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IL VALORE AGGIUNTO DELLA PROPRIETA FAMILIARE NELLE IMPRESE DEL SISTEMA MODA:

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UNIVERSITA’ COMMERCIALE “LUIGI BOCCONI”- MILANO Facoltà di Economia Aziendale

Corso di Laurea Specialistica in “General Management”

IL VALORE AGGIUNTO DELLA PROPRIETA’ FAMILIARE NELLE IMPRESE DEL SISTEMA MODA:

LA PROPRIETA’ FAMILIARE RAPPRESENTA ANCORA UNA RISPOSTA VINCENTE PER LA COMPETITIVITA’ DEL MADE IN ITALY?

Relatore: Chiar.ma Prof.sa Stefania Saviolo

Tesi di Laurea di:

Elena Santoro Matr. N° 1107960

ANNO ACCADEMICO 2006-2007

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INDICE

 INTRODUZIONE

 CAPITOLO I: LA PROPRIETA’ FAMILIARE: UN “GENERE CON MOLTE SPECIE”

1.1 Una definizione di “Impresa Familiare”.

1.2 La presenza di Imprese Familiari in Italia: alcuni dati di sintesi.

1.3 Le strategie di crescita delle imprese familiari.

1.4 I punti di forza e debolezza delle Imprese Familiari: un confronto di performance con le imprese non familiari.

1.4.1 I potenziali costi del controllo familiare.

1.4.2 I potenziali benefici del controllo familiare.

1.5 Il ruolo della proprietà familiare per la crescita delle imprese: quali linee guida per salvaguardare la competitività?

Conclusioni

CAPITOLO II : IL SISTEMA MODA: UN CLUSTER AGGREGATO DI DIVERSI SETTORI

2.1 Cosa si intende per Sistema Moda?

2.1.1 Le imprese del Sistema Moda: l’abbigliamento.

2.1.2 Le imprese del Sistema Moda: la distribuzione.

2.1.3 Le caratteristiche delle imprese di Moda italiane.

2.2 Le ragioni storiche del successo del “Made in Italy”: il ruolo dei distretti industriali.

2.3 La crisi del Made in Italy: cause e possibili soluzioni strategiche.

2.3.1 Le cause “interne”: la scarsa competitività delle imprese italiane.

2.3.2 Le cause “esterne”: la concorrenza dei paesi a basso costo.

2.3.3 Le possibili soluzioni strategiche.

Conclusioni

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 CAPITOLO III: LE ALTERNATIVE ALLA PROPRIETA’ FAMILIARE: IL GRUPPO MULTI-BRAND E LA QUOTAZIONE IN BORSA

3.1 Le operazioni di Mergers and Acquisitions nella Moda: una panoramica generale.

3.1.1 Le operazioni di Acquisizione: finalità e motivazioni.

3.1.2 Le operazioni di Acquisizione: i fattori critici di successo 3.2 La quotazione in borsa

3.3 Il caso: Mariella Burani Fashion Group ed il successo della strategia di acquisizione.

3.4 Conclusioni: i vantaggi e gli svantaggi dei Gruppi multi-brand e multi-business.

Conclusioni

 CAPITOLO IV: LE POTENZIALITA’ DEL PRIVATE EQUITY PER LE IMPRESE ITALIANE DI MODA

4.1 Le operazioni di Private Equity nei settori Moda & Lusso: una panoramica generale.

4.1.1 Le operazioni di Private Equity: tipologie.

4.1.2 Le operazioni di Private Equity: finalità e vantaggi ricercati.

4.1.3 Le operazioni di Private Equity: i fattori critici di successo.

4.2 Il caso: Il Fondo Camelot Business Architect e i vantaggi del Private Equity rispetto l’acquisizione da parte di un Gruppo.

Conclusioni

 CAPITOLO V: MARELLA FERRERA: IL CASO DI UN’IMPRESA FAMILIARE DI PICCOLE DIMENSIONI

5.1 Ilmondo Marella Ferrera: la concezione della Moda come Arte

5.2 Il Sistema Impresa-Famiglia: la continuità con l’attività sartoriale dei genitori e la crescita dell’azienda.

5.2.1 Le caratteristiche dell’assetto proprietario: le risorse e le criticità dell’impresa familiare domestica.

5.3 La Moda di Marella Ferrera: la declinazione contemporanea dellaHaute Couture.

5.3.1 Il posizionamento di Marella Ferrera: più in alto della punta.

5.4 Possibili direttrici di crescita futura Conclusioni

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 CONCLUSIONI

 BIBLIOGRAFIA

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INTRODUZIONE

Obiettivo di questo lavoro è dimostrare l’esistenza di alcuni vantaggi competitivi delle imprese familiari che operano nel Sistema Moda.

La proprietà familiare rappresenta in assoluto il modello di capitalismo prevalente nella realtà imprenditoriale italiana, e la diffusione di tale tipologia di imprese risulta essere maggiore nei settori c.d. “maturi”: tessile-abbigliamento, alimentare, meccanica.

Proprio la forte capillarità di imprese o gruppi a proprietà familiare rappresenta, secondo l’opinione di molti autori, la ragione principale della crisi del nostro sistema economico.

Le imprese familiari, in particolare, sono tradizionalmente considerate incapaci di mettere in atto processi di crescita duraturi per due “patologie”, note, rispettivamente, come: “capitalisti senza capitale” e “ malattia del nepotismo”.1

La prima indica la resistenza che molte famiglie proprietarie oppongono alla crescita per paura di perdere il controllo della loro azienda, la seconda l’incapacità di gestire in maniera adeguata i processi di ricambio generazionale in modo da portare al vertice persone di reale valore.

A tali teorie si sono poi contrapposti altri studi2 che, più recentemente, hanno dimostrato l’esistenza di molti fattori di successo che rendono la performance delle imprese familiari superiore, in termini di fatturato e redditività, rispetto alle altre tipologie di aziende nei rispettivi settori.

Così, ad esempio, si è espressa l’imprenditrice di un Gruppo leader nel settore degli elettrodomestici: “il più grande patrimonio delle nostre aziende familiari, il plus essenziale, è costituito dalla profonda passione che gli imprenditori portano avanti e che, nei casi di maggior successo, riescono a trasmettere ai propri collaboratori meglio che in un’azienda totalmente managerializzata. Nel nostro Gruppo c’é un clima di famiglia allargata che condivide un grande progetto di lungo termine e che sente, oltre alla necessità di portare a casa risultati positivi, una precisa responsabilità sociale. Questo perché azienda vuole anche dire creazione di ricchezza, di posti di lavoro, di un indotto molto ampio3”.

Il mondo delle imprese familiari abbonda di imprenditori che si esprimono con tale entusiasmo.

Ed é proprio il capitale umano delle aziende a proprietà familiare, soprattutto quando lo stesso presenti l’eterogeneità di un management composto in parte da membri interni alla famiglia proprietaria ed in parte da membri esterni, che si configura come la principale fonte di vantaggio competitivo di tali imprese.

1 Guido Corbetta: prefazione all’edizione italiana del volume: “Mantenere il Successo”, a cura di Miller e Le Breton, ed. Etas, Milano, 2005.

2 Tra gli altri: Miller e Le Breton, op. Cit., e J.L.Ward: Unconventional Strategy, in: AA.VV., Strategia delle Aziende Familiari,Dispensa del corso 8112, Università Bocconi, ed. Il Pellicano, Milano,2006.

3Si tratta del discorso pronunciato da Emma Marcegaglia, A.D insieme al fratello dell’omonimo Gruppo, in occasione del Convegno Nazionale delle Aziende Familiari tenutosi a Milano l’11 Novembre 2005. Gli interventi di tutti gli ospiti cono conservati nel Quaderno Aidaf n° 25.

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Questo è vero anche per i settori Moda e Lusso4, dove eccellenza qualitativa, creatività imprenditoriale e flessibilità organizzativa rappresentano aspetti imprescindibili ai fini del successo competitivo.

Tra i primi venti Gruppi italiani5, ben quattro sono controllati da famiglie proprietarie e operano nei suddetti settori, seppure in diversi comparti, con ottimi risultati: si tratta di Bulgari, Marzotto, Benetton, Luxottica.

E accanto a tali casi di imprese quotate, diversificate e con una forte presenza internazionale, ve ne sono molti altri di aziende talvolta più piccole, talvolta integrate, non quotate, focalizzate in precise arene di mercato, che ugualmente contribuiscono alla competitività del nostro Sistema Paese: il Gruppo Max Mara, il Gruppo Ermenegildo Zegna, ma anche le numerosissime imprese subfornitrici dalle quali dipende la sopravvivenza dei distretti industriali, ne rappresentano alcuni esempi.

La proprietà familiare consente a tali imprese di sentire la responsabilità sociale per le sorti del Made in Italy, di comprendere i valori che stanno alla base del Sistema Moda e farli propri, meglio di quanto riescano a fare aziende non familiari: questa è l’intuizione che ha ispirato la ricerca qui proposta.

Corrispondenza che non è ignorata dagli imprenditori familiari del settore in questione: così ha parlato ad esempio Gianni Versace6 a proposito del ruolo della moda per la competitività del Sistema Italia:“Il made in Italy è Como, Biella, Prato, Roma e Firenze. Sono i comuni e le imprese familiari della cultura italiana. E’ l’essere italiano,l’essere artigiano, il saper fare.

Proprio tale consapevolezza porta le imprese familiari del Sistema Moda a considerarsi come missionari di un preciso scopo sociale, custodi di un pezzo importante di identità nazionale: …”La Gianni Versace non è stata più un lavoro, ma una religione. Una passione di vita. E in effetti è così in tutte le aziende familiari. Una passione positiva, non distruttiva. Una passione che rispetta il lavoro”7.

Il tema della proprietà familiare, delle ragioni che spiegano la sua capillare diffusione nella realtà imprenditoriale italiana, nonché dei vantaggi e degli svantaggi connessi a tale modello di capitalismo, è stato largamente indagato8, con contributi più o meno recenti, nella letteratura tanto italiana quanto internazionale.

Tuttavia, nel momento in cui si circoscrive l’analisi alle imprese italiane del Sistema Moda, il successo internazionale del quale, a partire dagli anni ’70, si deve anche alla piccola dimensione,

4Come si approfondirà in seguito, per settore “Moda” si intendono entrambi i comparti del tessile-abbigliamento, da un lato, e calzature-pelle-accessori, dall’altro. Il settore “Lusso” comprende invece il comparto dell’orafo-gioielleria e quello degli accessori di fascia alta e medio-alta.

5Guido Corbetta: Prefazione all’edizione italiana di : “Mantenere il successo”, op. Cit.

6 Intervista concessa a Marco Vitale, citata da Santo Versace nell’ambito del Convegno delle Imprese Familiari di cui sopra.

7Gianni Versace, intervista citata.

8Per comprendere la vastità dei contributi accademici in materia di imprese familiari basta consultare la bibliografia del libro: “Capaci di Crescere”, a cura di Guido Corbetta, op. Cit., o visitare il sito dell’Associazione Italiana delle Imprese Familiari: www.aidaf.it.

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alla flessibilità organizzativa delle nostre aziende collegate nelle catene del tutto peculiari dei distretti industriali, l’impressione è che non sia stata dedicata sufficiente attenzione agli innumerevoli vantaggi che la proprietà familiare, se capace di evolversi e tener fronte alla sfida internazionale, può dare alle medesime imprese.

Così, ad eccezione di alcuni contributi illuminanti sul tema della relazione tra proprietà familiare e imprese di moda9, sembra potersi rilevare un’indifferenza di fondo circa tale relazione: se l’impresa è familiare e non ottiene grandi risultati, la configurazione della proprietà è additata come la principale causa della scarsa competitività; se, invece, l’azienda si caratterizza per un’eccellente performance, ed è gestita da una o più famiglie, tale aspetto, lungi dall’essere riguardato come potenziale fonte di superiore competitività, è talvolta addirittura archiviato come eccezione che conferma la regola: l’impresa va bene anche se è familiare.

A ciò si aggiunga che la strada aperta negli anni Novanta da Bernard Arnaud con la costituzione del primo Gruppo internazionale del Lusso, il LVMH, ha fatto emergere un’importante tendenza che pone le imprese del Made in Italy quasi di fronte ad un aut-aut: il Gruppo multi-business rappresenta una valida e conveniente alternativa alla proprietà familiare delle aziende italiane?

Quali sono i vantaggi e gli svantaggi di tale configurazione? A cosa vanno incontro le imprese italiane che decidono di vendere la proprietà ad un Gruppo internazionale?

Così si è espresso lo stilista Valentino Garavani in occasione di una intervista rilasciata all’Espresso10: “Oggi la competizione è tra grandi società, tra colossi come il gruppo LVMH, il gruppo Prada o Gucci. Da soli, ormai, è quasi impossibile sopravvivere. Questa è una delle ragioni per cui abbiamo venduto la Valentino alla Hdp. Certo mi fa impressione pensare che dei miei rivali di un tempo, adesso quasi nessuno è ancora alle redini della sua azienda.”

Si tratta di parole che, pronunciate da un “re” incontrastato dell’alta moda, con quarant’anni di carriera alle spalle, suscitano profonde riflessioni.

Parole che lasciano forse un po’ di amarezza in chi si chiede: ma la strada della cessione è davvero così inevitabile?

A tali domande si intende dare risposte concrete, sulla base della convinzione che le sorti del Made in Italy dipendano, se non in tutto, in buona parte dalla capacità delle nostre imprese di valorizzare quegli elementi di distintività che da sempre le hanno caratterizzate attraverso il modello proprietario più opportuno.

Il panorama italiano delle Imprese di Moda si divide, oggi, tra aziende che hanno intrapreso la strada della cessione a grandi Gruppi, come nel caso di Valentino ( Gruppo Marzotto), Fendi (LVMH), Moschino ( Gruppo AEFFE), imprese che, dotate di una forza economica e finanziaria molto più elevata hanno acquisito le suddette aziende per diventare Gruppi multi-brand ( basti pensare ai Gruppi Prada o Gucci ), imprese che non hanno intrapreso nessuna delle due strade, e

9 Si veda a tal proposito l’articolo di Stefania Saviolo: “Servono alla moda italiana i gruppi multibusiness e multibrand?” in: “Economia & Management”, n°2/2003, o, ancora: Stefania Saviolo, Erica Corbellini: “La scommessa del Made in Italy”, in particolare pp. 99-119, ed. Etas, Milano,2004.

10In: Speciale Moda Espresso 2000, su: www.repubblica.espresso.it

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che si configurano, tuttoggi, come entità integrate al loro interno, estremamente focalizzate su precisi segmenti competitivi e, talvolta, controllate al vertice dalle medesime famiglie proprietarie che le hanno fondate: Max Mara, Ferragamo, Chanel, Hermés, ne rappresentano alcuni esempi.

L’analisi che qui si propone ruota intorno alla domanda-chiave: la proprietà familiare rappresenta ancora un motore di crescita per le imprese italiane del Sistema Moda?

Si tratta di un argomento quanto mai attuale, e sul quale, ancora, non esistono risposte univoche che godano di un consenso unanime.

Così, ad esempio, si sono espressi in proposito alcuni ricercatori dell’Università Bocconi11: “La forza economica [ dei grandi Gruppi multibrand] permette loro di accaparrarsi le risorse per vincere anche sul fronte simbolico, e la vittoria sul fronte simbolico impedisce alle risorse che producono profitto economico di diventare “out”.

La questione che in tale sede si vuole portare all’attenzione, strettamente connessa alla domanda chiave della ricerca, è: ma è proprio così?

Senza voler nulla togliere alle conclusioni che tale studio metterà in luce, ci si domanda se la concezione del rapporto grande Gruppo-piccola impresa titolare di un singolo marchio come relazione di reciproco scambio, vantaggioso e profittevole per entrambi, non sia forse eccessivamente semplificatrice di una ben più complessa realtà, che merita approfondimenti.

Nel solo terzo trimestre del 1999 sono state contate ben 33 operazioni di finanza straordinaria nel mondo del fashion-system, e ancora di più nel 2000 e nel 2001.

Si è trattato di un periodo, non ancora concluso, in cui non si faceva in tempo a registrare un patto, un acquisto o una concentrazione, che immediatamente viene registrata un’altra maxi operazione12.

E poiché tale aspetto risulta fondamentale per comprendere il valore aggiunto che l’impresa familiare, che compete con le sue forze e che non cede la proprietà, può ancora avere nell’attuale Sistema Moda, anche noi tenteremo di approfondirlo.

Il lavoro che si intende presentare si sviluppa in cinque capitoli.

Il primo ed il secondo capitolo sono dedicati all’inquadramento teorico dell’argomento ed agli aspetti concettuali: sarà indagata l’unità fondamentale di analisi che è l’impresa di Moda a proprietà familiare.

Il primo capitolo illustra, in particolare, le caratteristiche della proprietà familiare come modello di capitalismo più diffuso nel nostro paese: sarà fornita una definizione di impresa a proprietà familiare, saranno argomentati i punti di forza e di debolezza e le peculiarità di tale modello; in ogni paragrafo gli aspetti più propriamente teorici sono accompagnati da esempi pratici e da citazioni di importanti imprenditori italiani, che arricchiscono e rendono più concreta e piacevole la trattazione.

Il secondo capitolo è interamente centrato sul Sistema Moda: la struttura della filiera produttiva, le caratteristiche delle imprese che la compongono, la distinzione tra attività a monte della filiera ed

11Il riferimento è ancora a Cappetta,Perrone e Ponti: “Competizione economica e competizione simbolica nel Fashion System”, art. cit.

12 Mario Guarino, Feudora Rugei: “Scandali e segreti della Moda”, Editori Riuniti, Roma, 2001, pag. 52.

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attività a valle; a tali considerazioni introduttive seguirà poi un focus specifico sulle imprese di abbigliamento, che più interessano per la finalità di tale lavoro: si tratterà, in particolare, della crisi del Made in Italy, con una distinzione tra cause e possibili soluzioni strategiche.

Anche in tal caso, inoltre, le teorie ed i modelli manageriali sono accompagnati, quanto più possibile, da esempi, citazioni, affermazioni di manager e proprietari di imprese di Moda, rintracciati in letteratura nonché in articoli di quotidiani e periodici specializzati nel settore, che avvalorano ed arricchiscono il significato delle teorie.

Il terzo capitolo si concentrerà sullealternative alla proprietà familiare: l’acquisizione da parte di un Gruppo o di un’altra azienda, o la quotazione in borsa; entrambi gli argomenti sono presentati seguendo uno schema logico che prevede: definizioni ed inquadramento teorico, vantaggi e svantaggi di ogni singola alternativa; al termine del capitolo sarà poi presentato un caso empirico:

quello del Mariella Burani Fashion Group, che rappresenta, nel panorama della moda italiana, una delle massime realtà imprenditoriali per la crescita tramite acquisizioni e per la diversificazione di attività.

Il quarto capitolo illustra le logiche ed il supporto che può essere offerto alle imprese familiari di Moda dai Fondi di Private Equity: la scelta di dedicare parte del lavoro a tale strumento di finanziamento per le PMI, ancora poco sfruttato, lungi dall’essere considerata come una deviazione dal tema principale, risponde invece a quel desiderio di concretezza con cui si intende rispondere alle domande di ricerca.

In sintesi, ci si chiede:se l’impresa a proprietà familiare rappresenta un tassello fondamentale del Sistema Moda italiano, quali alternative alla quotazione o alla cessione al Gruppo sono in grado di offrire gli intermediari finanziari per supportare la crescita delle nostre imprese?

Anche a tal proposito lo schema logico della trattazione è il medesimo: sarà definito il Private Equity, saranno distinti i diversi comparti di attività che in esso rientrano, e saranno illustrati i vantaggi e gli svantaggirispetto all’alternativa della cessione.

A supporto di quanto descritto sarà anche in tale sede riportato un caso concreto: quello del Fondo Camelot, che è stato fondato nel 2005 da un gruppo di ex-manager di importanti società di consulenza, ed è interamente dedicato a fornire supporto finanziario e consulenziale a piccole e medie imprese dei settori Moda e Lusso; con due ristrutturazioni di successo in soli due anni di attività, ed un team di professionisti specializzati nell’advisory finanziario per stimolare la crescita delle imprese, il Fondo Camelot fornisce un preziosissimo esempio di come l’alleanza tra impresa ed intermediari finanziari può avere conseguenze determinanti sulla crescita e sullo sviluppo futuro, in un paese dove, nella maggior parte dei casi, la competitività internazionale delle aziende è pesantemente ostacolata dalla loro piccola dimensione.

Il quinto capitolo è, infine, interamente dedicato all’analisi di un’impresa di Moda di piccole dimensioni, a totale gestione familiare: l’azienda di Marella Ferrera.

Con l’obiettivo di illustrare come gli aspetti più teorici della proprietà familiare e della crescita trovano un riscontro, con tutte le qualità e le difficoltà precedentemente argomentate, in una realtà

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concreta di piccole dimensioni come quella dell’atelier di Marella Ferrera, il caso si colloca in una posizione ideale di sintesi di quanto è stato precedentemente affermato, e fornisce un contributo ulteriore sul tema della ricerca.

Cosa ha condotto, dunque, la scelta di Marella Ferrera?

Primo fra tutti, la sua rappresentatività nel panorama delle imprese italiane di Moda: le dimensioni piccole, la proprietà familiare, la strategia interamente influenzata dalle decisioni dei due proprietari, Marella e suo marito.

L’azienda, in particolare, focalizzata sulla produzione di abiti di Alta Moda, aveva compiuto fin dal 2000 i primi passi verso la managerializzazione e l’aumento dimensionale con la decisione di cominciare a produrre prét-à-porter, e lo sfruttamento dello strumento del licensing come mezzo necessario per agevolare il passaggio dalla produzione sartoriale a quella industriale; direzione che, come vedremo, è stata poi bloccata da una serie di esperienze negative con le realtà industriali con cui Marella si è trovata ad interagire: nulla meglio che un’esperienza del genere può dimostrare quanto difficoltosa sia la crescita per tali imprese, quanto facilmente essa possa arrestarsi alle prime, talvolta inevitabili, criticità.

Ma il caso Marella Ferrera fornisce, tuttavia, un ben più ampio contributo in tema di imprese familiari di Moda: esso illustra, infatti, quanti significati diversi possa assumere la parola crescita per tali imprese; se Marella Ferrera rimane, tuttoggi, un’impresa familiare con venti dipendenti, sì da essere classificata come “piccola” da qualsiasi modello teorico, il contributo che essa da alla crescita del Sistema, quello nazionale e, più in particolare, quello della realtà in cui si colloca, la Sicilia, va ben oltre quanto non sia possibile cogliere da modelli basati su cifre finanziarie.

La stilista rappresenta, innanzitutto, come ha recentemente commentato una giornalista13, una delle poche artiste sulla scena europea che riesce ancora a proporre con successo abiti di alta moda.

A dispetto del tragico momento che stanno vivendo le maison della haute couture francese, e in contrasto con la diffusa convinzione circa l’imminente morte dell’alta moda, c’è ancora qualcuno che, senza rompere con il passato, propone un concetto moderno di lusso nell’abbigliamento, offrendo quindi un raro esempio di riuscita evoluzione stilistica.

Ma la Moda di Marella, come vedremo, va oltre la semplice interpretazione di temi estetici per realizzare capi di indiscusso valore artistico: con l’esaltazione costante, nell’identità stilistica ed in quella d’immagine, del genius loci siciliano, con la realizzazione di abiti che sono stati spesso oggetto di mostre itineranti in quanto altamente rappresentativi della cultura e della storia del territorio natale, Marella è stata più volte proclamataambasciatrice della Sicilia nel mondo.

Le sue esperienze interdisciplinari, che uniscono i contributi di Arte, Moda, teatro e cultura, per dar luogo a capolavori intrisi di valore emozionale, offrono una nuova prospettiva per analizzare i temi della diversificazione e della crescita, attraverso lenti che esulano da quelle tradizionalmente

13Maria Luisa Tregua: “Stilisti di casa nostra”, in : Il quotidiano di Sicilia, 05 Marzo 2006.

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utilizzate, e pongono inevitabilmente la domanda:cosa significa crescere per imprese,e, potremmo dire, per imprenditori del genere?

Tali aspetti, insieme a tutti quelli di cui si è precedentemente discusso, rappresentano il substratum grazie al quale si potrà fornire risposta alla domanda di ricerca: la proprietà familiare rappresenta ancora un motore di crescita per le imprese italiane di Moda?

La risposta, del tutto personale, sarà fornita nelle Conclusioni.

La finalità più ampia del lavoro è tuttavia quella di portare all’attenzione alcune questioni, teoriche ed empiriche, sulla base delle quali i lettori possano poi rispondere, ciascuno, a proprio modo.

Un ‘ultima nota va spesa sullametodologia adottata per portare a compimento la ricerca.

La scelta che è stata operata ha previsto infatti di non concentrare i casi empirici al termine del lavoro, ma di riportarli, ciascuno, a conclusione dell’argomento cui meglio potessero essere associati: in tal senso, l’analisi del Mariella Burani Fashion Group si focalizza sulla strategia di acquisizione e sui vantaggi della quotazione, ed è riportato nel corrispondente capitolo, così come l’analisi dell’attività del Fondo Camelot arricchisce gli spunti teorici sul Private Equity.

Il caso Marella Ferrera mostra, invece, l’applicazione concreta di tutto quanto è stato affermato a proposito dell’unità fondamentale d’analisi del lavoro, ossia l’impresa di Moda a proprietà familiare, e si colloca al termine della ricerca in quanto contributo finale, necessario, per rispondere con maggiore consapevolezza alla domanda-chiave.

La trattazione degli aspetti teorici relativi agli argomenti di ciascun capitolo deriva dunque dall’interpretazione critica dei modelli manageriali e delle teorie rintracciabili nella letteratura nazionale ed internazionale; i tre casi empirici sono stati invece elaborati sulla base di interviste dirette: alla Dott.sa Daniela Zari, responsabile della comunicazione corporate del Mariella Burani Fashion Group, al Dott. Massimiliano Sandri, responsabile del Private Equity del Fondo Camelot, nonché a Marella Ferrera; è anche a queste persone che va, dunque, un doveroso ringraziamento per il valore aggiunto che hanno reso possibile in tale lavoro.

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CAPITOLO I: LA PROPRIETA’ FAMILIARE: UN “GENERE CON MOLTE SPECIE”14

1.1 Una definizione di “impresa familiare”

Un’impresa può definirsi “familiare” quando una o poche famiglie, collegate tra loro da vincoli di parentela, affinità o da solide alleanze, detengono una quota del capitale di rischio sufficiente ad assicurare il controllo della stessa15.

Quella fornita in tale sede rappresenta una definizione ampia, che permette di comprendere nella categoria le imprese nelle quali:

a) Una o poche famiglie non detengono la maggioranza assoluta del capitale di rischio, ma riescono allo stesso modo ad esercitare ilcontrollo grazie, ad esempio, a patti con gli altri soci di minoranza.

b) I proprietari dell’impresa appartengono a due o più famiglie non legate tra loro da relazioni di parentela ma dasolide alleanze: è il caso dei c.d. “soci in affari”.

Le imprese familiari così definite si differenziano dunque dalle imprese private in cui i portatori del capitale di rischio siano soggetti, aziende o istituzioni indipendenti tra loro, e dalle imprese pubbliche appartenenti ad aziende composte pubbliche tramite il sistema delle partecipazioni statali.

Una volta definite le imprese familiari, è necessario adesso tracciare le opportune differenziazioni esistenti all’interno di tale classe.

Occorre cioè comprendere che tali aziende, seppure tutte caratterizzate dall’aspetto comune della proprietà familiare, possono essere molto diverse tra loro per aspetti legati alla struttura manageriale, organizzativa, nonché alla dimensione.

In particolare, possiamo fare riferimento a tre variabili16 principali per differenziare le imprese familiari:

a) Il modello di proprietà del capitale dell’impresa.

b) La presenza di familiari nel management aziendale e nel Consiglio di Amministrazione.

c) La dimensione dell’organico dell’impresa17. Sulla base del primo parametro è possibile distinguere:

1) Modello di proprietà assoluta: il capitale è interamente posseduto da un unico proprietario.

2) Modello di proprietà chiusa e stretta: pochi membri della medesima famiglia18 (indicativamente non superiori a cinque) detengono il capitale dell’impresa.

14La citazione è tratta da Daniela Montemerlo: “La proprietà familiare: motore per la crescita o impianto frenante?”in

“Capaci di crescere”a cura di Guido Corbetta, ed. Egea, Milano,2005, pag.32.

15Guido Corbetta: “Le imprese familiari” , ed. Egea, Milano,1995.

16Guido Corbetta: “Le imprese familiari”, op.Cit.

17 Parametro, quest’ultimo, tradizionalmente considerato come il più adeguato per rappresentare la dimensione dell’impresa.

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3) Modello di proprietà chiusa e allargata: il capitale è nelle mani di numerosi membri di una o più famiglie proprietarie.

4) Modello di proprietà aperta: alcune quote del capitale sono possedute anche da membri esterni alla/e famiglie proprietarie.

Diverso dalla proprietà è poi il parametro del controllo ultimo dell’impresa, che spetta a chi detiene una quota del capitale di rischio sufficiente per esercitare l’influenza rilevante nelle decisioni di governo economico19.

Sulla base del controllo, è dunque ulteriormente possibile distinguere20:

1) Controllo familiareassoluto: interamente detenuto da una persona sola.

2) Controllo familiare con azionista di maggioranza: il controllo è a capo di un soggetto che possiede una quota di capitale superiore al 50%, ma la proprietà è condivisa con altri soci di minoranza.

3) Controllo familiare di coalizione: la maggioranza assoluta è posseduta da un gruppo di familiari.

4) Controllo familiare fifty-fifty: il controllo è esercitato da due persone o da due distinte famiglie che possiedono quote paritarie del capitale dell’impresa.

Sulla base del secondo parametro è invece possibile distinguere diverse configurazioni della direzione aziendale e del Consiglio di Amministrazione, a seconda che vi operino esclusivamente membri della/e famiglie proprietarie o anche manager esterni alle stesse.

In particolare, è possibile rintracciare tre casi distinti:

a) Management aziendale e Consiglio di Amministrazione composti esclusivamente da membri della/e famiglie proprietarie.

b) Presenza di membri esterni nel management aziendale ma presenza esclusiva di membri familiari nel Consiglio di Amministrazione.

c) Management e Consiglio di Amministrazione composti sia da membri interni alla/e famiglie proprietarie che da membri esterni.

Con riferimento, infine, al terzo parametro, è possibile distinguere21:

a) Imprese di piccola dimensione, con un numero di dipendenti inferiore a 250.

b) Imprese di media dimensione, con un numero di dipendenti compreso tra i 250 e i 500.

c) Imprese di grande dimensione, con un numero di dipendenti superiore a 500.

18Per esigenza di completezza, è necessario precisare, come si approfondirà meglio in seguito, che il parametro del modello di proprietà è indicativo del numero di membri familiari che possiedono quote del capitale dell’impresa, a prescindere, dunque, da chi effettivamente detiene il controllo dell’azienda e dall’appartenenza degli stessi membri ad una o più famiglie proprietarie: in teoria, dunque, sarebbe possibile riscontrare un modello di proprietà chiusa e stretta anche quando i proprietari sono pochi ma appartengono a due distinte famiglie. Nella realtà concreta, tuttavia, è molto raro che in caso di proprietà chiusa e stretta i membri appartengano a diverse famiglie proprietarie.

19Airoldi,Brunetti, Coda: “Economia Aziendale”, ed. Il Mulino, Bologna,1994.

20Daniela Montemerlo: “la proprietà familiare: motore per la crescita o impianto frenante?”in: op. Cit.

21Viene accolta in tale sede la classificazione proposta da D.Montemerlo e L.Gnan: “Le PMI italiane: una ricerca quantitativa”. In: “Strategia delle imprese familiari”op.Cit.

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Combinando tra loro tali parametri è possibile, infine, distinguere quattro tipologie di imprese familiari, che possono rappresentare, talvolta, quattro stadi di sviluppo della medesima impresa man mano che la stessa cresce lungo il suo ciclo di vita:

a) Imprese familiari domestiche: caratterizzate da piccola dimensione, presenza esclusiva di membri familiari negli organi di governo e direzione, e proprietà familiare chiusa e stretta.

Si tratta delle imprese nelle quali il legame famiglia-impresa assume la massima intensità: tali entità possono poi crescere affrontando un salto dimensionale, che comporta il raggiungimento di maggiori dimensioni e l'inserimento di membri esterni nel management, passando così alla seconda tipologia di impresa, o svilupparsi senza salto dimensionale, puntando cioè sul rafforzamento costante della qualità dei prodotti/servizi e su una superiore capacità di delimitazione del proprio ambito competitivo.

b) Imprese familiari tradizionali: caratterizzate da proprietà chiusa e stretta, dimensioni medie e talvolta grandi, presenza esclusiva di familiari nel Consiglio di Amministrazione e presenza di membri esterni nel Management aziendale.

Si tratta dunque di quelle imprese che, raggiunta una maggiore dimensione ed eventualmente una più complessa articolazione delle combinazioni economiche caratteristiche, hanno affrontato un delicato processo di managerializzazione che porta ad inserire, accanto all’imprenditore e ai familiari coinvolti nella gestione dell’impresa, prima uno e poi più manager esterni alla famiglia.

La managerializzazione rappresenta il più critico processo di transizione delle imprese familiari, e richiede il raggiungimento di una certa maturità culturale da parte dell’imprenditore, soprattutto se fondatore: questi deve, infatti, imparare a orientare piuttosto che fare direttamente, ad esplicitare gli obiettivi attesi e disarticolarli per le diverse funzioni, a non opporre resistenze per la paura di mollare la presa diretta o per la mancanza di fiducia nei confronti degli altri22.

La prima forma di articolazione manageriale vede solitamente sorgere, accanto alla figura dell’imprenditore, quella di un alter ego dell’imprenditore stesso: un ruolo ad altissimo contenuto fiduciario, rivestito da una persona che ha valore massimo nella realtà aziendale in cui è inserito, ma potrebbe non avere il medesimo valore in altri contesti.

L’alter ego si identifica fortemente con l’impresa e con l’imprenditore, condividendo inizialmente con lo stesso la cura per la gestione complessiva dell’azienda, senza una precisa delimitazione di responsabilità.

Successivamente, l’imprenditore può decidere di delegare alcune aree di responsabilità a membri esterni alla famiglia proprietaria, spesso definiti quasi manager.

A tal proposito occorre innanzitutto precisare che la delega di responsabilità a persone esterne alla famiglia proprietaria avviene solitamente non per un’effettiva consapevolezza, da parte

22Claudio Dematté e Guido Corbetta: “I processi di transizione dell’impresa familiare in senso stretto”, in: “Strategia delle aziende familiari”, op. Cit, pag. 64.

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dell’imprenditore, circa la necessità di inserire manager professionali portatori di competenze diversificate rispetto quelle presenti nella compagine familiare, ma quandodinamiche esterne, relative alla maggiore dimensione dell’azienda o alla maggiore articolazione delle funzioni presidiate, lo richiedano.

In secondo luogo, ai manager esterni viene solitamente richiesto un apporto di competenze specialistiche piuttosto che di capacità gestionali in senso stretto: ecco perché si parla di quasi manager, e la struttura aziendale che prende forma è tradizionalmente definita come protomanageriale funzionale: tale struttura, rappresenta il fisiologico anello di congiunzione tra una situazione accentrata ed una decentrata di delega23, tenendo presenti anche le dimensioni dell’ impresa e la sua eventuale difficoltà ad attirare manager esterni di grande prestigio.

In terzo luogo, va detto che al processo di managerializzazione vera e propria potrebbe talvolta opporsi lo stesso alter ego dell’imprenditore: questi, spesso, mal sopporta la delimitazione di responsabilità che inevitabilmente ne deriva.

Solo dopo che siano state superate tutte tali resistenza, l’impresa assume un’articolazione manageriale sufficiente per presidiare con adeguate risorse e competenze le maggiori dimensioni raggiunte24.

c) Le imprese familiari allargate: caratterizzate da dimensione media o grande, proprietà familiare allargata, presenza di membri esterni alla compagine familiare tanto nel Management quanto, solitamente, nel Consiglio di Amministrazione.

Si tratta di imprese di seconda o terza generazione, che, tipicamente, devono affrontare due problemi tra loro collegati: la deriva generazionale e il raffreddamento dei soci.

Con la prima si intende l’aumento del numero di soci familiar i al progredire delle generazioni.

Il secondo rappresenta invece l’inevitabile “allentamento” dei legami affettivi e di identificazione con l’impresa man mano che le generazioni si allontanano da quella del fondatore.

Talvolta, le aziende tentano di limitare l’effetto di tali due fenomeni, soprattutto per il rischio di conflittualità o di paralisi decisionali in caso di disaccordo che essi comportano, servendosi di particolari politiche quali: la trasmissione secondo logica maschilista, vietando dunque alle donne l’ingresso nella proprietà dell’azienda, la trasmissione con logica monarchica, limitando il numero di soci ad una o massimo due persone ola potatura, che consiste nel favorire l’uscita di alcuni soci dalla compagine proprietaria.

Le imprese familiari allargate, caratterizzate da compagini proprietarie ampie, possono inoltre trovarsi a dover fronteggiare un altro problema: quello della differenziazione tra i soci; è molto probabile, infatti, che i soci si distinguano tra i puri portatori di capitale di rischio, non coinvolti

23Guido Corbetta: “Le imprese familiari”, in: “Strategia delle aziende familiari”, op. Cit, pag. 13.

24A tal proposito è necessario distinguere, per una maggiore precisione, i casi di managerializzazione funzionale, che vedono l’imprenditore continuare a presidiare la direzione aziendale, supportato tuttavia da alcuni manager esterni a capo delle singole funzioni, dai casi di managerializzazione della direzione aziendale, nei quali la stessa direzione è affidata ad un manager esterno, ma l’imprenditore continua tuttavia a svolgere in pieno la sua funzione imprenditoriale, con la quale si intende la facoltà di elaborare le proposte strategiche di fondo da presentare ai massimi organi di governo. Per approfondimenti: Claudio Dematté e Guido Corbetta: “I processi di transizione dell’impresa familiare in senso stretto”, in: “Strategia delle aziende familiari”, op. Cit.

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nella gestione dell’azienda, e i soci che esercitano ruoli attivi nelle gestioni o nel governo aziendali.

Tale differenziazione determina spesso dei conflitti soprattutto con riferimento a tre politiche principali: la politica dei dividendi, la politica di mobilità dei titoli, la politica della comunicazione aziendale.

E’ molto probabile che i soci puri investitori siano interessati al ricevere dividendi commisurati ai fabbisogni del nucleo familiare, alla massima mobilità dei titoli in modo da poter facilmente disinvestire le rispettive quote quando non siano più interessati a rimanere proprietari dell’azienda, ad una comunicazione trasparente e tempestiva dei risultati aziendali.

I soci gestori, al contrario, sono spesso propensi ad abbassare la quota di utile distribuito per mantenere le riserve di liquidità dell’azienda, ad ostacolare la mobilità dei titoli per non arrecare danni all’impresa, a limitare la comunicazione aziendale per esigenze di riservatezza.

La gestione dei rapporti tra le due categorie di soci dovrebbe essere affrontata tenendo a mente due “dimensioni” principali25: la tensione della famiglia a mantenere l’unità, e la tensione a ricercare il bene del sistema impresa-famiglia che si concretizza, di fatto, nella capacità di distinguere gli interessi dell’impresa da quelli della famiglia.

Solo se sono elevate entrambe, la continuità del suddetto sistema sarà garantita nel tempo.

Fondamentale è inoltre la presenza di un Consiglio di Amministrazione26, formato in parte da amministratori indipendenti, che garantisca una più efficace gestione dei rapporti tra le due categorie di soci favorendo, in particolare, la partecipazione dei soci non gestori alle principali decisioni di governo dell’impresa.

Non di rado, e soprattutto nel contesto anglosassone, le aziende di tale tipologia si rivolgono a consulenti27specializzati nelle problematiche delle imprese familiari, che possono offrire, in tal caso, due principali contributi: (1) aiutare la famiglia proprietaria a siglare un patto di famiglia28, che rappresenta un documento fondamentale per mantenere la coesione e la responsabilità di tutti i proprietari nei confronti dell’impresa; il patto potrà poi avere un contenuto specifico riguardante, ad esempio, la mission d’impresa e i valori della famiglia, regole concrete per il trasferimento o l’ eventuale liquidazione delle quote proprietarie, regole per l’accesso di manager o soci esterni, e così via; (2) il consulente può anche supportare la famiglia proprietaria nella messa a punto di organi dedicati a trattare questioni specifiche, tra i

25Si fa in tal caso riferimento alla matrice proposta da Corbetta e Dematté in: “I processi di transizione dell’impresa familiare in senso stretto”, in: “Strategia delle aziende familiari”, op. Cit.

26Come si avrà modo di approfondire in seguito, il CdA sarà in tal caso chiamato a svolgere un ruolo innanzitutto partecipativo: Cfr. Brunetti e Corbetta: “Ruolo e funzionamento dei Consigli di Amministrazione nelle imprese di medie e grandi dimensioni a proprietà familiare”, in: “Strategia delle aziende familiari”, op. Cit.

27Guido Corbetta: “La consulenza alle imprese familiari”in: “Strategia delle aziende familiari”, op. Cit.

28Un patto di famiglia può essere definito come un insieme di principi e regole, condivisi e sottoscritti dai familiari, che possono riguardare alcuni o anche tutti gli aspetti dei rapporti famiglia-impresa. Generalmente, dunque, in un patto di famiglia si possono trovare tre tipi di contenuti.: a) i valori e i principi guida della famiglia proprietaria; b) le regole che concretizzano tali principi; c) alcune indicazioni per l’attuazione di tali regole. Per approfondimenti: Daniela Montemerlo e Michele Alessi: “I patti di famiglia: uno strumento di buon governo per le imprese familiari”in:

“Strategia delle aziende familiari”, op. Cit

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quali, in primo luogo, il Consiglio di Famiglia: si tratta di un istituto che garantisce la rappresentanza di quegli interessi dei membri familiari che, seppur non inerenti le questioni di business, meritano di trovare ascolto nella gestione della famiglia-impresa.

d) Le imprese familiari aperte: sono le aziende nelle quali, pur essendo il controllo mantenuto dai familiari di origine, la proprietà ècondivisa con soci esterni; in tal caso, sia Il Consiglio di Amministrazione sia il Management aziendale sono composti, in parte, da manager esterni, e le dimensioni sono, di norma, medie o grandi.

L’apertura del capitale a soci non appartenenti alla famiglia proprietaria richiede l’abbandono di politiche di gestione dell’impresa che non rispettino latrasparenza richiesta dai nuovi portatori del capitale di rischio.

Questo implica, per la famiglia-impresa:

 L’adozione di un valido sistema di Corporate Governance, inteso come l’insieme dei principi e delle regole atti a garantire la trasparenza e l’efficacia nella gestione dell’impresa.

 La costituzione di un Consiglio di Amministrazione composto in parte da amministratori indipendenti, che garantisca l’adeguata rappresentanza di tutti i portatori di interesse coinvolti nella proprietà dell’impresa, nonché la loro partecipazione attiva alle principali decisioni di governo aziendale.

 L’abbandono di politiche che possano discriminare i manager esterni e provocare il loro allontanamento dall’impresa: promozioni ingiustificate di familiari incapaci, retribuzioni eccessive ai membri della famiglia proprietaria, e così via.

Va da sé, inoltre, che la famiglia dovrà anche adottare regole concrete che garantiscano una comunicazione trasparente e tempestiva dei risultati ottenuti dall’impresa.

Infine, va semplicemente ricordato che nella realtà imprenditoriale italiana le imprese familiari si costituiscono, in un buon numero di casi29, sottoforma diGruppo di imprese facente capo ad unaHolding di Famiglia.

L’assetto a Holding consente alle famiglie proprietarie di conseguire molteplici benefici30, tra i quali si ricordano:

La possibilità di ottenere risparmi fiscali attraverso opportune localizzazioni della Holding.

La creazione di una “camera di compensazione” dei conflitti e delle tensioni tra soci, che permette di trattare a livello di Holding le decisioni chiave riguardanti il patrimonio della famiglia, separandole da quelle di business inerenti le Società operative.

La possibilità di “blindare il controllo” ostacolando lo smobilizzo di alcune quote per non arrecare danni all’impresa.

29Una ricerca della Banca d’Italia ha in particolar modo documentato che circa un terzo delle imprese manifatturiere italiane oltre i 50 addetti risulta essere indirettamente controllato da una o più famiglie, mediante una “struttura gerarchica di imprese controllate a cascata”. Cfr. Guido Corbetta: Le imprese familiari”in: “Strategia delle aziende familiari”, op. Cit

30Guido Corbetta: Le imprese familiari”in: “Strategia delle aziende familiari”, op. Cit

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La creazione di Società operative ai livelli più bassi del Gruppo nelle quali possano lavorare i giovani preposti alla successione imprenditoriale, in modo che un eventuale errore si configuri semplicemente come utile “palestra” di apprendimento senza nuocere, tuttavia, all’intera attività del Gruppo.

1.2 La presenza di imprese familiari in Italia: alcuni dati di sintesi31.

Dopo aver spiegato cosa si intende per “impresa” familiare, e aver tracciato le opportune distinzioni all’interno di tale categoria, possiamo adesso illustrare alcuni dati di sintesi relativi alla diffusione di aziende a proprietà familiare nel nostro paese, ed alle caratteristiche più ricorrenti, in termini di dimensioni medie, numero dei soci familiari e sistema di Corporate Governance, che tali imprese presentano.

Un tale approfondimento è necessario per dare un’idea circa la rilevanza economica e sociale del fenomeno.

Possiamo presentare i dati più rilevanti distinguendoli in: caratteristiche strutturali delle PMI familiari italiane, caratteristiche strategiche e caratteristiche proprietarie e di Corporate Governance.

In termini strutturali, occorre innanzitutto notare che le imprese familiari di piccole e medie dimensioni32rappresentano, oggi come dieci anni fa, l’83% delle imprese italiane.

Le imprese familiari impiegano l’81,4% dei dipendenti totali delle PMI, e ne rappresentano anche il 40% in termini di fatturato.

A ciò, va aggiunto che l’Italia ha recentemente conquistato il quarto, quinto e sesto posto nella classifica relativa ai family business più antichi del mondo33, nella quale figurano, in totale, ben quindici imprese italiane su cento.

L’età media di tale categoria di aziende è: 33,9 anni contro i 31,9 anni delle imprese non familiari.

Le imprese familiari sono mediamente più piccole delle altre: le piccole imprese rappresentano infattil’84,5% di quelle familiari e il 69,1% delle altre; il 70% delle piccole imprese f amiliari impiega meno di 50 addetti, contro la corrispondente percentuale delle imprese non familiari pari al 58,3%.

La presenza di imprese familiari è concentrata soprattutto nel settore manifatturiero, dove opera il 43,1% delle imprese familiari e il 30,8% di quelle non familiari.

In termini strategici, le imprese familiari mostrano dei comportamenti in parte simili alle non familiari, con una tendenza comune verso l’incremento della complessità strategica. Negli scorsi 10 anni, obiettivi importanti per entrambe le tipologie di imprese sono stati la crescita del fatturato,

31Le informazioni sono tratte interamente dallo studio svolto nel 2003 da Daniela Monemerlo e Luca Gnan: “Le PMI italiane, alcuni dati di sintesi” in: “Strategia delle imprese familiari”, op.Cit.

La ricerca ha in particolar modo permesso di effettuare un’analisi comparata completa tra imprese familiari e non familiari, utilizzando un campione di 620 piccole e medie imprese italiane, altamente rappresentativo della nostra realtà imprenditoriale in termini dimensionali, settoriali e di localizzazione geografica.

32Per la definizione di “piccola” e “media” impresa vale quanto già detto nel par. 1.1

33 In particolare, tra le imprese più antiche che si sono aggiudicate i primi posti in graduatoria sono: la Fonderia Pontificia Marinelli di Agnone, l’oleificio Barone Ricasoli e la vetreria Barovier & Toso; Franco Vergnano: “Ecco i 15 pionieri del Made in Italy”, il Sole24Ore, 9 Maggio 2007.

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l’aumento del numero dei dipendenti, l’ingresso in nuovi segmenti strategici e l’aumento del grado di internazionalizzazione.

In ottica previsionale, invece, entrambe le categorie considerano come importante obiettivo futuro l’aumento del numero di alleanze strategiche.

In termini di performance economica, negli ultimi anni sia le imprese familiari che quelle non familiari hanno mostrato andamenti simili dei principali indicatori di redditività: ROS, ROI e ROE.

In particolare, considerando l’arco temporale che va dal 1995 al 1999: il ROS è aumentato tanto per le imprese non familiari quanto per quelle familiari, per arrivare nell’ultimo anno considerato alla media del 5,2% per le prime e del 5,4% per le seconde; il ROI è aumentato nello stesso periodo del 2,7% per le imprese non familiari e dello 0,2% per le imprese familiari ( che hanno presentato, tuttavia, valori medi annuali più alti); il ROE, infine, ha mostrato andamenti più eterogenei per arrivare ad una media, nel ’99, del 9,6% per le imprese non familiari e del 7,4% per le imprese familiari.

Quanto alla struttura proprietaria delle imprese familiari, un elemento caratterizzante, rimasto immutato nell’arco degli ultimi 10 anni, è rappresentato dall’elevato coinvolgimento dei soci familiari nella gestione dell’impresa, considerando anche che in un terzo delle imprese osservate i familiari operano in diversi ruoli e con ampie responsabilità: essi sono spesso amministratori, proprietari, direttori ed esecutivi.

La famiglia possiede il 100% del capitale nel 71% dei casi e più del 50% nel 18,5% dei casi; il numero medio di soci familiari è pari a 3 , anche se, attualmente, il 26% ca. delle imprese familiari registra un aumento del numero di soci, che sale, talvolta, a 4 o 6.

In termini diCorporate Governance, va innanzitutto notato che in entrambe le tipologie di imprese i sistemi di Corporate Governance sono poco articolati, e alcuni organi, quali i comitati esecutivi o direttivi, sono scarsamente presenti.

Questo è vero soprattutto per le imprese familiari che mostrano una diffusa resistenza ad articolare in maniera formale la struttura organizzativa34dell’azienda, e ciò,come vedremo35, rappresenta un tradizionale punto di debolezza della categoria in esame.

Nelle imprese non familiari viene solitamente attribuita una maggiore rilevanza all’assemblea, al CdA della Holding e al Presidente: risulta cioè più naturale la distinzione tra proprietà e management; nelle imprese familiari, invece, la rappresentanza della proprietà è spesso demandata al Consiglio di famiglia piuttosto che all’Assemblea dei soci36.

Il CdA si riscontra con maggiore frequenza nelle imprese non familiari, ed è in queste più efficace oltre ad essere più numeroso e più aperto ad outsider directors.

34In particolare, Daniela Montemerlo indica, come ragione principale di tale resistenza, il problema dell’accountability:

la difficoltà dei membri di una famiglia proprietaria coinvolti nella gestione dell’impresa a rendere conto del loro operato, a fissare obiettivi strategici e controllare i risultati ottenuti. Per approfondimenti: Daniela Montemerlo:

“Complessità e altre variabili strutturali”in: “Strategia delle imprese familiari”, op. Cit, pag. 169.

35Cfr. par.1.3

36Eccezion fatta, naturalmente, per le imprese familiari aperte che tuttavia non rientrano nel campione prima citato in quanto caratterizzate, normalmente, da dimensioni più grandi.

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Altre evidenze importanti riguardano, infine, la correlazione negativa tra l’efficacia dei sistemi di Corporate Governance e, da un lato, la quota proprietaria della famiglia, a dimostrazione del fatto che più la proprietà è concentrata meno si avverte l’esigenza di organi formali di rappresentanza,dall’altro, la crescita dell’azienda: è cioè risultato che molti imprenditori si lasciano totalmente assorbire dalle dinamiche di crescita senza dedicare altrettanta attenzione alla formalizzazione della struttura di Corporate Governance.

1.3 Le strategie di crescita delle imprese familiari

Una volta delineate le caratteristiche generali della proprietà familiare, e mostrato l’importanza di tale modello di capitalismo nel sistema economico italiano, illustriamo adesso le strategie di crescita tipicamente adottate da tali aziende.

Con riferimento ai processi di crescita aziendale dei family businesses, alcuni autori37 hanno innanzitutto sottolineato l’importanza di specifiche condizioni di contesto che agisconofacilitando il percorso di crescita.

Si tratta, in particolare, di cinque condizioni:

1 La presenza di una famiglia proprietaria predisposta a sostenere la crescita: tale condizione, che potrebbe risultare scontata, può invece non verificarsi per la concezione della crescita come minaccia al controllo personale o alla propria posizione, o ancora per conflitti interni talmente rilevanti da assorbire tutte le energie della proprietà, la quale non dedicherà in tal caso sufficiente tempo e attenzione alle dinamiche di crescita.

2 Una formula imprenditoriale redditizia: la presenza di una certa redditività all’inizio del percorso di crescita sembra essere una condizione necessaria per l’avvio dello stesso, e ciò per almeno tre ragioni: innanzitutto, se la formula imprenditoriale non è redditizia l’attenzione primaria del management si concentrerà sulla sua revisione; in secondo luogo, una scarsa redditività farà venir meno il proverbiale ottimismo dell’imprenditore, che è già da sé un fattore fondamentale per avviare un percorso di crescita; infine, la redditività permette di liberare importanti risorse economiche da destinare al processo di crescita.

3 Un buon grado dipresenza internazionale: un risultato molto importante ottenuto da ricerche condotte sulla crescita delle imprese familiari italiane38, ha dimostrato che le aziende che crescono a tassi più elevati si caratterizzano, già all’inizio del percorso intrapreso, per un certo livello di presenza internazionale. Ciò è dovuto anche al fatto che molte aziende familiari italiane competono in nicchie di mercato: l’espansione internazionale si configura allora come l’unico vettore possibile di crescita organica una volta che sia stata raggiunta la saturazione del mercato domestico.

37G. Corbetta: “Dinamiche di crescita delle imprese familiari italiane”, in: “Mantenere il successo”, op. Cit.

38Il riferimento è, ancora una volta, alle ricerche che hanno condotto alla stesura del libro: “Mantenere il successo”, op.

Cit.

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L’internazionalizzazione, inoltre, come vedremo, permette a tali imprese di acquisire determinate skills internazionali39 che possono rappresentare una solida fonte di vantaggio competitivo.

4 Un basso tasso di indebitamento all’inizio del percorso di crescita: si tratta di una condizione importante per qualsiasi tipo di impresa, ma in modo particolare per i family business; per la stessa natura della proprietà familiare, tali aziende sono infatti tipicamente più avverse al rischio delle altre, e meno disposte a mettere a repentaglio la solvibilità dell’impresa ( e del proprio personale benessere) in vista del percorso di crescita.

Un basso tasso di indebitamento iniziale rappresenta in ogni caso un fattore facilitante la crescita per il più ampio spazio di manovra che da esso consegue qualora il percorso di sviluppo scelto richieda un maggior ricorso all’indebitamento esterno40.

5 Un settore di appartenenza caratterizzato da buone possibilità di crescita: tale condizione, al contrario di quelle precedentemente citate, riguarda il contesto esterno; a tal proposito, è facile intuire come settori non ancora maturi, caratterizzati inoltre o da concorrenti molto grandi o da clienti con forti potenzialità di sviluppo, rappresentino contesti esterni più favorevoli alla crescita rispetto ad altri.

E tale intuizione sembra essere ulteriormente confermata dal fatto che le imprese familiari italiane operanti nei settori più maturi, quali alcuni comparti della meccanica, del tessile o dell’alimentare, privilegiano le strategie di crescita esterna rispetto quelle di crescita organica41. Prima di delineare le caratteristiche delle principali strategie di crescita adottate dalle imprese familiari42, ed in generale ai fini di una migliore comprensione del tema, è utile soffermarsi su due aspetti fondamentali relativi: a) alla differenza tra crescita interna (o organica) e crescita esterna; b) alla differenza tra crescita con salto dimensionale e crescita senza salto dimensionale.

Quanto al primo punto, la crescita si definisce interna o organica quando prevede lo sviluppo di capacità e competenze interne all’impresa, facendo leva sulle risorse umane, finanziarie, tecnologiche e manageriali di cui già l’azienda dispone43; la crescita esterna, invece, è finalizzata ad acquisire risorse o competenze esterne all’impresa, attraverso operazioni di finanza straordinaria quali Mergers e Acquisitions.

39Pietro Mazzola: “Strategie deliberate e opportunità emergenti nei processi di crescita internazionali”in: “Mantenere il successo”, op. Cit.

40A tal proposito, un risultato sorprendente trovato dai ricercatori dell’Università Bocconi nell’analisi delle 18 imprese familiari italiane a maggior tasso di crescita, è che il livello di indebitamento di tali imprese non soltanto è stato mantenuto costante durante il percorso di crescita, ma si è in alcuni casi addirittura ridotto, a dimostrazione della diffusa attenzione da parte dei family businesses di maggior successo all’impatto che la crescita ha sull’equilibrio finanziario dell’azienda.

41Dawson e Lassini: “Contesto esterno e crescita delle imprese familiari” in: “Mantenere il successo”, op. Cit.

42Il resto del paragrafo è stato elaborato sulla base dei numerosi contributi teorici presenti in: “Gestione strategica”, dispensa del corso 8002, Università Bocconi, Anno Accademico 2005-2006, pag. 129.

43Carlo Salvato: “I processi di acquisizione nella realizzazione della strategia”in: “Gestione strategica”, dispensa del corso 8002, Università Bocconi, Anno Accademico 2005-2006.

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La seconda distinzione assume invece particolare importanza per i family businesses, i quali possono svilupparsi, come abbiamo già accennato44, secondo due direttrici: una prima modalità è quella che porta l’impresa ad acquisire maggiori dimensioni, il che, come abbiamo visto, può avvenire solo a condizione di una famiglia proprietaria che non ostacoli tale percorso di sviluppo o che non lo avverta come minaccia al proprio controllo.

Quando non si verifichi tale condizione, o quando le risorse dell’azienda sono insufficienti per mettere in atto un processo di aumento della complessità e della dimensione, l’impresa può seguire un percorso di sviluppo basato sul rafforzamento delle proprie core-competences, sulla delimitazione del proprio ambito competitivo e sul miglioramento continuo della qualità dei prodotti:

in tal caso, una crescita proficua potrà essere realizzata anche senza salto dimensionale.

Possiamo adesso entrare nel dettaglio delle strategie di crescita delle imprese familiari occupandoci separatamente dellemodalità di crescita interna e modalità di crescita esterna.

Per la trattazione delle prime è possibile ricorrere alla matrice prodotto/mercato sviluppata da Ansoff, e declinarne poi le caratteristiche con specifico riferimento ai family businesses.

Tabella 1

PRODOTTI

ESISTENTI NUOVI

Consolidamento ESISTENTI

Penetrazione di mercato

Sviluppo di nuovi prodotti/ Innovazione Internazionalizzazione

MERCATI

NUOVI

Nuovi segmenti Diversificazione

Fonte: elaborazione da Carlo Salvato:“I processi di acquisizione nella realizzazione della strategia”, cit.

a) La costruzione/protezione della posizione competitiva: il consolidamento e la penetrazione di mercato

Le strategie che rientrano nel primo quadrante della matrice sono tipicamente indirizzate alla costruzione di una certa posizione competitiva nel mercato o al suo progressivo rafforzamento.

In particolare, perconsolidamento si intende la protezione dell’impresa nei mercati in cui essa già opera e con i suoi attuali prodotti, senza che ciò necessariamente comporti un’estensione della quota di mercato. Per penetrazione si intende, invece, l’implementazione di azioni volte a guadagnare quota di mercato, grazie alle attuali risorse e competenze dell’impresa, ad esempio attraverso nuove campagne di marketing o investimenti in qualità dei prodotti.

Si tratta di strategie comuni a tutte le imprese nelle fasi iniziali del loro ciclo di vita, e che, comunque, caratterizzano spesso la strategia aziendale quando a cicli di innovazione o diversificazione vengono alternati fasi di consolidamento.

44Cfr. par. 1.2

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La Sportiva45, impresa familiare operante nel segmento delle calzature di montagna, fornisce un buon esempio di crescita basata sul rafforzamento costante della propria posizione competitiva, grazie allo sviluppo di capacità specifiche in una precisa nicchia di mercato, dando luogo così ad un vantaggio competitivo difficilmente attaccabile da attori esterni.

b) Lo sviluppo di prodotto

L’offerta di nuovi prodotti ai mercati nei quali l’impresa già opera rappresenta una strategia molto frequente nei family businesses di piccole e medie dimensioni.

Si tratta di un vettore di sviluppo vitale a qualsiasi tipo di azienda: tuttavia, è particolarmente privilegiato dalle imprese familiari in quanto consente di mantenere il vantaggio competitivo grazie a costanti investimenti in innovazione, e senza necessariamente realizzare salti dimensionali.

Anche tale strategia, inoltre, può caratterizzare le prime fasi del ciclo di vita dell’azienda, per poi essere seguita da strategie di diversificazione o di crescita per linee esterne.

Mapei46,ad esempio, impresa familiare operante nel comparto chimico-farmaceutico, è cresciuta principalmente grazie allo sviluppo di nuovi prodotti, salvo poi destinare, a partire dagli anni ’90, le risorse così ottenute ad importanti acquisizioni sul mercato statunitense.

c) Lo sviluppo di mercato

Qualora non vi siano più opportunità di sviluppo nei mercati o nei segmenti di mercato attuali, l’impresa può decidere di rivolgere la propria offerta a nuovi mercati.

Ciò può essere realizzato attraverso due modalità operative: l’internazionalizzazione o la penetrazione in nuovi segmenti di mercato.

Nel primo caso, il mercato è inteso in senso geografico: nell’ambito delle imprese familiari, al contrario di quanto si possa comunemente ritenere, sono molti gli esempi di aziende internazionali, che, anche prima della saturazione del mercato domestico, hanno messo in atto strategie di espansione geografica: De Longhi, Brembo, Mapei, o i gruppi multi business del fashion-system quali Burani, Bulgari, Benetton, ne rappresentano soltanto alcuni.

La seconda modalità consiste invece nel rivolgere l’attuale offerta a nuovi segmenti di mercato, il che è tipico, ad esempio, nel passaggio da un certo canale distributivo ad un altro, o dall’aggressione di un nuovo mercato caratterizzato damedesimi fattori critici di successo.

Un esempio di tale secondo tipo di modalità è offerto da Illycaffé47: il passaggio dell’azienda dal canalehoreca alla grande distribuzione ha infatti comportato, senza alcuna modificazione dell’

offerta, un cambiamento del segmento target.

d) La diversificazione

La diversificazione viene tradizionalmente definita come l’offerta di nuovi prodotti in nuovi mercati, siano essi geografici o riferiti ai segmenti di consumatori.

45G. Corbetta: “Mantenere il successo” , op. Cit.

46G. Corbetta: “Mantenere il successo”, op. Cit.

47G.Corbetta: “Mantenere il successo”, op. Cit.

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