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L A POESIA LATINA : GLI IMPROVVISATOR

Lo scenario della poesia latina nel Cinquecento presenta ancora oggi enormi margini di ricerca che le parole di Giovio possono aiutare a ridurre. Sarà utile ricordare quanto ha scritto Parenti a proposito di questo quadro così complesso:

Del dilemma posto da Eliot, secondo il quale o si imita, e si è poeti immaturi, cioè piccoli, o si ruba, e si è poeti maturi, cioè grandi, i neolatini del Cinquecento scelsero per sé il primo corno e furono, nella media, piccoli poeti, con la conseguenza di apparire, specialmente al nostro giudizio, solo gregari dei classici. Messi perciò di fronte a loro in un atteggiamento che oscilla tra il disdegno per il gregge servile degli imitatori e l’ammirazione che suscita la loro dedizione e la perizia artigianale, sarà opportuno tentare di conoscere meglio questi poeti, partecipi di un fenomeno storico di dimensioni impressionanti, e forse meno monotoni di quanto a prima vista ci sembrino629.

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Che il Molza fosse solito scialacquare tutti i suoi beni è evidente anche da quanto scrive Serassi (La Vita del

Molza, cit., pp. 26-27) a proposito delle insistenti lettere che il poeta inviava al padre con richieste di denaro.

627 La notizia della sifilide Molza è ben attestata: lo stesso poeta scrisse ad esempio del suo malanno ad Annibal Caro e inviò inoltre al cardinale Benedetto Accolti un’elegia nella quale cantava i propri patimenti. In Paolo Giovio, Elogia, p. 125 leggiamo: “His moribus, quum Venerem, quam Minervam impensius coleret, ab illa merito pudendo contactu miserabilis morbi, quo periret venenum hausit”. Trad. it., p. 304: “Con questo suo modo di fare, poiché era più devoto a Venere che a Minerva, dalla prima contrasse, in un incontro disonorevole, il meritato veleno di quella malattia straziante che in seguito lo avrebbe portato alla tomba”. Infine è doveroso ricordare il ritratto del Molza malato che Giovio dipinge nella lettera al cardinale Alessandro Farnese (Roma, 31 agosto 1542): “Referisse ancora essere stato a visitare il povero Molza, quale è insanabile, con un viso abotato, trasfigurato, con gambe di canuccia, senza potere dormire e mangiare; confortandolo a pazienzia lo priegò in effetto, passando all’altra vita, gli volesse fare visione e chiarirlo s’el cardinale Contarino sarà in purgatorio, per l’opinione sua del libero arbitrio; e che domanda a messer Aldraghetto per mezzo di qualche diavolo chi fu colui che l’ammazzò. Non potè far di meno il bon Molza che non gli dicesse: - Ah! Umorazzo, Umorazzo, - ridendo: - non tel prometto, perché te attendarei, e darei nova del calderone apparecchiato per te etc. – Pensate, se avemo riso.” (Cfr. Id., Lettere, cit., vol. I, p. 291).

628 Nell’ed. Perna 1577 il ritratto è a p. 191. Si ricordi che Stimmer trasse le sue incisioni direttamente dai ritratti del Museo gioviano: quando Giovio compone il suo elogio, egli ha sicuramente presente quella particolare iconografia.

629 Giovanni Parenti, La poesia latina del Cinquecento. Esemplarità e imitazione, in «Studi italiani», II, 1990, pp. 6-7.

160 Le parole dello studioso costituiscono un efficace viatico per la comprensione di quella particolare stagione che noi potremo sondare attraverso le parole di un autore che fu sempre testimone attento delle trasformazioni della sua epoca.

Muovendo dal punto di vista privilegiato che, si è detto, fu quello della Curia papale, Giovio conosceva assai bene la fisionomia della letteratura cortigiana: in questo ambito il sottogenere della poesia estemporanea rappresentava una realtà largamente attestata. Fra i numerosi letterati ricordati negli Elogia, due personaggi esemplificano, sotto aspetti diversi, la massima espressione di questo genere: stiamo parlando di Andrea Marone (LXXII) e Camillo Querno detto l’Arcipoeta (LXXXII).

L’elogio del Marone dipende inequivocabilmente dal rispettivo brano del Dialogus:

Nullis omnino certioribus lineis, nulloque exactiore penicillo Andreae Maronis ingenium depixerim, quam si eisdem utar coloribus, quibus illud, dum ille viveret, diligenter expressimus in Dialogo nostro, quem in Aenaria insula […] perscripsimus630.

Per la prima volta Giovio si riferisce esplicitamente alla sua opera ancora inedita. Estrapolando il profilo dalla rassegna più concisa del Dialogus, Giovio amplia il contesto di riferimento: se nel Dialogus Andrea Marone era lodato assieme ad altri poeti quali Molza, Valeriano o Niccolò d’Arco, nell’elogio la sua figura e la sua opera vengono discusse in autonomia e secondo una prospettiva più ampia. L’occasione di dedicare un intero profilo al Marone offre ad esempio al Giovio lo spunto per smentire la superiorità dei toscani nella poesia estemporanea. Marone infatti era bresciano e, per i risultati raggiunti in questo genere, non fu certo inferiore a qualunque poeta toscano:

Non est, inquam, Davale, cur tantopere Etruscos vates ad expeditae facundiae laudem, arguta cithara personantes admiremur: in eam enim peramoenae voluptatis consuetudinem, mos patrius illos adduxit; quod faciles adveniam aures dicere audentibus plurimum indulgeant; ita ut nec eos, vel levi sibilo notandos putent, qui haesitando, amissa celeritatis laude, vel in dissona, vel in dispari syllaba peccaverint. Vere siquidem admirari, et plaudentis clamorem attollere iunat, si novum Maronem audiamus631.

630 Paolo Giovio, Elogia, p. 96; trad. it., p. 210: “Non potrei dipingere il genio di Andrea Marone con tratti più chiari e con un pennello più fino se non usando gli stessi colori con cui, mentre egli era ancora vivo, l’ho dipinto accuratamente nel Dialogus, che ho scritto nell’isola di Ischia […]”.

631 Ibidem; trad. it., p. 210: “Io gli dissi: «Non c’è motivo, D’Avalos, di meravigliarsi se i poeti toscani vengono lodati così tanto per la loro capacità di cantare facilmente accompagnandosi con una lira melodiosa, visto che è

161 La pretesa grandezza degli improvvisatori toscani è quindi garbatamente ridimensionata da Giovio alla luce della costatazione che anche i più apprezzati fra di loro incappavano sovente in errori metrici.

Sullo sfondo di questo elogio e del rispettivo brano del Dialogus si staglia la corte di Leone X, regno dei poeti di ogni estrazione e palcoscenico sul quale Marone espresse le sue migliori capacità. Non a caso Giovio inaugura la biografia del bresciano col suo arrivo a Roma632. Il ritratto di Marone gode, a dispetto del tono encomiastico che lo pervade, di una vivezza che solo l’esperienza diretta può conferire. Giovio può fare ad esempio appello ai propri ricordi per descrivere gli effetti della declamazione sul volto del poeta:

Canenti defixi exardent oculi, sudores manant, frontis venae contumescunt, et, quod mirum est, eruditae aures tanquam alienae et intentae omnem impetum profluentium numerorum exactissima ratione moderantur633.

Gli improvvisatori erano poeti particolari. La loro figura si prestava a vari impieghi all’interno delle corti e finiva talvolta per coincidere, come nel caso del Querno, con quella del buffone. Tuttavia il Marone conserva nelle pagine gioviane la sua piena dignità di poeta: Giovio ne offre testimonianza trascrivendo nell’elogio l’incipit di un componimento steso dal bresciano per esortare Leone X alla crociata:

Exceptus est secundissimo plauso ac idcirco a Leone repraesentatae facultatis nomine sacerdotio dinatus, quum post celebre convivium, cui Regum Legati Senatoresque aderant, de suspiciendo sacro bello dicere iussus, iucunda figurarum varietate decantavit, orsus hoc nobili carmine: “Infelix Europa diu quassata tumultu bellorum” 634.

la loro patria d’origine ad averli spinti verso una forma così piacevole, che essi usano normalmente. E questo perché chi li ascolta è ben disposto a perdonarli e molto indulgente nei loro confronti, tanto da pensare che non devono essere criticati, neppure con un piccolo fischio, quelli che hanno delle esitazioni, perdono il ritmo e incappano in una sillaba stonata o fuori misura»”.

632 Per la precisione si tratta del 1520: cfr. Floriana Calitti, Marone, Andrea, in DBI, vol. LXX, 2007, pp. 653- 655.

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Paolo Giovio, Elogia, p. 97; trad. it., p. 211: “Mentre declama, i suoi occhi sono infiammati, suda, gli si ingrossano le vene della fronte e, cosa straordinaria, i suoi orecchi allenati controllano tutto il fluire dei versi con un calcolo accuratissimo, come fossero quelli di un altro che sta attento ad ascoltare”.

634 Ibidem; trad. it., p. 211: “L’applauso che accolse Marone fu davvero entusiasta e perciò, in nome di capacità sotto gli occhi di tutti, ricevette il sacerdozio da papa Leone quando, dopo un famoso banchetto a cui prendevano parte anche ambasciatori reali e cardinali, gli fu chiesto di improvvisare dei versi sul progetto di intraprendere una nuova crociata. Andrea li declamò con una gran varietà di ornamenti retorici e cominciò con questo famoso verso: «Infelice Europa, a lungo squassata dal tumulto delle guerre»”.

162 Marone appartiene a quella generazione di poeti della Roma leonina che, all’indomani della morte del pontefice, videro precipitare le loro fortune. Per un destino quasi segnato, la maggior parte di questi letterati perirono per le conseguenze del Sacco di Roma. Così il Marone, poeta celebratissimo al pari di un verseggiatore tradizionale, terminò penosamente la propria vita in una misera locanda: la circostanza è confermata dall’anonimo estensore di un diario del Sacco il quale, in data 27 marzo 1528, dopo aver ricordato anche la triste morte di Marco Antonio Casanova, scrive a proposito del Marone:

Et quod hodie agitur quartus dies quod Maro defunctus est apud quendam popinatorem, qui creditur necessitate interiisse, cum etiam satis dives esset635.

A confronto di questo, l’elogio di Camillo Querno detto l’Arcipoeta vira apertamente verso il tono satirico grazie al sapiente utilizzo dell’elemento aneddotico. Apprendiamo ad esempio che lo stesso Leone X non esitava a scendere nell’agone poetico durante i suoi sontuosi banchetti per rispondere in rima alle provocazioni letterarie dei suoi poeti.

Se il Marone era stato esaltato per la sua capacità di assemblare versi estemporanei che per qualità non erano mai inferiori a quelli dei poeti professionisti, la figura del Querno appare invece degradata dai suoi vizi. L’identificazione dell’uomo col cane che prende il cibo dalla mano del pontefice padrone, consegna al lettore una delle immagini più grottesche della raccolta:

Arrisere ei statim academiae sodales, quod Appulo praepingui vultu alacer, et prolixe comatus omnino dignus festa laurea videretur. […] Quum, coenante Leone, porrectis de manu semesis obsoniis, stans in fenestra vesceretur, et de principiis lagoena perpotando, subitaria carmina factitaret; […]636.

635 Cfr. Ugo da Como, Andrea Marone, a cura di Carlo Pasero, Lonato, Fondazione Ugo da Como, 1959, pp. 7; 11. Il testo completo del diario si legge in M. H. Omont, Les suites du Sac de Rome par les impériaux et la

campagne de Lautrec en Italie. Journal d’un scrittore de la Pénitencerie apostolique (Décembre 1527-Avril 1528), in «Mélanges d’archéologie et d’histoire» XVI, fasc. I, 1896, pp. 18-61: 53-54. Trad. mia “E poiché oggi

sono quattro giorni che Marone è morto presso una locanda, si crede che sia mancato per indigenza, sebbene fosse anche abbastanza ricco”.

636 Paolo Giovio, Elogia, p. 105; trad. it., p. 240: “I compagni dell’Accademia furono subito ben disposti verso di lui: sveglio, con una grassa faccia pugliese e i capelli lunghi, sembrava assolutamente degno di uno scherzoso conferimento del lauro. […] Infatti, ogni volta che Leone cenava, l’Arcipoeta stava vicino alla finestra e si cibava delle pietanze sbocconcellate che lo stesso papa gli allungava con la sua mano. Poi, bevendo abbondantemente dalla brocca del pontefice, Camillo componeva versi improvvisati”. L’associazione della figura del Querno al vizio dell’ubriachezza è frequente nelle pasquinate romane: cfr. Pasquinate romane del

163 Camillo Querno rappresenta quindi emblematicamente il “libertinismo” della corte romana con la quale egli si identificò fino a scontarne la pena: l’Arcipoeta subì infatti in prima persona le conseguenze del mutamento culturale che si ebbe a Roma col più severo Adriano VI (“Mortuo autem Leone, prostigatisque poetis”)637 e dopo essere caduto in disgrazia, finì la sua vita miseramente scegliendo come ultima soluzione il suicidio638.