CAPITOLO II: IL SISTEMA MODA: UN CLUSTER AGGREGATO DI DIVERSI SETTORI
SISTEMA MODA
3. Benefici legati alla competitività: l’efficienza produttiva connessa all’abbattimento di molti costi logistici, la qualità del prodotto garantita dalle lavorazioni artigianali e l’imprenditorialità
2.3 La crisi del Made in Italy: cause e possibili soluzioni strategiche
2.3.1 Le cause interne: la scarsa competitività delle imprese italiane
Tradizionalmente, nell’analisi di qualsiasi crisi che interessi un dato settore economico, si attribuisce innanzitutto al contesto esterno la principale responsabilità: situazione congiunturale
166Mario Boselli, citazione da: S.Saviolo, S. Testa: “Le imprese del Sistema Moda”, op. Cit.
167 I dati che seguono sono reperibili nell’ultimo studio sul settore tessile-abbigliamento realizzato dal dipartimento politiche per l’Industria: www.ipi.it
168S.Saviolo, S. Testa: “Le imprese del Sistema Moda”, op. Cit.
negativa, concorrenza agguerrita, alto costo del lavoro e/o dei capitali, tasso di cambio sfavorevole, e così via.
Come se per ogni problema la soluzione potesse sempre essere trovata ricorrendo ai più alti vertici dell’economia globale, e creando, implicitamente, la giustificazione per non poter, di fatto, intervenire.
Non è questa la strada che in tale sede si intende seguire.
La consapevolezza di un Sistema in molti suoi aspetti debole, che mostrava già dagli anni ’80 forti sintomi di crisi e non ha saputo farvi fronte, appoggiandosi, al contrario, sulla rendita dei successi immediati nell’illusione che tutto rimane come è, rappresenta il necessario punto di partenza per comprendere quali risposte è opportuno dare a questamalattia del Made in Italy.
Gli aspetti critici del Sistema Moda italiano, dunque, possono essere così sintetizzati:
Crisi del settore contoterzi e della logica di filiera: così si è espresso il titolare di un’azienda contoterzista del Triveneto: “Il lavoro per noi subfornitori se n’è andato. Scomparso. E’ finito all’Est, in Cina, in India, in Thailandia. Le imprese tessili e di abbigliamento hanno ormai tutta la convenienza a produrre là i loro capi. A noi rimangono le briciole, che dobbiamo tra l’altro difendere con i denti dai laboratori clandestini dei cinesi, da un’avanzata che non conosce regole, da committenti che con noi fanno la voce grossa.”169
Quell’Italia dalle mille voci, che poteva sforzarsi di unire in un canto congiunto, è diventata un agglomerato confuso di particelle individualiste, che lottano per la propria sopravvivenza, senza alcuna coscienza di essere membri della stessa squadra.
Le piccole e medie imprese subfornitrici dei distretti tessili sono state, naturalmente, le prime a soccombere, anche per l’assenza di strumenti giuridici volti a tutelare adeguatamente la qualità del prodotto e del semilavorato. E se la completezza della filiera produttiva, e l’eccellenza in ogni sua singola fase rappresentavano, come abbiamo visto, il punto di forza del Made in Italy, che ne ha determinato il successo in tutto il mondo, adesso questi valori non sembrano più essere prioritari per gli attori del Sistema Moda: il credo nella qualità, seppur a costo elevato, è stato sostituito con quello delrisparmio di costo, seppur a scapito della qualità170.
Il settore contoterzi ha visto, a partire dagli anni ’90, una drastica contrazione occupazionale unita alla riduzione del numero delle imprese: evidenze dimostrate dal grafico seguente.
169 F.Alberti: “Super Euro e la carica dell’Oriente. Doppia scommessa per il Nord-Est”, in: Affari&Finanza, La Repubblica, 10 Febbraio 2003.
170 A tal proposito, è opportuno ricordare che la Cina è diventata il principale paese importatore di tessuti e capi confezionati per l’Italia: il valore delle importazioni si è attestato, nel 2005, intorno ai 3 milioni di euro, con una variazione percentuale rispetto l’anno precedente del + 34,5%. Fonte: dati SMI-ATI su elaborazioni ISTAT.
Figura 5: Andamento del n° delle imprese e degli addetti tra le PMI del settore tessile-abbigliamento
Fonte: Elaborazione dati censimenti ISTAT su: www.ipi.it
Nell’ultimo ventennio è stato messo in atto un processo di integrazione da parte delle imprese di dimensioni maggiori, che ha portato all’assorbimento delle aziende terziste più competitive, ed alla scomparsa delle altre; in Toscana, ad esempio, i tre “grandi” produttori: Prada, Gucci e Ferragamo, hanno assorbito nel calzaturiero tutta la produzione di qualità elevata, con la conseguenza di ottenere un vantaggio individuale, compromettendo tuttavia la competitività dell’intero Sistema.
Ciò avviene perché tale processo non ha determinato un modello fatto di pochi grandi attori, che si spartiscono quote rilevanti di mercato nazionale e resistono alla concorrenza estera: le nostre
“grandi imprese” sono sempre meno grandi di quelle straniere171, e meno competitive anche per l’assenza di un mercato dei capitali ben sviluppato e, prima ancora, per una cultura che rimane imprenditoriale più che manageriale.
Invece di trasformare la frammentazione della filiera tessile-abbigliamento in un punto di forza, stimolando le relazioni collaborative tra le imprese, il processo di integrazione ha dato luogo ad un
“gioco a somma 0”, ad una situazione intermedia tra la concorrenza fonte di valore per l’intera economia nazionale, ed il monopolio di certe fasce del mercato che riduce, di fatto, lo spazio per la crescita organica delle imprese.
Creatività vecchia e immobile: alle difficoltà incontrate dalle imprese subfornitrici dei distretti industriali, si sommano quelle delle griffe più competitive. Gli stilisti “storici” del made in Italy sono gli stessi del ventennio scorso; non solo non se ne sono aggiunti dei nuovi, ma non sembrano esserci prospettive incoraggianti per alcun ricambio generazionale: la realtà è che molti geni stilistici della scorsa generazione stanno invecchiando senza eredi; così si è recentemente espresso lo stilista Stefano Gabbana:“Come disegnatore e imprenditore di Moda mi auguro al più presto un ricambio generazionale a tutti i livelli: nella moda, nella politica, nell’economia. Siamo
171S.Saviolo, E.Corbellini: “La scommessa del Made in Italy”, op. Cit, pag. 11.
vecchi, con sistemi da vecchi, gestiti da vecchi. Io e Domenico [Dolce], alla nostra età, siamo i più giovani in circolazione: ed è tutto dire. Nella Moda sono vecchi i giornalisti, i dirigenti e gli stilisti. E’
un sistema marcio.”172
Se la critica più frequente rivolta al Sistema Moda britannico consiste proprio nella sua incapacità di trattenere i numerosi creativi formati nelle scuole di design inglesi, rinomate in tutto il mondo173, l’Italia sembra trovarsi in una situazione del tutto speculare: di fronte ad un Sistema che è in grado di attrarre, per le caratteristiche che ne hanno determinato il successo, designer da tutto il mondo, non siamo stati in grado di valorizzare la nostra creatività, di dare forma ad un tessuto di scuole di formazione che garantisse un ricambio generazionale ai nostri stilisti, quasi tutti al di sopra dei 50 anni.
L’esperienza condotta nei classici atelier, cui, per di più, non tutti possono accedere, si trasforma quasi sempre nell’assunzione di designer destinati a rimanere nell’ombra nei team stilistici delle case di Moda, senza che ad essi sia garantita la visibilità dello stilista-fondatore; il risultato è che, alla scomparsa dello stesso, è enormemente difficile trovare un successore in grado di mantenere l’identità stilistica del marchio; non a caso, l’unico designer esterno che finora sia mai riuscito nel riposizionamento di un brand storico è Tom Ford per Gucci174.
Manualità che scompare e imprenditorialità debilitata: il Sistema Moda, come abbiamo visto, non è fatto solo da stilisti; a monte della filiera produttiva, chi garantisce l’eccellenza qualitativa dei capi che vediamo sfilare sulle passerelle o fotografati in copertina sono migliaia di modelliste, operai che lavorano nelle concerie, artigiani e ricamatrici; tutti loro non salgono in passerella, non sono noti ai giornalisti, non vengono celebrati come appartenenti al fashion system.
La più grande criticità attuale del Made in Italy sembra, in effetti, essere rappresentata dalla perdita della manualità artigianale. Quel sapere di bottega, pazientemente formato sotto la guida di un maestro, da cui derivava la capacità superiore dei sarti e degli artigiani italiani nel forgiare abiti o oggetti perfetti, sta scomparendo. Non ci sono,oggi, né botteghe, né maestri: solo scuole per periti tessili e tecnici di produzione, che danno una formazione scolastica e distante dalle reali esigenze delle imprese, con fondi che transitano dall’Europa, dalle Regioni, dai sindacati e dalle province175. Una formazione, soprattutto, omologata e non più improntata come una volta a celebrare il genius loci: la cultura, le tradizioni, il bello di ogni singolo territorio.
Alcune imprese si stanno rendendo conto, adesso, dell’importanza di ridare vita alla nostra cultura artigianale: Gucci e Prada, ad esempio, stanno realizzando scuole destinate a conservare i contenuti dei mestieri artigiani. E la loro iniziativa dovrebbe incontrare il più diffuso supporto, anche in considerazione del fatto che le competenze specifiche di molti imprenditori italiani di successo
172Paola Bottelli: “Stilisti in estinzione, la moda italiana è malata di vecchiaia”, Il Sole24Ore, 7 Marzo 2007.
173Così si legge, ad esempio, nel “Fashion Survey”condotto dall’Economist nel 2004: “Britain’s fashion schools still produce a disproportionately large share of the world’s most talented designers but, witness today’s stars, such as Galliano or Alexander McQueen, all too often must go to Paris or Milan to prosper”. Su: www.economist.com
174S.Saviolo, E. Corbellini: “La scommessa del Made in Italy”,op. Cit.
175S.Saviolo, E. Corbellini: “La scommessa del Made in Italy”,op. Cit, pag. 130.
derivano spesso proprio dalla capacità di fare, dalla piccola bottega di famiglia, da un amore ed un’educazione alla qualità, alla proporzione ed al bello176.
In virtù di tali presupposti, è possibile affermare che gran parte del successo delle aziende italiane design-based deriva da una formidabile cultura di prodotto che ha le sue radici nel nostro artigianato; se non si mantiene tale consapevolezza, se non si riesce a portare anche la modellista sulla passerella177, le radici stesse del Made in Italy sono destinate a scomparire.
A ciò si aggiunga che l’imprenditorialità italiana, che dovrebbe godere della più ampia garanzia di sviluppo dato lo sproporzionato numero di imprese familiari che il nostro paese conta, appare piuttostodebilitata. A fronte, come abbiamo visto, di numerose imprese familiari di successo, sono ancora di più quelle che potrebbero emergere sulla scena internazionale, raggiungere una posizione di leadership difficilmente attaccabile, se solo si dotassero degli adeguati strumenti di management e superassero le tradizionali resistenze al cambiamento.
Soprattutto nel tessile-abbigliamento, l’imprenditorialità italiana appare debilitata perché non si è saputa opportunamente coniugare con la managerialità: mancano, spesso, le figure manageriali intermedie, nonché le adeguate ricompense al lavoro svolto dai pochi manager esterni delle imprese familiari; e laddove le decisioni più importanti sono totalmente delegate alla famiglia proprietaria, per l’assenza o la debolezza di un efficace Consiglio di Amministrazione indipendente, è alto il rischio di assumere una concezione dell’impresa come private good invece che come public good; dietro a crack finanziari dalla risonanza mondiale, quali quelli di Cirio e Parmalat, vi sono, spesso, proprio carenze di tal genere.
Bassa reattività nella risposta al mercato:lo storico orientamento al prodotto delle imprese italiane di moda, che ha contribuito in maniera determinante al successo incontrastato del Made in Italy negli anni ’70 e ’80, quando il nostro modello poteva anche beneficiare di una modesta concorrenza internazionale, sta adesso mostrando tutti i suoi punti deboli.
L’aumento della concorrenza, del potere della distribuzione e dello stesso consumatore, più attento e più esigente, richiedono la rivisitazione del tradizionale modello del programmato e la sua correzione in modo da garantire tempi più brevi di risposta al mercato.
L’orientamento al prodotto invece che al mercato si è trasformato in una vera e propria ossessione per il prodotto: ed è proprio questa la ragione che spiega la centralità dello stilista nelle imprese italiane di moda e la scarsa attenzione alle problematiche connesse ai costi dell’innovazione ed all’efficienza produttiva.
Un modello del genere, che fino agli anni ’80 poteva contare sull’assenza di pratiche di imitazione così diffuse da parte delle imprese straniere ( soprattutto asiatiche) e su un mercato ancora giovane, sta adesso determinando il progressivo peggioramento della posizione italiana nel mercato internazionale dell’abbigliamento.
176 A. Catalani: “Il design di prodotto: verso il connubio tra antichi mestieri e artigianalità”, su:
“Economia&Management”, Settembre-Ottobre 2001, n°5.
177 Sono parole di un’imprenditrice del settore tessile, in: S. Saviolo, E. Corbellini, “La scommessa del Made in Italy”,op. Cit, pag. 91.
E se da un lato è venuta meno la stessa possibilità di innovare a livello di prodotto e ottenere così un premio alla differenziazione ( sicché le uniche innovazioni possibili sono realizzabili solo a livello di mercato, cioè relativamente alle occasioni d’uso ed al target di clientela), dall’altro lato il modello del pronto, messo a punto dalle grandi marche insegna straniere, si sta rivelando sempre più efficace nel dare la giusta risposta ai gusti dei consumatori, specie quelli più giovani.
Con ciò non si afferma la necessità di abbracciare completamente la logica pull, e fare del mercato l’unica guida della progettazione delle collezioni: significherebbe perdere quell’attenzione alla qualità dei prodotti che è la radice del Made in Italy.
La sfida sta nel trovare il giusto mix tra i due modelli, e non solo: reattività al mercato significa velocità, ma anche attenzione ai dati di vendita con controlli quotidiani, e analisi periodica dell’efficacia delle strategie di segmentazione; in questo,ad esempio,risiede il successo di Zara: “Il 60% dei nostri capi ha un time-to-market di due settimane,il 40% di 6-7 mesi. Ma la velocità non è l’unica spiegazione del successo del nostro gruppo; a monte vi è anche una superiore capacità di analizzare le scelte dei clienti: ogni negozio a fine giornata calcola cosa si è venduto in più ed in meno, e le spedizioni bisettimanali ai punti vendita vengono calibrate di conseguenza.”178
Livelli minimi di innovazione: i dati aggregati relativi alla spesa media in attività innovative delle imprese del tessile-abbigliamento europee mostrano con chiarezza il netto svantaggio dell’Italia; a fronte di una spesa media europea pari al 24% del fatturato in R&S, la corrispondente percentuale nelle imprese italiane scende al di sotto del 13%179.
Il problema non sta tanto nell’applicazione dell’innovazione, che, come abbiamo visto,a livello stilistico è molto complessa, per problemi connessi all’apprezzamento dei prodotti su una base più ampia possibile nonché ai costi della variabilità, ma nella cultura dell’innovazione, che sembra mancare alle imprese del Sistema Moda italiano.
Non si fa innovazione soltanto durante la progettazione delle collezioni: la vera innovazione sta a monte della filiera, nel settore meccanotessile ed in quello delle fibre, dove i produttori sperimentano nuovi mix tra fibre naturali e sintetiche, intervenendo sugli aspetti estetici e sulle performance. Tale sperimentazione, tuttavia, incontra una barriera fortissima a valle del mercato:
gli stilisti, coinvolti spesso solo nell’affannoso inseguimento dell’ultima tendenza180, raramente accettano un colore od un tessuto che non sia in linea con le tendenze della stagione, o non strettamente funzionale alle stesse.
E ancora una volta, la ragione di ciò risiede in un sistema debole anche dal punto di vista della formazione: “Se le scuole del settore si limitano a formare solo stilisti di abbigliamento, e se le stesse aziende tengono in maggiore considerazione ( in senso economico ed organizzativo) lo
178 Così si è espresso Marco Agnolin, A.D. di Inditex Italia, in un’intervista rilasciata al Sole24Ore: Giulia Crivelli,
“Zara fa scuola: la velocità vince”, Il Sole24ore, 14 Marzo 2007.
179Fonte: studio sul settore tessile-abbigliamento realizzato dal Dipartimento politiche per l’industria: www.ipi.it
180S.Saviolo, E. Corbellini, “La scommessa del Made in Italy”,op. Cit, pag. 131.
stilista rispetto a chi fa ricerca e sperimentazione tessile, perderemo completamente il vantaggio dell’innovazione”181.
Made in Italy: un’etichetta più che una cultura: in definitiva, tutte le dinamiche sopra esposte sembrano confermare quanto già François Mitterand aveva affermato a proposito dell’Italia:“un’espressione geografica più che un popolo”.
E se è vero che il Made in Italy è nato per gli stranieri, tuttoggi il termine sembra avere più significato all’estero che non all’interno del paese.
La frammentazione del sistema produttivo e distributivo del Sistema Moda, lungi dall’evolversi nel senso del mantenimento di un’eccellenza di filiera, con relazioni collaborative tra imprese specializzate in diverse fasi produttive, ha invece portato ad un’acuta concorrenza tra aziende appartenenti agli stessi distretti, all’assenza di dialogo tra produttori e distributori, quando questi non siano integrati nelle stesse imprese, ad un modello impostato sul criterio mors tua, vita mea.
Le griffe, sopravvissute, nella maggior parte dei casi, grazie alla solida garanzia offerta dalla presenza degli stilisti fondatori ( e proprio per questo adesso in equilibrio precario), non sentono più la necessità di legarsi al Sistema Moda, di contribuire ad esso scegliendo la strada dell’estrenalizzazione di alcune attività alle imprese subfornitrici italiane ( che passano invece in secondo piano rispetto alle imprese cinesi).
E, dall’altro lato, la polarizzazione dell’offerta tra fascia alta, in cui dominano le nostre case di moda nonché alcuni marchi del lusso francese per gli accessori, e fascia bassa, diventata monopolio delle catene distributive, non lascia più spazio a prodotti di fascia media, che potrebbero invece risollevare le sorti della produzione locale e del dettaglio indipendente.
E l’aspetto che maggiormente sembra essere stato sacrificato dalla mancanza di una cultura Made in Italy è, a tutti gli effetti, il più importante: la qualità del prodotto.
Non soltanto questo valore non è più prioritario per le imprese che scelgono di delocalizzare la produzione all’estero, ma, soprattutto, anche quando presente, non è adeguatamentecomunicato tramite sforzi congiunti.
Quanti consumatori sanno cosa sta dietro un completo di Zegna? Ad un foulard in seta purissima prodotto a Como? Ad un maglione in cashmere 100% di Loro Piana?
Quanti, soprattutto, possono essere disposti a pagare un premium price a questa qualità, se non sanno in cosa consiste?
E la constatazione più impressionante in tale dibattito, è che paesi con una tradizione tessile molto meno raffinata e antica rispetto la nostra, mostrano un orgoglio ed una consapevolezza che permette di valorizzare quello che hanno costruito imitandoci: in Taiwan, ad esempio, ricorre da più anni la manifestazione “Taipei in Stlyle”, che fa sfilare in passerella gli stilisti locali, protetti nelle loro creazioni da un’etichetta (made in Taiwan), e dà spazio anche alla promozione dei canali
181Sono parole di Ornella Bignani, Presidente Elementi Moda, in: S.Saviolo, E. Corbellini, “La scommessa del Made in Italy”,op. Cit, pag. 172.
nazionali di distribuzione dell’abbigliamento; all’ultima edizione del 2006 hanno partecipato 143 espositori nonché sette mila visitatori182.
L’introduzione del logo Made in Italy, che sarà finalmente reso obbligatorio su tutti i prodotti ideati e realizzati in Italia, rappresenta sicuramente un passo importante, che è stato compiuto, anzi, con notevole ritardo.
Ma dovremo aspettare qualche anno per sapere se un’iniziativa del genere può davvero contribuire alla consapevolezza del Made in Italy; dovremo aspettare per capire, ancora una volta, se di etichetta si tratta, oppure di cultura.