel consumo del lavorante; ma perchè ciò avvenga occorre che la popolazione lavoratrice rimanga dentro certi limiti, il che non suole troppo facilmente avvenire. Ecco perchè nel sistema attuale la posizione del lavorante è sempre precaria e lon­ tana da ciò che è desiderato e diciamo pure desi­ derabile.

Nondimeno la giustificazione del sistema attuale sta in ciò che esso assicura al lavorante una mag­ gior somma di beni di quella di cui potrebbe go­

759 dere sotto sistemi quali furono escogitati dai rifor­ matori. — Oltre ai benefizi che il crescere della civiltà arreca a tutti i cittadini, il sistema attuale assicura la formazione del capitale mediante la pro­ spettiva del guadagno — il capitale è l’ alimento del lavoro — tende a ridurre il profitto al minimum e ad aumentare la parte del lavoro. Però è certo che il salario ha sempre in sè qualche cosa di pre­ cario e di instabile, e che a voler rendere più si­ cura la posizione del lavorante, conviene che egli sia posto nel caso di ottenere un capitale.

Ma il capitale non può senza ingiustizia e senza danno essere fornito dallo Stato; esso non può es­ sere che frutto di risparmio. Conviene dunque che le classi meno agiate acquistino l’abitudine della previdenza. Se in certi casi il risparmio è per loro impossibile, non può dirsi che sempre sia così, e l’esperienza lo mostra. Però le quote isolate sareb­ bero sempre piccole e converrebbe riunirle e vol­ gerle all’ impiego produttivo. Di qui il concetto della cooperazione, la quale, se non potrà essere la forma universale e finale di organamento del lavoro, ha però dinanzi a sè un grande avvenire.

Se non che alla cooperazione occorrono i mezzi materiali e le qualità morali. I magazzini coopera­ tivi e le Società di credito serviranno a preparare gli uni e le altre. Più che vera e propria forma di cooperazione sono il mezzo a quella che lo è vera­ mente e propriamente, cioè alla forma di pro­ duzione.

Abbiamo voluto premettere queste poche parole per notare la importanza tutta speciale del tema che il signor Fortunato ha impreso a trattare. Il suo la­ voro è una relazione alla Associazione unitaria me­ ridionale ed è diretta a dimostrare l’utilità che le provincie del mezzogiorno potrebbero ritrarre dalla istituzione di Società cooperative di credito. Ci af­ frettiamo a dire che il lavoro dell’egregio scrittore pare a noi commendevolissimo, sia per i concetti che esprime, sia pel senno pratico che dimostra nel suo autore.

E rii osserva a buon diritto che la classe meno agiata è appunto quella che per via del credito po­ trebbe affrancarsi dalla povertà, ma a cui d’ altra parte il credito è più diffìcile, o è possibile solo a condizione di interesse usurario pari all’insufficienza dell’oggi e all’ incertezza del domani. Insomma si è miserabili perchè non si ha credito e non si ha cre­ dito perchè si è miserabili ; circolo vizioso questo, da cui ogni uscita sembra impossibile.

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760 L’ E C O N O M IS T A 25 giugno 1876 il problema che pareva insolubile colla istituzione

del credito mutuo e le numerose e fiorenti Banche popolari della Germania sono la miglior prova della bontà del suo concetto.

L'egregio A., dopo avere accennate le basi su cui lo Schultze ha fondate le Banche di Germania, parla del movimento cooperativo in Italia, ne trac­ cia la storia e ne espone le condizioni presenti, no­ tando come al 31 gennaio 1875 le Società fossero 101, di cui 62 nell’Alta Italia, 32 nella media, A nel Napoletano, 3 in Sicilia, nessuna in Sardegna, Le provincie meridionali hanno pertanto partecipato in piccola proporzione al movimento cooperativo, sebbene, per citare soltanto una istituzione, la Banca operaia di Napoli proceda mirabilmente.

L’ A. vede nella cooperazione del credito il mezzo per liberare dall’usura che le opprime le classi po­ vere del Napoletano, e si volge con nobili parole ai più agiati e ai più colti cittadini, ricordando loro che il principio di socialità economica è la più so­ lida garanzia di ogni politico rinnovamento.

Lo spazio non ci consente di seguire il chiaris­ simo A. nello svolgimento della sua tesi. Egli ana­ lizza diligentemente le varie funzioni delle Banche popolari, enumera le obiezioni, risponde alle diffi­ coltà e termina col proporre un elaborato progetto di Statuto per la istituzione di Banche popolari nel mezzogiorno d’ Italia.

V’ è una questione grossa, quella che riguarda il principio della solidarietà. È noto che in Ger­ mania, dove questo principio è stabilito per legge, le Società di credito han fatto buona prova. È noto egualmente come la legge belga lo accolga bensì in modo facoltativo. In Inghilterra, in Francia e in Italia quel principio fu abbandonato e forse con danno.

È vero che le banche di Germania non agiscono che in parte coi capitali proprii, ma è anche vero che col sistema praticato in Inghilterra, in Francia e in Italia si hanno gl’inconvenienti delle Società anonime, assai gravi quando si tratta di una Banca fondata per la più gran parte col risparmio del povero. E l’esperienza fu spesso assai dura. Se non che l’A. osserva che nelle provincie meridionali oc­ corre il concorso dei benestanti e di loro bisogna valersi anche per l’amministrazione; e che sarebbe impossibile che essi volessero esporsi con tutti i loro beni. E certo questo argomento di opportunità ha molto valore, per quanto non risolva intieramente la questione che qui non possiamo discutere a fondo.

Concludendo, ci piace tributare anche una volta larga e sincera lode al chiarissimo autore. La sua relazione è dotta, semplice, ordinata ; pregi tutt’al- tro che comuni al di d’osrsri.

Storia del Debito Pubblico del Regno d’Italia nar­ ra ta da Felice Giordana. — Torino 1876. L ’ A. dichiara in una breve prefazione che è

stato mosso a questa pubblicazione dal desiderio di far partecipare gli altri alle molte ricerche da lui fatte intorno alle origini ed alle varie fasi per cui è passato il debito pubblico italiano, e promette fin da principio di esser semplice e di tenersi lontano da quello stile grave e pesante che usano, gli scrittori di cose politico-economiche, ac­ cusa, a vero dire, infondata per molti fra i mede­ simi che adoperano certo un modo più famigliare di quello con cui è scritta questa prefazione.

L’A. accenna al debito in genere, notando in ma­ niera un po’singolare, che nacque coll’uomo e che la vita è un capitale ricevuto ad imprestito forzoso che siamo obbligati a restituire ad una indetermi­ nata scadenza, senza preavvisi e a capriccio del creditore. Noi ci permettiamo di consigliare al si­ gnor Giordana che dichiara di essere uno scrittore novello e di scendere in campo per fare le sue prime armi, di guardarsi da queste fantasie poco dicevoli a un serio lavoro scientifico.

Venendo a parlare del debito pubblico, ne di­ stingue e ne descrive le varie specie, non senza riandare brevemente le vicende storiche del credito. P assa dipoi ad esaminare gli avvenimenti sia poli­ tici sia economici che dettero origine ai debiti Sardo, delle due Sicilie, Lombardo-Veneto, Toscano, Mo­ denese, Parmense e Pontificio, e qnesta parte che forma quasi tutto il libro è condotta con assai ac­ curatezza e diligenza, tranne qualche inutile sfoggio di facile eruzione.

Espone successivamente come si procedesse alla unificazione del debito pubblico, presentando la legge che istituiva il gran libro, nel quale sa­ rebbero compresi tutti i creditori dello Stato, sostituendo a tante specie di debiti un solo rappre­ sentato da un solo titolo identico, con identiche con­ dizioni e garanzie. Parla l’A. del primo prestito ita­ liano di cui spiega la necessità colle condizioni del tempo, dopo avere al solito in modo alquanto strano detto che l’Italia unita volle che innanzi tutto pren­ desse posto nel gran libro un prestito italiano che aprisse « l’ entrata agli altri debiti che facevano ressa alla porta, trepidanti per la loro sorte premu­ rosi di porsi sotto un tetto a riparo dei venti e delle procelle. »

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sa-23 giugno 1876 L’ E C O N O M I S T A 761 premino convenire ritenendo che sia una gravissima

imposta che pesa sul paese, ben più grave di quel che non sembri all’A. Egli vorrebbe pertanto che si rivolgesse l’attenzione ad alleggerire il bilancio dalle passività che rivestono il carattere di perpe­ tuità, per le quali vengono meno alPerario le risorse richieste dalla difesa e dalla prosperità della na­ zione.

A questo proposito osserva che sui vecchi stati d’ Italia il debito aveva accanto il sostegno della cassa di ammortizzazione e che l’ammortamento fu posto a base del suo sistema finanziario da Pitt, che PA non sappiamo con quanta esattezza chiama il padre della scienza economica. Conviene che nello attuali condizioni del bilancio non si può staccare una parte delle risorse, che non bastano quasi a sodisfare le normali esigenze del tesoro, per rivol­ gerla a fondare una cassa di ammortamento, ma trova che ci si può servire dei materiali che già trovansi in pronto, cioè del Consorzio nazionale, che egli propone di convestire senz’altro in mia cassa di ammortizzazione con norme determinate. Sarebbe egli dice, in sostanza ben poca cosa, ma intanto si comincerebbe e ricorda che saepe cadendo gatta

cavat la}!idem, concludendo che la cassa di ammor­

tizzazione è la garanzia a cui han diritto i creditori dello Stato, il mezzo di diminuire le tasse e di rial­ zare il nostro credito.

Lasciando da parte che non è facile vedere nella istituzione del Consorzio nazionale un mezzo rispon­ dente allo scopo, non crediamo troppo alla oppor­ tunità di una cassa di ammortizzazione. Prima di tutto occorrerebbe che il fondo diretto a questo scopo nascesse da reali economie e non da nuovi debiti. Inoltre questa istituzione costerebbe allo Stato, e d’ altra parte è troppo facile in un momento cri­ tico il mettere la mano su cotesto fondo come di­ mostra la tristissima esperienza che ne fecero la Francia e l’ Inghilterra. Yi è un mezzo molto più facile e più semplice. Quando le condizioni del paese migliorano, quando si ha un’eccedenza nell’attivo, si può rivolgere cotesta eccedenza a ritirare diret­ tamente una parte della rendita dal mercato, estin­ guendo così gradualmente il debito senza compli­ cazioni inutili e che riescono il più delle volte ai fine opposto a quello a cui sono destinate.

Non vogliamo lasciare la penna senza dire al si­ gnor Giordana che mentre abbiamo notato franca­ mente quelli che a noi son parsi i pregi e i difetti del suo lavoro, lo esortiamo, attese le buone attitu­ dini che dimostra, a voler nutrire l’ingegno di forti studii economici, dacché se il disdegnare la pratica può condurre all’ utopia, il disdegnare la scienza può condurre all’ empirismo.

La Casa del Sultano di Costantinopoli

(C ontinuazione e fine. Vedi N 110.)

Continuiamo a togliere dalla Corrispondenza del V Economiste français i ragguagli sulla casa del Sultano.

Portieri e guardiani. Queste due categorie d’ im­

piegati formano un personale numeroso, sono 21 le residenze imperiali, palazzi e chioschi, dei quali alcuni sono edilìzi immensi, sono sorvegliati dalle guardie di notte. A Costantinopoli come nelle pro- vincie ogni centro ha le sue guardie notturne. Esse percorrono le strade durante la notte, sotto pretesto di sicurezza pubblica, battono il lastrico for­ temente col grosso bastone del quale vanno armate. I Ladri avvertiti della loro presenza, se ne vanno, mentre gli abitanti vengono svegliati, durante il sonno. Malgrado le lagnanze continue della popola­ zione, questo bizzarro sistema di guardie notturne è conservato dalle autorità turche. Nei palazzi imperiali le guardie notturne, manifestano la loro presenza in modo diverso, ma pure altrettanto anormale, in vece di picchiare il lastrico col loro bastone fischiano stranamente, e durante tutta la notte.

Personale Spesa annua

I Capo portiere direttore dei portieri. F. 13,800 12 capi p o r t i e r i ... « 33,120

1 Direttore generale delle guardie

n o ttu r n e ... « 13,800 15 Capi di guardie notturne . . . «< 41,400 380 Portieri e guardie no ttu rn e. . . « 209,760

Ciascuno di questi uomini riceve una livrea ogni anno del valore di 115 fran­ chi e così, per 409 livree comprendendo

quelle dei capi...« 47,035 Totale della s p e s a ... « 358,915. Questi portieri e guardie notturne sono ripartiti come segue nelle residenze imperiali :

42 portieri e 42 guardie notturne a Dalma Baytché

24 « 24 « x a Thcèragan

24 « 24 « « al Vecchio Serraglio

18 « 18 « a Yediz

18 « 18 » x a Beylerbey

64 » 64 x x nei 16 chioschi

totale 380 fra portieri e guardie notturne.

Cucine del palazzo. È questa una spesa assai grande.

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