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A NTONIO T EBALDEO E F RANCESCO M ARIA M OLZA

Parimenti al Sannazaro anche Antonio Tebaldeo godette in vita di una vasta fortuna602: come il precedente profilo del Sannazaro, anche l’elogio del Tebaldeo (XCIV) suggerisce quindi molteplici spunti di riflessione603. La sua opera ha rappresentato sovente un argomento di dibattito fra i contemporanei: nel tempo egli divenne infatti l’alfiere emblematico di una letteratura cortigiana in parte ammirata e in parte aspramente denigrata. Tebaldeo ha subito dunque l’analoga sorte destinata a tutti gli intellettuali che hanno vissuto in anni di trapasso: il suo tentativo di approntare una riforma dell’esausta poesia quattrocentesca, seconda una direzione alternativa al bembismo, non ottenne sempre la fortuna sperata.

Ariosto nomina il Tebaldeo nell’ottava LXXXIII del XLII canto del Furioso stabilendo un’equazione di valore fra la sua figura e quella di Lino, poeta greco dell’età arcaica604: proprio questo accostamento fra il ferrarese e la poesia dei verseggiatori antichi può alludere al carattere arcaizzante della sua lirica605. Anche il Varchi nell’Ercolano esprimerà un giudizio negativo sui versi cortigiani del Tebaldeo accusandolo di essersi allontanato

che in latino con felice ambivalenza, tanto piene di grazia quanto argute. E le Muse gli furono favorevoli in entrambi i casi: quando, inasprito dal veleno abbondante dell’odio, con i suoi giambi scagliava giavellotti spuntati o, una volta abbandonatosi alla dolcezza dei suoi amori, si lasciava andare alla gioia con grande tenerezza”.

600 Ibidem: “Vixit annos septuagintaduos, peramoeno virentique semper ingenio accuratoque et plane iuvenili cultu inter amatorias oblectationes nunquam non festivus et hilaris”. Trad. it., p. 235: “Visse settantadue anni, con uno spirito sempre delizioso e fresco e un modo di vivere accurato e assolutamente giovanile, fra passatempi amorosi e mai senza gioia e allegria”.

601 Cfr. Ioannis Ioviani Pontani, De sermone libri sex, ediderunt S. Lupi et A. Risicato, Lucani, In aedibus Thesauri Mundi, 1954, p. 180: “Actius Syncerus, rari vir ingenii magnaeque nobilitatis et ipse quoque admodum facetus”.

602

Sulla fortuna del Tebaldeo durante il Cinquecento si veda l’utilissimo studio di Tania Basile, Antonio

Tebaldeo nei giudizi dei contemporanei, in Umanità e storia. Studi in onore di Adelchi Attisani, Messina,

Giannini editore, 1971, vol. II, pp. 187-220.

603 Giovio e Tebaldeo si conobbero a Mantova durante la comune frequentazione della locale Accademia di S. Pietro: una breve notizia su questa istituzione in Vittorio Cian, Una baruffa letteraria alla corte di Mantova

(1513). L’Equicola e il Tebaldeo, in «Giornale storico della letteratura italiana», VIII, 1886, pp. 387-395: 389 n.

1. In un secondo momento i due letterati si ritrovarono a Roma: entrambi gravitavano infatti attorno all’ambiente della Curia papale e dei circoli umanistici del Goritz e del Colocci.

604

Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, cit., p. 1255 (XLII, LXXIII, vv. 5-8): “I duo che voluto han sopra sé torre / tanto eccellente et onorata soma, / noma lo scritto: Antonio Tebaldeo, / Ercole Strozza; un Lino et uno Orfeo”.

153 definitivamente dalla dottrina e dalla purezza formale raggiunte da Dante e Petrarca606. Nonostante fra questi due momenti del dibattito si collochino svariati giudizi che riconoscono invece con toni più concilianti il valore della poesia del Tebaldeo, resta però unanime la convinzione che la sua maniera fosse stata superata di slancio dalle nuove proposte di Bembo e Sannazaro. Così scrive infatti Giovio:

Hic primus fere post Petrarcam supra aemulantes Seraphinum atque Manutium, plane extinctum Etrusci carminis decus excitavit; […] Sed tantam mox famam feliciore orti sidere Bembus et Syncerum aeternis carminibus oppresserunt. Agnovit ille tanto perstrictus fulgore, ingenii sui Fortunam atque ideo ad Latina carmina se convertit, quum in his ad genium non insulsa vena responderet607.

La poesia del Tebaldeo aveva recuperato dunque la grande esperienza del Petrarca volgare rivelandosi superiore alle coeve prove di Serafino Aquilano e Manuccio. Se il Ciminelli era sovente chiamato in causa quale fulgido esempio di poesia volgare, il Manuccio ricordato da Giovio rappresenta un termine di paragone meno consueto. Il personaggio in questione non deve essere confuso, come sovente è stato fatto, col Manuzio stampatore, bensì va identificato col poeta Manuccio da Siena (o in alternativa Filippo Manucci lucchese)608.

Quando sulla scena letteraria irrompono però Bembo e Sannazaro, il prestigio del Tebaldeo inizia a declinare: con una mossa contraria a quella effettuata per motivi analoghi dall’Ariosto, egli sceglie allora di dedicarsi alla poesia latina per chiamarsi fuori da un confronto che lo avrebbe visto certamente sconfitto.

I giudizi espressi da Giovio nel profilo del Tebaldeo sono conformi alle considerazioni di altri importanti intellettuali. Il Liburnio scrive ad esempio nelle sue Selvette:

606 Benedetto Varchi, Ercolano, cit., vol. I, pp. 36-37: “spenti Dante, il Petrarca e ’l Boccaccio, cominciò a variare, e mutarsi il modo, e la guisa del favellare, e dello scrivere fiorentinamente, e tanto andò di male in peggio, che quasi non si riconosceva più; come si può vedere ancora, da chi vuole, nelle composizioni dell’Unico Aretino, di M. Antonio Tibaldeo da Ferrara, e d’alcuni altri, le quali […] non hanno però a far cosa del mondo né colla dottrina di Dante, né colla leggiadria del Petrarca”.

607

Paolo Giovio, Elogia, p. 117; trad. it., p. 277: “Tebaldeo fu pressoché il primo, dopo Petrarca e superando i rivali Serafino e Manuccio, a far rivivere il prestigio, allora ormai completamente spento, della poesia in volgare toscano. […] Ma ben presto tutto questo prestigio fu oscurato dai versi eterni di Bembo e Sannazaro, nati sotto una stella più propizia della sua. Tebaldeo, colpito dalla loro perfezione, previde il destino che sarebbe toccato al suo ingegno e si convertì alla poesia latina, un campo nel quale possedeva un’ispirazione molto adatta a questo genere poetico”.

608 Manuccio da Siena (o Filippo Manucci lucchese) fu una presenza fissa nei cataloghi di poeti dei poemi cinquecenteschi. Francesco Flamini, Viaggi fantastici e ‘Trionfi’ di poeti, cit., p. 297 n. 63, identifica ad esempio nel poeta senese il “Manucio” ricordato da Lelio Manfredi nel suo poemetto sulla virtù. Si veda anche il sonetto di Enea Irpino Napoli gentil nel bel tosco idïoma che leggiamo oggi in Poeti del Cinquecento, tomo I Poeti lirici,

burleschi satirici e didascalici, cit, p. 19. Sbaglia quindi Minonzio ad identificare nel suo commento il Manuccio

154 Gli è oppenione di huomini dottrinati che sì come a’ nostri tempi messer Antonio Thebaldeo fu dei primi ad vulgarmente scrivere, così etiandio camina col verso tutto dolce e di candore pieno, di cui Musa piacevole diletta gli ascoltanti con molta gioconditate. […] Sopragiunseno dapoi quegli altri doi forbiti componitori, messer Jacopo Sannazaro e messer Pietro Bembo, l’uno e l’altro de quai emmi paruto alluminatore di loquela vulgare, senza minuta cognitione della quale gli è sforzo che la dimestica parlatura vada zoppando come dilombata609.

Come Liburnio, Giovio individua nella dolcezza una dote della poesia del Tebaldeo: questa qualità facilitava la trasposizione in musica dei suoi versi, tanto che in ogni corte uomini e donne amavano cantare le sue poesie al suono del liuto610

.

Più severo è il giudizio che il Calmeta affida alla sua prosa La poesia del Tebaldeo:

E però, letta tutta questa opera del Tebaldeo, il giudico di grande ingegno, gravità nulla, elocuzione poca, per esser di sentenze non molto abondante; spesse volte d’una medesima sentenza a diversi propositi si sforza prevalersi, come evidentemente adesso per l’opere sue troveremo manifesto. […] Dico il suo essere volgare e umile canto, che alla maiestà de’ sonetti poco è conveniente611.

L’indirizzo critico che Giovio mantiene nei confronti della poesia volgare del Tebaldeo è dunque congruente coi pareri già espressi dal Liburnio e dal Calmeta. Sul piano opposto, Giovio riconosce invece con benevolenza il valore dei versi latini del Tebaldeo ai quali egli si era convertito nell’ultimo periodo della sua vita. Con obiettiva autocritica il ferrarese aveva infatti riconosciuto il primato di Bembo e Sannazaro nella poesia volgare: di fronte a tale constatazione al Tebaldeo non restò altro da fare che celebrare a Roma il funerale delle sue rime in toscano:

Sed factus grandaevus senex, ridente Urbe Roma carminum suorum Etruscorum exequiis interfuit: hercle ut evanescentis antiquae laudis magnam partem redimeret, quum epigrammata multo Latino sale, leporeque conspersa inexpectatus edidisset612.

609 Niccolò Liburnio, Le Selvette, Venezia, Iacopo de’ Penci da Lecco, 1513, c. 11v.

610 Paolo Giovio, Elogia, p. 117: “in amatorios lusus Principum aulas perambulasset, edita vel surrepta eius carmina a viris pariter et foeminis ad citharam cantarentur”. Trad. it., p. 277: “quando passeggiava nelle corti dei principi (le attrattive offerte dalla sua piacevole abilità erano richieste ovunque vi fossero giochi d’amore), i suoi versi, pubblicati o rubati, venivano cantati sul liuto tanto dagli uomini quanto dalle donne”.

611 Vincenzo Calmeta, Prose e lettere inedite, cit., p. 16. 612

Paolo Giovio, Elogia, p. 117; trad. it., p. 277: “Ma quando fu molto vecchio partecipò al funerale dei suoi versi in toscano, tra le risate di tutta Roma, in modo da riscattare davvero, per Ercole, gran parte della sua antica fama (che stava scomparendo) con la pubblicazione a sorpresa di epigrammi pieni di arguzia latina e di grazia poetica”.

155 Nell’elogio la biografia del poeta è estremamente scarnificata: Giovio concede però largo spazio al racconto della morte del Tebaldeo, avvenuta in Roma all’età di ottant’anni. Al momento della scomparsa il ferrarese conservava, analogamente al Leoniceno, una piena vigoria fisica che gli consentiva di camminare dritto nonostante l’alta statura: il particolare della sana costituzione si salda implicitamente all’integra moralità del personaggio cosicché l’andatura diritta e spedita rappresenta un’immagine dell’etica comportamentale. La morte fu infine causata da un improvviso attacco di malinconia che condusse il poeta al delirio: la manifestazione della malattia fu conseguente peraltro a una recrudescenza dei dolori renali che avevano tormentato il ferrarese per molti anni613. Il particolare di questa patologia è confermato dalle testimonianze epistolari di Girolamo Negri e del Bembo:

Il Thebaldeo ha una indispositione di difficoltà d’urina: et dice che hora può esser Cavalliere di San Giovanni, perché può giurare, et servar castità; si dubita della pietra, ma non vuol chiarirsi per manco molestia614.

Dio il sa, che sa tutto, quanto dolore ho preso della morte del nostro buon Tebaldeo, Rever. M. Girolamo mio. Della qual morte intesi per lettere di M. Carlo (idest Gualteruzzi) pochi dì dopo la partita vostra, e conobbi che Roma vi sarebbe molto men cara non vi trovando lui, che amavate cotanto, e da cui cotanto eravate amato. E come che egli sia morto vecchissimo, non posso per tutto ciò racchetarmi […]. Ma lasciando queste querele da parte, che inutili sono, ho volentieri inteso per le vostre cortesi lettere, la sua fine essere stata religiosa, ed avere egli ordinato che i suoi scritti maledici si diano al fuoco, o che si mutino in loro i nomi, acciò nessuno sia da lui offeso615.

Sebbene il tono generale del profilo appaia ai nostri occhi sostanzialmente positivo, alcuni anni più tardi il nipote Giacomo Tebaldeo ebbe modo di lamentarsene per lettera col Colocci. La missiva è datata al 1547 e apporta pertanto una nuova testimonianza del serrato dibattito che coinvolgeva ogni opera gioviana appena edita: il comun denominatore di queste polemiche, alle quali partecipa anche il j’accuse di Giacomo Tebaldeo, è rappresentato dalle

613

Ibidem: “Periit in Via Lata octogenarius senex, firmissimo corpore et celsa proceritate semper erecto, stranguria cruciatus, adeo graviter ut ex atra demum bile se ipso factus amarior saepe […]”. Trad. it., p. 277: “Aveva ottant’anni quando morì nella sua casa di via Larga con il corpo pieno di vigore e camminando sempre dritto nonostante la sua alta statura. A tormentarlo erano stati i calcoli renali. L’attacco che subì fu talmente grave che alla fine, per colpa della malinconia si intristì più del solito […]”.

614 Delle lettere di Principi, le quali o si scrivono da Principi, o a Principi o ragionano di Principi, In Venetia, Appresso Francesco Ziletti, 1581, vol. III, p. 38 (Girolamo Negri a Marc’Antonio Michiel, 8 dicembre 1535). 615 Pietro Bembo, Lettere, cit., vol. IV (1537-1546), p. 95 (a M. Girolamo Negro, Padova, 4 gennaio 1538).

156 insinuazioni di maldicenza e di falsificazione che a detta dei detrattori inquinavano ogni scritto di Giovio:

Epso Thebaldeo […] De puoi ven’ a Roma come la S. V. scia meglio de me cum el Jovio habia scripta a caricho del Thebaldeo di puoi morto. Come la S. V. me scrisse, ha facti acto da tristo, in vita non l’haveria comesso per timore. Morto che serà detto Jovio altri forsi faranno la vendetta del Thebaldeo ch’ io già non la farò anchor che sia molto ben’ informato del vivere detestabile d’epso Jovio616.

Il nipote del poeta ferrarese ha percepito dunque nell’elogio un tentativo da parte di Giovio di screditare il celebre zio. È difficile però stabilire le ragioni di tale risentimento: un tono più severo è ravvisabile infatti solo nel giudizio pronunciato a sfavore della poesia volgare del Tebaldeo, opinione che peraltro Giovio condivideva con intellettuali contemporanei come il Calmeta; anche la descrizione dell’estremo delirio del poeta, il quale sprezzantemente rifiuta di ammirare il trionfo celebrato da Carlo V dopo la vittoria di Tunisi, è affrontata dal biografo con comprensione617.

Il ritratto del Tebaldeo ricostruisce dunque da un punto di vista critico l’esatta fisionomia della sua poetica. L’elogio mette a fuoco infatti tutti i passaggi cruciali del suo percorso letterario: la sua rivoluzione volgare, il superamento dei poeti coevi, la resa di fronte agli umanisti più dotati. Tebaldeo compie quindi una scelta opposta a quella di molti poeti contemporanei e, analogamente al Sannazaro, orienta tardivamente il suo ingegno verso la letteratura latina riuscendo così a ottenere un nuovo successo. Il buon esito di questa evoluzione è sottolineata da Giovio con un’intensità estranea ai critici coevi i quali, sfiduciati

616 La citazione è tratta da Lo zibaldone colocciano Vat. lat. 4831: edizione e commento, a cura di Marco Bernardi, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2008, pp. 444-445 (lettera di Giacomo Thebaldeo ad Angelo Colocci, Venezia, 4 aprile 1547).

617

Paolo Giovio, Elogia, p. 117: “saepe nec insulse delirare videtur, quum ianua fenestrisque penitus occlusis Carolum Caesarem, ex Africa relato insigni triumpho, ad eius limen transeuntem spectare noluerit, quod eum minime iustum Imperatorem putaret, qui sub fide publica captae deletaeque Urbis scelus, quo Maiestas eius vel extra culpam suggillari potuit, decuriatis latronibus minime vindicasset, quasi non satis fuerit, in tantae cladis solatio, Borbonium, Dorbinium, Mancatam et Aurantium, quattuor summos duces et patrati facinoris authores, singulis ictos fulminibus, ultore magno numine, spectavisse”. Trad. it., p. 277-278: “sembrava delirare in modi peraltro non privi di una logica, quando restò con la porta e le finestre ben chiuse per non vedere l’imperatore Carlo che, dopo avere riportato un grande trionfo in Africa, passava davanti alla sua porta di casa. Infatti non lo riteneva assolutamente un imperatore giusto, poiché non aveva punito, decimandone gli autori, le sue truppe di briganti, per il crimine commesso con il Sacco di Roma (da cui la maestà del sovrano poteva essere lesa, anche se non ne era stato responsabile) a cui pure aveva promesso la sua protezione, come se non fosse stato abbastanza confortante, in una tale catastrofe, aver visto Borbone, Dorbinio, Moncada e l’Orange, i quattro generali responsabili, colpiti da un fulmine ciascuno per la vendetta del gran Dio”. Una lettera del già citato Girolamo Negri attesta l’avversione che Tebaldeo nutrì negli ultimi anni della sua vita per Carlo V: “Il Thebaldeo […] fa epigrammi più che mai, né gli manca a tutte l’hore compagnia di letterati; è fatto gran Francese, inimico dell’Imperatore implacabile”. (Lettere dei principi, cit., c. 38v, 17 gennaio 1536).

157 spesso dalla perdita di prestigio delle rime volgari del Tebaldeo, non furono sempre in grado di cogliere l’enorme potenziale dei suoi versi latini.

Come Tebaldeo anche Francesco Maria Molza era noto al suo tempo per una produzione letteraria bilingue. Nel ritratto del poeta modenese (CIV) notiamo però un’assenza di peso. La sua opera più celebre, il poemetto La Ninfa tiberina, non viene infatti menzionata e il capolavoro del Molza va così ad aggiungersi, con l’Arcadia del Sannazaro, al novero dei testi in lingua volgare ignorati da Giovio.

L’elogio del Molza ripropone il fortunato modulo narrativo che congiunge il racconto aneddotico al giudizio morale e oppone di conseguenza il genio del poeta ai suoi comportamenti sregolati: lo scrittore ha infatti vissuto dialetticamente sotto l’antitetica influenza di Venere e Minerva (“quum Venerem, quam Minervam impensius coleret”)618. Molza consacra la sua attività poetica a Minerva: Giovio mostra di apprezzare in toto l’opera del modenese619 ma in particolare l’autore si sofferma sull’orazione scritta contro Lorenzino de’ Medici. In questo discorso dal tono altamente eloquente e serio (“pedestri etiam gravique facundia”), Molza accusò Lorenzino di aver sfregiato alcune statue antiche. Il fatto aveva suscitato un vasto clamore a Roma e l’eco di questo grave oltraggio fu tale che Giovio individuò nello sdegno che ne seguì l’impulso che spinse il giovane rampollo dei Medici ad attuare il tirannicidio di Alessandro: con l’uccisione del duca Molza sarebbe riuscito a offuscare infatti il ricordo della sua azione sacrilega620. Questa concatenazione causale non manca di azzardo e certo attribuisce un’eccessiva responsabilità allo scritto del Molza621: tuttavia tale lettura non è priva di significato e avvalora, in ultima analisi, il riconoscimento di un ruolo decisivo della letteratura nella sfera politica. Qualche anno più tardi anche il Varchi nella sua Istoria fiorentina aderirà a questa esegesi: non è dato sapere chi abbia promosso tale

618 Paolo Giovio, Elogia, p. 125.

619 Ibidem: “Ab hac (Minerva) sempiternam ingenii laudem retulit, non a iucundo tantum carmine, quo lascivisse videtur, sed pedestri etiam, gravique facundia qua Laurentium Medicem, nefaria libidine antiquis statuis noctu illustria capita detrahentem”. Trad. it., p. 304: “Dalla seconda (Minerva) il suo ingegno gli fece ottenere la gloria eterna, ma più che dai suoi versi di carattere giocoso in cui sembra impazzare, dalla prosa seria ed eloquente con cui accusò Lorenzo de’ Medici che, di notte, vittima di un desiderio criminale, aveva staccato le teste di alcune celebri statue antiche”.

620 Ibidem: “Ea enim perscripta oratione, Laurentium usque adeo pudore, et metu perennis probri consternatum ferunt, ut atroci animo, quo ingiusta ignominiae notam novitate facinoris obscuraret, interficiendi Principis, amicique singularis immane consilium susceperit”. Trad. it., p. 304: “Molza lo accusò di fronte ai Romani, profondamente insultati da quel gesto offensivo. Dicono che quando fu pubblicata quest’orazione, Lorenzo si vergognò talmente ed ebbe così paura di un disonore eterno, che nel suo animo crudele prese la decisione mostruosa di uccidere un principe, che tra l’altro era suo amico personale, per cancellare il segno della vergogna di cui era stato marchiato a fuoco con un crimine inaudito”.

621

Pier Antonio Serassi, La Vita del Molza, in Poesie di Francesco Maria Molza colla vita dell’autore scritta da

Pierantonio Serassi, Milano, Società tipografica de’ classici italiani, 1808, p. 65, ritiene invece che l’invettiva

contro Lorenzino sia stata sollecitata dalla viva passione per le antichità che il Molza aveva già più volte manifestato.

158 interpretazione ma è significativo che Varchi, solitamente avverso alle ricostruzioni del Giovio, ne condivida qui l’opinione622.

A dispetto del mancato richiamo alla Ninfa tiberina, Giovio ha ben chiaro il valore della produzione volgare e latina del Molza:

Marius Molsa Mutinensis, eximium atque habile ad poëticam ingenium a natura consecutus, Latinis Elegis et Etruscis rythmis pari gratia ludendo Musas exercuit623.

Il corpus bilingue del modenese era in quegli anni universalmente apprezzato. In una lettera del 18 luglio 1541, Luca Contile, membro assieme al Molza della romana Accademia dei Virtuosi, scrive infatti a Sigismondo d’Este:

Primieramente aviamo il Molza, che ognuno lo conosce, e si tiene che nella poesia latina e volgare non sia oggi (salvo l’onore d’ognuno) chi lo agguagli, e degli antichi chi lo superi624.

Giovio ha parlato del Molza anche nel Dialogus: in questa sede egli aveva già lodato il suo felice bilinguismo attraverso l’elogio di alcune opere non ricordate nel successivo profilo come, ad esempio, le novelle ancora inedite:

Latinis valet elegis, atque iis admodum venustis, etruscisque maxime rythmis Marius Molsa, Mutinensis poeta eruditus, perurbanus, comis, quem saepe saevis amoribus perditum ac exulantem sinu suo molliores Musae benignissimae receperunt. Is amicae Furniae crines adeo teneris versibus