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Conclusioni: i vantaggi e gli svantaggi dei Gruppi multi-brand e multi-business

CAPITOLO III: LE ALTERNATIVE ALLA PROPRIETA’ FAMILIARE: IL GRUPPO MULTI-BUSINESS E LA QUOTAZIONE IN BORSA

3.4 Conclusioni: i vantaggi e gli svantaggi dei Gruppi multi-brand e multi-business

Il caso Mariella Burani non è l’unico esempio del successo che la strategia del Gruppo può determinare, almeno sul piano economico.

Se si guarda agli esempi internazionali del LVMH, leader mondiale nel settore Lusso, o di Ppr, la società che controlla Gucci, non si può che rimanere colpiti dalle cifre attestanti la soddisfacente performance finanziaria e competitiva242che tali entità sono state in grado di realizzare.

Tuttavia, l’opinione che in tale sede si vuole sostenere è che, nell’affrontare il tema della superiorità del Gruppo come struttura organizzativa ottimale per le imprese di Moda, si deve fare molta attenzione allaprospettiva considerata.

239 Intervista rilasciata da Mariella Burani ad Alessandra Puato: “Tutto su Mariella Burani, la stilista che sfila in Borsa”,Il mondo, Agosto 2000.

240Cfr. cap. I, par. 1.4: Il ruolo del Cda nelle imprese familiari.

241 Intervista rilasciata da Giovanni Burani in: “Burani sempre più Holding”, Il Sole 24Ore, 7 Agosto 2004.

242 Questo è vero per i dati compresi nei bilanci consolidati: entrambi i Gruppi, infatti, non forniscono informazioni dettagliate sull’andamento dei singoli marchi, e la stessa Borsa di Parigi non impone tale tipo di comunicazione.

Occorre comprendere, in altre parole,per chi, realmente, il Gruppo crea valore, e come tale valore viene creato.

Per tali ragioni, la tabella successiva illustra i vantaggi e gli svantaggi associati a questa tipologia organizzativadeclinati per tre categorie di soggetti: gli azionisti della capogruppo, l’impresa ceduta al Gruppo, i consumatori finali.

Tabella 5: I vantaggi e gli svantaggi del Gruppo Multi-Brand VALORE PER GLI

Dal punto di vista degli azionisti i vantaggi sono legati all’incremento del valore del titolo determinato, primo fra tutti, dalla maggiore capitalizzazione di borsa della capogruppo.

Per citare qualche esempio: il titolo del leader mondiale LVMH ha superato, nel Marzo 2006, le prospettive degli analisti finanziari raggiungendo un prezzo di 79 euro ad azione, in rialzo del 20%

rispetto al 2004, un livello record di utile netto pari a 1,44 miliardi di euro ( + 21% rispetto al 2004) e dividendi incrementati del 22% rispetto al 2003243; il titolo del Gruppo Ppr ha raggiunto, nell’Aprile 2007, il valore di 128 euro per azione, in crescita del 30% rispetto al 2006244; un rialzo, invece, rispettivamente, del 13,45% e dell’11,00% rispetto al 2006 per i Gruppi italiani Bulgari e Mariella Burani.

A ciò si deve aggiungere che la maggiore diversificazione del portafoglio business che caratterizza il Gruppo determina un rischio minore sul guadagno per gli azionisti.

A fronte di ciò, si deve tuttavia tener presente che la forte correlazione tra l’andamento delle singole società del Gruppo e la performance azionaria della capogruppo potrebbe determinare anche alcuni svantaggi; per citare un esempio, nel 2001 la pubblicazione dei pessimi risultati operativi della Yves Saint Laurent, appena acquisita dal Gruppo Ppr, ha determinato una caduta del titolo pari al 5,3%245, e tuttoggi la perdite della maison francese ( che ha chiuso il 2006 con un Ebitda negativo di 35 milioni di euro) non sembrano essere state assorbite dal Gruppo: l’A.D. Polet non è ancora in grado di affermare quando l’azienda sarà riportata al Break Even Point246.

Dal punto di vista dell’impresa acquisita dal Gruppo, i vantaggi sono tradizionalmente associati a diversi aspetti247: la possibilità di accedere a maggiori risorse finanziarie grazie alle ingenti disponibilità del Gruppo, quella di potenziare la propria rete distributiva o in modo diretto ( apertura di nuovi DOS) o appoggiandosi ai multi-marca del Gruppo;o, ancora, la maggiore capacità di attrarre risorse manageriali di successo o talenti creativi di fama internazionale.

Possiamo citare ancora l’esempio di Fendi: dopo anni di conti in rosso, l’impresa, rilevata dal Gruppo LVMH nel 2001, è stata riportata al BEP nel 2005, con un fatturato pari a 300 milioni di euro; il numero di negozi è passato dai 120 del 2004 ai 190 del 2006; l’azienda è gestita da un team manageriale qualificato, con una direzione creativa affidata a Silvia Venturini Fendi per le borse ed a Karl Lagerfield per le linee di abbigliamento248.

Anche Bottega Veneta, acquisita nel 2001 dal gruppo Gucci, quando era in forte crisi, ha raggiunto il BEP nel 2005 ( tra anni di anticipo rispetto alle previsioni), con ricavi in crescita del 77% rispetto l’anno precedente; il numero di negozi è passato dai 21 del 2001 agli 83 del 2006249, mentre, dal punto di vista produttiva, la scelta è stata in tal caso quella di non delocalizzare la produzione,

243Fonte: Banca Dati del Sole24ore, “Il lusso spinge i conti del LVMH”,3 Marzo 2006.

244Fonte: Borsa di Parigi: www.boursorama.com

245Fonte: Banca Dati del Sole24Ore, “Saint Laurent pesa su Gucci”, 20 Giugno 2001.

246Intervista rilasciata a Carlo Panbianco, su: “Panbiancoweek”, 19 Marzo 2007, n°6.

247 Si riprende, in tale ambito, quanto affermato da Cappetta, Perrone, Ponti in: “Competizione economica e competizione simbolica nel Fashion System”, art. cit.

248Fonte: Banca Dati del Sole24Ore, “Paga la cura del LVMH: conti in pari per Fendi”, 27 Giugno 2006.

249Fonte: Banca Dati del Sole24Ore, “La griffe Gucci locomotiva del Gruppo”, 14 Marzo 2006.

ancora nelle mani dei prestigiosi laboratori artigianali fiorentini, e di mantenere la direzione creativa sotto Laura Moltedo, storica designer dell’azienda250.

In definitiva, sembra sicuramente di poter affermare che, dal punto di vista dell’azienda acquisita, soprattutto se in crisi, il Gruppo permette lo sfruttamento di sinergie produttive, distributive, logistiche, amministrative e, in un certo qual senso, anche finanziarie, nella misura in cui l’impresa ha accesso a risorse molto più ingenti di quelle disponibili in una situazione di indipend enza.

Tali fattori determinano un’alta possibilità di successo sul piano economico, che, comunque, si può anche verificare con maggior ritardo rispetto a quanto previsto qualora l’integrazione presenti notevoli difficoltà ( pensiamo, ancora una volta, al caso YSL-Ppr).

Tuttavia, il successo sul piano simbolico per ogni singolo brand compreso nel portafoglio del Gruppo dipende anche dalla capacità di sviluppare una cultura di integrazione sul piano delle sinergie prima accennate, ma anche di differenziazione sul piano dell’identità stilistica, mantenendo il più possibile distinti, tra loro, i singoli marchi, e rispettandone i canoni alla base della brand identity.

Quest’ultimo aspetto si realizza, come vedremo, con maggiore difficoltà.

Interpretare correttamente l’identità stilistica di un marchio è molto difficile in tutti i casi di successione allo stilista fondatore: abbiamo visto che c’è riuscito Ton Ford per Gucci, Ferragamo per Christian Dior, pochi esempi, comunque, rispetto alla totalità delle imprese passate sotto diverse direzioni creative; quando poi l’azienda entra a far parte di un Gruppo, l’incapacità di riportare il marchio ad un preciso posizionamento fonte di valore può diventare ancora più deleteria, perché a risentirne sarà non soltanto la singola impresa, ma il Gruppo nella sua interezza.

A ciò si deve aggiungere che nei casi in cui la creatività non soddisfi le attese di ritorno finanziario del Gruppo, può essere ad esse sacrificata: i numerosi direttori creativi che si sono succeduti a capo della maison Givenchy rappresentano un esempio del tentativo di ridare forza al prestigioso marchio del passato, in tempi finanziariamente più brevi possibile; secondo l’opinione di alcuni, inoltre, i canoni originari che caratterizzavano molti marchi ceduti a Gruppi internazionali hanno inevitabilmente risentito della cultura di integrazione, piuttosto che di quella di differenziazione: “si ritiene, ad esempio, che le scarpe di Sergio Rossi si siano eccessivamente “guccizzate” dopo l’acquisizione, allontanandosi dalla loro identità originaria, o che gli abiti di Jil Sander si siano eccessivamente “pradizzati”251.

Ma anche i modelli di Christian Dior, Emilio Pucci e Yves Saint Laurent sono lontanissimi dalle concezioni stilistiche che li caratterizzavano prima dei passaggi di proprietà; con ciò non si vuole affermare che un processo del genere sia sbagliato o da evitare: in alcuni casi, esso è stato addirittura necessario ( non a caso tutte e tre le aziende citate si trovavano, al momento dell’acquisizione, in una situazione di crisi fortissima del fatturato).

250Fonte: Banca Dati del Sole24Ore, “Gucci prende il controllo di Bottega Veneta”,8 Febbraio 2001.

251Stefania Saviolo: “Servono alla moda italiana i Gruppi multibusiness e multibrand?”, art. cit.

Il problema sta nel comprendere fino a che punto la nuova direzione creativa affidata dal Gruppo al singolo marchio è migliore rispetto quella che si sarebbe potuta avere se l’impresa fosse rimasta indipendente.

Problema che non si pone, naturalmente, quando la direzione creativa rimane per lo più immutata, come nei casi di Valentino, di Fendi, o Moschino.

In altre situazioni la domanda é se il valore aggiunto apportato dal Gruppo all’impresa consista nell’averla salvata, grazie all’apporto di risorse finanziarie, dal fallimento, o anche nell’averle restituito un posizionamento ottimale fonte di nuovo successo simbolico.

In un’ottica di vantaggio parentale, il ragionamento che si deve fare è il seguente: la capogruppo rappresenta la casa madre ottimale per quella singola impresa? I fattori critici di successo che caratterizzano il core business del Gruppo sono coerenti a quelli dell’impresa?

E le risposte a tali domande derivano da valutazioni multi-dimensionali, che non riguardano soltantola capacità della piattaforma organizzativa del Gruppo di apportare le risorse finanziarie e manageriali necessarie, ma anche da quella di rispettare e mantenere la cultura e i valori alla base dell’identità della marca.

In tale ottica, l’integrazione di marchi relativamente giovani, senza un designer noto o con una bassa brand identity, risulta essere sicuramente meno problematica ( si pensi a Braccialini o Baldinini nella divisione Leather Goods del Gruppo Burani); le difficoltà sorgono, invece, per marchi storici, con un’identità legata, innanzitutto, alla reputazione dello stilista/designer, e che competono nelle fasce alte e medio-alte del mercato.

La strategia adottata da Robert Polet per garantire la continuità stilistica e l’identità di ogni brand all’interno del Gruppo Gucci è ad esempio così esplicitata dall’ex-manager della Unilever:

“Abbiamo ritenuto che occorresse assegnare ad ognuno dei brand del Gruppo una guida composta da due persone, un creative director ed un amministratore delegato; questo ha significato passare da una leadership a due ( Tom Ford e De Sole), ad una a 20; ciò garantisce, tuttavia, l’autonomia di ogni brand”252.

La domanda che ci si potrebbe porre, a questo punto, è: si tratta forse di una novità? Non si è da sempre saputo che il successo delle storiche griffe è nella maggior parte dei casi derivato da una leadership a due, in cui è possibile riconoscere il creativo puro ed il razionalizzatore253 ( tra i vari esempi: Yves Saint Laurent e Pierre Bergé, Valentino Garavani e Giancarlo Giammetti, Alberta e Massimo Ferretti, e così via)? E quanto conviene replicare una simile struttura su 20 marchi, anziché su uno solo?

La decisione di affiancare il creativo con un team manageriale delegato della gestione più propriamente operativa ha da sempre caratterizzato gli esempi di maggior successo: ci si chiede, allora, fino a che punto una scelta del genere, operata dall’alto di un Gruppo multibusiness, sia

252Intervista di Carlo Panbianco a Robert Polet, in Panbiancoweek”,n° 6, 19 Marzo 2007.

253S. Saviolo, S.Testa: “Le imprese del Sistema Moda”, op. Cit, pag. 38.

migliore di quella che può essere presa dall’azienda stessa, dai proprietari, dallo stilista, che meglio di tutti conoscono le specificità della loro impresa.

Ma, soprattutto, quello che più colpisce nell’osservare le strutture organizzative complesse dei grandi Gruppi è che la logica con cui i singoli brand sono gestiti si avvicina sempre di più a quella finanziaria, piuttosto che a quella strategica ( e l’autonomia delegata alle singole imprese ne è il primo esempio): la domanda per chi crea valore il Gruppo multibusiness? potrebbe proprio in tale ottica essere rivista e meglio analizzata.

Manca un ultimo tassello: quello del consumatore finale, da cui realmente dipende il successo simbolico ( e, di conseguenza, economico) dell’offerta aziendale.

Dal punto di vista del consumatore finale, il Gruppo non apporta, a priori, alcun vantaggio né svantaggio.

Il successo dell’offerta poggia, in tutto e per tutto, dalla sua capacità di soddisfare i consumatori con un’equazione del valore da essi percepita come ottimale e, soprattutto, coerente rispetto al passato.

Valgono allora tutte le considerazioni già esplicitate a proposito della singola impresa: se il marchio era in crisi, la capacità deve essere quella di rinnovarlo in coerenza a quanto richiesto dai consumatori ( capacità che dipende non dal Gruppo di per sé, ma dal talento e dall’intuito di singole persone, come ad esempio Tom Ford); in caso contrario, il parametro dell’innovazione calibrata con l’identità stilistica originaria sarà, invece, quello prevalente; e, ancora una volta, il successo dipenderà da singoli talenti creativi, che potranno essere migliori o peggiori di quelli accessibili dall’impresa singola.

In conclusione, un’ultima prospettiva che si potrebbe prendere in considerazione nell’analisi qui proposta, ( e volutamente esclusa dalla tabella precedente perché implicherebbe argomentazioni troppo complesse), è quella dell’intero Sistema Moda italiano.

Per sintetizzare, una domanda ulteriore è: quanto vale, nell’ottica dell’intero Sistema Paese, la presenza di pochi Gruppi concentrati rispetto quella di più imprese diverse e indipendenti, ciascuna con i propri fornitori e clienti, e con le proprie caratteristiche uniche?

A tale domanda non può esistere, naturalmente, alcuna risposta pre-configurata; tuttavia, in termini di riflessione, è opportuno considerare anche questa prospettiva, e ricordare che “il modello italiano è cresciuto, con pochi soldi e lunghi apprendistati, su una cultura individuale per la ricerca e un entusiasmo imprenditoriale alimentato dalla passione per il prodotto più che per l’immagine, le passerelle e le vetrine”254.

Conclusioni

L’analisi fin qui condotta ha reso quasi completa la prospettiva delle opzioni strategiche per le imprese del Sistema Moda italiano: la proprietà familiare pura, l’apertura del capitale a investitori esterni tramite la quotazione, la cessione ad un Gruppo.

254S.Saviolo: “Servono alla moda italiana i Gruppi multibusiness e multibrand?”, art. cit.

Nell’ultimo paragrafo, in particolare, abbiamo “scomposto” i vantaggi tradizionalmente associati al Gruppo multi-brand nelle tre diverse prospettive degli azionisti della capogruppo, della singola impresa acquisita, e del consumatore finale, introducendo una fondamentale distinzione tra il successo sul piano commerciale, attinente ai risultati finanziari e, appunto, commerciali dell’impresa, dal successo sul piano simbolico, concetto molto meno soggetto a possibilità di

“misurazioni” standard, che rimanda all’identità stilistica dell’impresa, alla sua capacità di proporre stili nuovi e distintivi rispetto al passato255, seppur nel rispetto dell’identità profonda del brand e dei suoi codici stilistici distintivi.

Proprio in tale delicato equilibrio tra identità e cambiamento risiede, di fatto, la primaria capacità del fashion designer, capacità che è massima quando egli stesso sia il fondatore dell’impresa, l’artefice, in prima persona, del mondo di riferimento evocato dalla marca.

Proprio la distinzione tra la sfera economica e quella simbolica (strettamente connessa, a ben vedere, a quel concetto multidimensionale di crescita cui abbiamo precedentemente fatto accenno256), risulta allora di fondamentale importanza per comprendere il valore aggiunto della proprietà familiare per un’impresa del settore Moda: il mantenimento dell’ identità della marca, quando essa sia custodita da una famiglia che ha saputo coltivare un serbatoio d’imprenditorialità al suo interno, può essere infatti maggiormente garantito dalla salda presenza della stessa famiglia al comando, piuttosto che nel caso in cui subentrino nuovi proprietari, che si trovano a dover apprendere, essi stessi, l’identità di marca dell’impresa, e che non sempre ne sono davvero interessati.

Per completare il quadro dell’analisi circa le potenzialità della proprietà familiare nel settore Moda è necessario concentrare la nostra attenzione su un ultimo aspetto teorico: si tratta del contributo che ad un’impresa del genere può essere offerto da un Fondo di Private Equity;

Il prossimo capitolo è dunque dedicato a tale argomento: dopo una sintetica presentazione circa le più importanti operazioni di partecipazione in imprese di Moda e Lusso da parte di Fondi di Private Equity dal 2001 ad oggi, seguirà la definizione dell’attività di Private Equity, e la distinzione dei diversi comparti che a tale settore sono ricondotti dalla letteratura manageriale.

Verranno successivamente presentati, attraverso una tabella di sintesi, i vantaggi e gli svantaggi connessi alle tre principali operazioni di Private Equity ( start-up financing, expansion financing, turnaround financing), nella prospettiva dell’impresa e del Fondo che interviene finanziariamente.

Secondo il medesimo schema logico adottato a proposito delle operazioni di Merger and Acquisition, saranno illustrati i fattori critici di successo richiesti, ad entrambi i soggetti coinvolti, per determinare la riuscita delle operazioni ed il loro contributo positivo alla crescita/ristrutturazione dell’impresa.

255Cappetta, Perrone, Ponti: “Competizione economica e competizione simbolica nel Fashion System”, art. cit.

256Cfr. Capitolo I, Conclusioni.

I temi teorici così argomentati troveranno poi un riscontro pratico nell’analisi del caso “Fondo Camelot Business Architect”: di recentissima costituzione, il Fondo è specializzato in operazioni di turnaround financing e nell’attività di advisory per imprese di Moda e Lusso.

L’analisi delle principali operazioni portate a termine dalla società consentirà di comprendere con maggior consapevolezza quali doti vincenti sono richieste per interagire con imprese di piccole dimensioni, che competono nel Fashion System, con l’obiettivo di accelerarne la crescita o riportarle in utile senza nuocere, tuttavia, all’identità della loro marca.

Proprio tali considerazioni permetteranno, nella parte conclusiva del capitolo, di illustrare i vantaggi che la partecipazione da parte di un Fondo di Private Equity presenta rispetto al caso dell’acquisizione ( o partecipazione maggioritaria) di un’altra azienda o Gruppo: attingendo nuovamente al modello presentato nel capitolo III, relativo ai benefici ed agli svantaggi dell’acquisizione nell’ottica dell’impresa acquisita, si illustrerà come l’intervento finanziario del Fondo permette di superare glisvantaggi, per l’ottenimento, in sostanza, dei medesimi risultati.

CAPITOLO IV: LE POTENZIALITA’ DEL PRIVATE EQUITY PER LE IMPRESE

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