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L A STORIOGRAFIA UMANISTICA : LA QUESTIONE STILISTICA

Una lettura sincronica di questi primi elogi determina un breve catalogo di alcune fra le biografie e i testi storiografici più significativi del Quattrocento: le Historiae, il Rerum suo

158 Cfr. Eric Cochrane, Historians and historiography in the Italian Renaissance, Chicago – London, University of Chiacago press, 1981, p. 395.

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Così Giovio nell’elogio del Bruni: “Primus in Italia Leonardus Aretii natus, Graecarum literarum decus a multis saeculis Barbarorum immani tyrannide proculcatum erexit, atque restituit” (Paolo Giovio, Elogia, p. 45; trad. it., p. 39: “Leonardo, nato ad Arezzo, fu il primo in Italia a stabilire e rinnovare il prestigio della letteratura greca, calpestato da molti secoli di tirannide barbarica”). Fra i tanti giudizi su Leonardo Bruni si ricordi quello, di tenore analogo, di Matteo Palmieri il quale, nel primo libro della Vita civile, parla in questi termini dell’umanista aretino: “Oggi veggiamo per padre et ornamento delle lettere essere mandato nel mondo el nostro Leonardo aretino come splendido lume della eleganzia latina, per rendere agl’huomini la dolcezza della latina lingua” (cfr. Matteo Palmieri, Vita civile, edizione critica a cura di Gino Belloni, Firenze, Sansoni, 1982, p. 44). Benedetto Accolti nel suo Dialogus de praestantia virorum sui aevi loda Leonardo Bruni come scrittore di storia eloquentissimo: “legisti tu aliquando libros a Leonardo Arretino prisca eloquentia conscriptos?” (Benedicti

Accolti aretini Dialogus de praestantia virorum sui aevi ex Bibliotheca illustrissimi ac eruditissimi Viri D. Antonii Magliabequii, Parmae, apud Haeredes Marii Vignae, 1692, p. 62).

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Benedetto Croce, Il secolo senza poesia, ora in Id., Poesia popolare e poesia d’arte. Studi sulla poesia

italiana dal Tre al Cinquecento, a cura di Piero Cudini, Napoli, Bibliopolis, 1991, pp. 191-216.

161 Entrambe le opere sono edite in Antonii Panormitae, De dictis et factis Alphonsi regis Aragonum libri

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tempore gestarum commentarius e il De bello italico adversus Gothos del Bruni162, l’Historia

Florentini populi del Bracciolini163, le opere del Panormita appena citate, i Gesta Ferdinandi

Regis Aragonum del Valla164, le Decades del Biondo165, la Philippi Mariae Vita del Decembrio166, la Vita Caroli dell’Acciaiuoli167, l’Historia vitarum Pontificum del Platina168, la Braccii Perusini vita et gesta del Campano169. Su questi titoli Giovio esercita la sua attenzione di critico, forte soprattutto di una competenza acquisita col suo mestiere di storico. In un elogio della seconda parte, Giovio ha modo di proporre la sua severa opinione sullo stato della storiografia nell’Italia dei suoi tempi. Lodando infatti la Scotorum historiae di Hector Boetius (CXXXIV) l’autore rimarca con amarezza il suo dispiacere per la mancanza di buoni storici italiani:

cum in Italia, altrice ingeniorum, tot saeculis post eiectos Gothos scriptores omnino defuerint, tanto quidem publicae dignitatis detrimento, ut non dispudeat maioribus nostris indignari, nisi satius fuerit amissae libertatis oblivisci, quam cum infami quodam pudore calamitatis ac ignaviae nostrae vulnera refricasse170.

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Un’edizione moderna delle Historiae Florentini populi è quella proposta da James Jankins (Cambridge, Mass. – London, The «I Tatti Renaissance Library» - Harvard University press, 2001, 3 voll.); Leonardi Aretini, De

bello Gotthorum seu de bello Italico adversus Gotthos libri quattuor, Venetiis, per Bernardinum Venetum de

Vitalibus, 1503.

163 Le Historiae furono tradotte da Iacopo Bracciolini, figlio di Poggio e, in questa veste, guadagnarono la via della stampa assieme al volgarizzamento dell’Historia del Bruni realizzato dall’Acciauoli (Venezia, presso Iacopo de’ Rossi, 1476). Oggi le due traduzioni si leggono nella riproduzione facsimilare di quell’incunabolo: Leonardo Bruni – Poggio Bracciolini, Storie fiorentine, presentazione di Eugenio Garin, Arezzo, Biblioteca della città, 1984.

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Per quest’opera si veda l’edizione moderna Laurentii Vallae, Gesta Ferdinandi regis Aragonum, edidit Ottavio Besomi, Patavii, In aedibus Antenoreis, 1973.

165 La princeps dell’opera è Biondo Flavio, Historiarum ab inclinatione Romanorum decades, Venetiis, Octavianus Scotus Modoetiensis, 1483 [IGI 1756].

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La biografia del Visconti si legge oggi nella seguente edizione: Pier Candido Decembrio, Vita di Filippo

Maria Visconti, a cura di Elio Bartolini, Milano, Adelphi, 1983. L’opera è rimasta inedita fino al 1630, quando a

Milano venne pubblicata assieme ad altri testi sui Visconti di Merula e Giovio: Georgii Merula Alexandrini

Antiquitatis Vicecomitum Libri X. Duodecim Vicecomitum Mediolani Principum Vitae, Auctore Paulo Iovio Episcopo Nucerino. Philippi Mariae Vicecomitis Mediol. Ducis III Vita, auctore Petro Candido Decembrio,

Mediolani, apud her. Melchioris Malatestae, 1630.

167 Donato Acciaiuoli, La Vita Caroli di Donato Acciaiuoli. La leggenda di Carlo Magno in funzione di una

historia di gesta, a cura di Daniela Gatti, Bologna, Pàtron, 1981.

168

Baptistae Platinae Cremonensis, De vita et moribus summorum pontificum historia, Parisiis, In aedibus Ioannis Parui, 1530.

169 Giovanni Antonio Campano, Braccii perusini vita et gesta, in Raccolta degli storici italiani dal Cinquecento

al Millecinquecento, ordinata da Ludovico Antonio Muratori, a cura di Roberto Valentini, nuova ed., XIX, 4,

Bologna, Zanichelli, 1929. Per un bilancio sulla produzione storiografica fra Quattro e Cinquecento si vedano gli esiti del volume La storiografia umanistica. Atti del Convegno internazionale di studi (Messina, 22-25 ottobre 1987), a cura di Anita Di Stefano, Giovanni Faraone, Paola Megna e Alessandra Tramontana, Messina, Sicania, 1992, 2 voll.

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Paolo Giovio, Elogia, p. 137; trad. it., p. 360: “Al contrario in Italia, nutrice di ingegni, dopo tanti secoli da che i Goti sono stati cacciati, mancano ancora degli storiografi: e il danno è così grave per l’onore del paese che non ci vergogniamo di indignarci con i nostri antenati, a meno che non sia preferibile dimenticare la perdita della libertà piuttosto che riaprire le ferite della nostra rovina e della nostra vigliaccheria con infamante vergogna”.

41 La polemica scaturisce dalla consapevolezza che gli intellettuali stranieri hanno ormai eguagliato gli italiani in ogni campo delle scienze umane171: di più, la constatazione ha valore perché è espressa in relazione alla storiografia, il genere letterario più caro a Giovio. Le carenze della storiografia italiana emergono dunque per implicito contrasto con i pregi dell’opera del Boethius: lo scritto dello scozzese gode infatti dei benefici della lingua latina, dell’impiego della corografia e di uno stile sorvegliato. Si evince di conseguenza che le medesime qualità manchino ai testi storiografici italiani172. Il lamento sulla crisi della storiografia italiana, e in particolare sulla mancanza di buoni autori autoctoni da paragonare agli antichi, rappresenta un fenomeno critico di lunga durata: anche Machiavelli ha modo di deplorare infatti l’arretratezza della storiografia italiana173. Il breve giudizio gioviano serve allo scopo della nostra analisi: valutare la direzione nella quale si muove la sua opinione in relazione a questo genere.

L’opera del Bruni (Rerum suo tempore gestarum commentarius) risulta quindi, a suo dire, redatta con eleganza174 mentre per la ragione contraria l’autore è portato a esprimere un giudizio negativo sulle Gesta Ferdinandi Regis del Valla (XIII), scritte “eo styli charactere, ut eius minime videri possit, qui caeteris elegantiarum praecepta tradiderit”175. L’accusa di ineleganza rivolta al Valla a più riprese e da più parti, costituiva il pretesto più idoneo per demolire le Elegantiae. La diffusione di quest’opera a metà Quattrocento aveva dato avvio a una polemica fra opposte fazioni che, mutata negli uomini e nei contenuti, sarebbe sfociata in pieno Cinquecento nel serrato dibattito sull’imitazione176: anche gli Elogia non ne resteranno

171 Su questo si veda più avanti il sesto capitolo. 172

L’idea che manchi all’Italia una classe di storiografi è quanto mai infondata se pensiamo al valore di alcuni contemporanei quali, per citare solo i più canonici, Machiavelli e Guicciardini. Giovio scrive indubbiamente tenendo presente il proprio obiettivo di storiografo: il suo programma per una storia universale che coinvolgesse tutte le aree del mondo allora conosciuto era totalmente innovativo per la mentalità contemporanea e come tale non trovava adeguati corrispettivi nella produzione coeva. Da notare inoltre che la crisi della storiografia è strettamente relazionata alla situazione politica dell’Italia, duramente provata anche nell’ambito delle lettere, all’indomani del rovescio conseguente al Sacco di Roma.

173 Su questi temi cfr. Francesco Tateo, Sulla formazione del canone degli scrittori nella scuola umanistica, in Il

«minore» nella storiografia letteraria, Convegno internazionale (Roma, 10-12 marzo 1983), a cura di Enzo

Esposito, Ravenna, Longo, 1984, pp. 203-217.

174 Bruni sposava il principio ciceroniano che eleggeva la storiografia a “opus oratorium maxime”: in tal senso la valutazione gioviana non è semplice applicazione di una formula interpretativa convenzionale bensì scaturisce dalla consapevolezza dell’alto valore retorico della produzione storiografica del Bruni.

175

Paolo Giovio, Elogia, p. 49. Trad. it., p. 49: “[…] con uno stile tale che non sembra affatto composta da chi, come lui, aveva tramandato agli altri i principi dell’eleganza letteraria”.

176 Non è possibile in questa sede ricostruire i lineamenti della polemica che oppose il Valla ai suoi detrattori: a titolo di esempio si veda il giudizio di Paolo Cortesi che nel De hominibus doctis (a cura Giacomo Ferraù, Messina, Il Vespro, 1979, p. 144), afferma: “Non est enim, Alexander, eadem ratio scribendi quae praecipiendi. Conabatur Valla vim verborum exprimere et quasi vias (sed eas non rectas) tradebat ad structuram orationis, in quo tamen et inquinatam dicendi consuetudinem emendavit et multum acuit iuventutem. Sed est certe alia scribendi ratio quae a Valla aut praetermissa est aut ignorata”. La traduzione italiana del passo si legge in Paolo

42 esenti. Proseguendo nella breve rassegna notiamo che Giovio attribuisce un esito felice (“nec infelici eventu”) alle Decades del Biondo (XIV) delle quali individua con acume il punto di rottura con una certa tradizione storiografica. È un dato ormai acquisito che l’impianto adottato dal Biondo per la sua opera si differenzi volutamente da quello adoperato ad esempio dal Bruni per le Historiae. La missione programmatica del cancelliere fiorentino era quella di illustrare condizioni e risultati della rinascita culturale contemporanea traguardandoli attraverso un’ottica municipalistica; Biondo invece centra la sua monumentale cronaca, deliberatamente compromessa con un impianto ancora universalistico, sul passato medievale e romano. Egli organizza dunque la sua materia col fine di disvelare attraverso un lungo percorso narrativo le cause che hanno condotto al presente risorgimento177. Giovio capta i tratti distintivi delle Decades biondiane e perciò ribadisce che il loro autore:

magno ausu, singularique industria, nec infelici eventu, multorum annorum intermorientes res gestas e tenebris excitare orsus, Decadas conscripsit, quibus ab inclinante Romano imperio, funesta tempora ac ideo veritatis lumine orbata, in lucem proferuntur178.

Un testo di riferimento per il nostro autore quale la Philippi Mariae Vita del Decembrio è giudicata invece una spiritosa (“lepide”) imitazione di Svetonio179. L’elogio del Decembrio (XV) si sofferma dettagliatamente su quest’opera illustrandone i meriti (“Svetonium lepide admodum aemulatus, ita quod proposuerat expressit”) assieme ai punti critici: la scelta del modello svetoniano ha infatti sbilanciato la biografia verso la narrazione aneddotica e il pettegolezzo, manifestando nell’autore un’aura di velenosità e malizia decisamente contrastante con la sua fama di scrittore mite e obiettivo180. L’affondo riservato alla Philippi

Cortesi, De hominibus doctis dialogus, testo, traduzione e commento a cura di Maria Teresa Graziosi, Roma, Bonacci editore, 1973, p. 41: “Non è infatti, Alessandro, la stessa cosa lo scrivere che l’ammaestrare. Il Valla si sforzava di rendere l’essenza delle parole, quasi il loro processo evolutivo, ma non le collocava in maniera corretta nella struttura del discorso, in questa attività tuttavia egli purgò l’eloquenza guasta e corrotta e molto giovò a perfezionare quella dei giovani. Eppure è un’altra la vera arte dello scrivere, che o fu trascurata o ignorata dal Valla”.

177 Una ricognizione e un confronto sui metodi storiografici di Bruni e Biondo in Rinaldo Rinaldi, Umanesimo e

Rinascimento, in Storia della civiltà letteraria italiana, diretta da Giorgio Barberi Squarotti, Torino, UTET,

1990, vol. II, tomo I, pp. 58-72.

178 Paolo Giovio, Elogia, p. 49. Trad. it., p. 52: “Egli, con grande audacia e una dedizione particolare, ma soprattutto con un esito felice, scrisse delle Decades, con l’idea di risvegliare dall’oblio fatti avvenuti molti secoli prima. In particolare l’opera fa rivivere gli anni funesti (e perciò privi della luce della verità) che seguono alla caduta dell’impero romano”.

179Su questo testo che, per ammissione dell’autore, si ispira al modello svetoniano si legga la voce di Paolo Viti,

Decembrio, Pier Candido, in DBI, vol. XXXIII, 1987, pp. 488-498: 494.

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Cfr. il passo completo in Paolo Giovio, Elogia, p. 50: “In vita enim Philippi Vicecomitis, quae circumfertur, Svetonium lepide admodum aemulatus, ita quod proposuerat expressit, ut aliquando inverecundius, quam scriptorem odio vacuum deceret, stylum exercuisse iudicetur, quum vitia hominis occulta, nec ulli magis, quam ipsius pudori nocentia, ob idque velanda prorsus cupide nimis, maligneque, detexerit, in eo praesertim Principe,

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Mariae Vita favorisce Giovio nel tratteggiare un breve ma positivo ritratto del Visconti:

Decembrio avrebbe dovuto infatti tacere sui vizi di quel principe per non danneggiarne la fama di uomo clemente. Le debolezze private nuociono infatti al pudore del personaggio e pertanto non devono trovare posto all’interno del racconto. L’etica storiografica del Giovio imponeva che la rivelazione del vizio fosse strettamente necessaria al completamento dell’informazione: negli Elogia il singolo fatto, narrato in modo più o meno cursorio, difficilmente è avulso dalle altre notizie biobibliografiche alle quali serve piuttosto da inveramento. D’altronde nella famosa lettera allo Scannapeco Giovio si era espresso con chiarezza: rievocando l’aneddoto di re Antigono, l’autore plaudeva all’iniziativa di Diocle che, diversamente da quanto si erano prefissi Scopa e Polignoto, aveva scelto di raffigurare di profilo il sovrano privo di un occhio per celarne così l’orribile difetto e al tempo stesso salvaguardare la dignità del suo mestiere di artista. È assai significativo che Giovio scelga un aneddoto relativo alla ritrattistica per illustrare la sua ideologia di storiografo: a questo stesso episodio narrato da Plinio nella Naturalis historia (XXXV, 90) si era probabilmente già ispirato Piero Della Francesca per ideare il ritratto del duca Federico da Montefeltro (1450)181. Nella stessa lettera Giovio si difende poi dall’accusa di aver screditato eccessivamente il Gravina nella sua biografia:

Scriviamo le virtù e i vizi, con temperamento però di umanità, e non con satirica rabbia, acciò che gli studiosi prendano le virtù come porti di mare, e fuggano gli scogli per non fare naufragio. […] Sapete bene che l’istoria dee esser sincera, né punto bisogna in essa scherzare se non in una certa e poca latitudine donata allo scrittore per antico privilegio di poter aggravare e alleggerire le persone de’ vizii, ne’ quali peccano; come per lo contrario con florida e digiuna eloquenza alzare e abbassare le virtù secondo i contrappesi e meriti loro182.

in quo singularis illa divinaeque, simillima clementiae laus, cum probo multorum regum gloriose refulsit”. Trad. it., p. 54: “Nella Vita di Filippo Visconti, che circola ancora, imitando spiritosamente Svetonio, riuscì a esprimere ciò che si era proposto, ma tuttavia con l’effetto non voluto di spingere il lettore a ritenere lo stile adottato in quest’opera assai più svergognato di quanto si addicesse a uno scrittore privo di veleno come lui. Infatti aveva rivelato i vizi privati dell’uomo con avidità e malizia eccessiva, vizi che non danneggiavano nient’altro se non il suo pudore, perciò assolutamente da tacere, soprattutto nel caso di un principe la cui figura aveva gloriosamente brillato (facendo vergognare molti sovrani) di quella particolare luce che è molto simile alla clemenza divina”.

181 Giovio ha confuso probabilmente alcuni particolari dell’aneddoto pliniano: il pittore che ritrasse Antigono di profilo non era infatti Diocle ma Apelle. Per il ritratto di Piero della Francesca cfr. fra i tanti contributi Daniela Pagliai, Piero della Francesca e il ritratto di profilo come genere tra storia dell’arte e mercato, in Piero della

Francesca tra arte e scienza. Atti del Convegno internazionale di studi, Arezzo, 8-11 ottobre 1992, a cura di

Marisa Dalai Emiliani, Venezia, Marsilio, 1996, pp. 543-553.

44 Lo scopo dello storico non può quindi coincidere con l’adulazione e l’encomio bensì con una narrazione obiettiva che tenga conto di aspetti negativi o censurabili riferiti però senza indulgere mai nella calunnia. L’Historia Vicecomitum di Giorgio Merula (XXXVII) è ad esempio elogiata per lo stile sobrio e del tutto latino (“sobrio quidem stylo, ac ex omni parte latino”)183 ma soprattutto per l’abbellimento del racconto ottenuto con l’inserzione di aneddoti gustosi (“in quo lectores minus austeri peramoena diverticula passim requirant”)184. Confrontata col giudizio pronunciato sul Decembrio, l’affermazione adombra una contraddizione che in realtà non sussiste. Se quello aveva rivelato i vizi del condottiero “cupide nimis, maligneque”, Merula riconosce invece nell’aneddoto il mezzo necessario a tener desta l’attenzione del lettore in nome di quell’antico precetto dell’utile dulci che più tardi anche Giovio porrà a fondamento della sua opera storiografica185. Il giudizio che Giovio esprime sull’Historia meruliana si presenta ben articolato e attendibile. Sappiamo infatti che il lavoro del Merula rimase incompiuto e come tale guadagnò la via della stampa: Giovio però afferma di essersi procurato gli ultimi libri inediti che, conservati al chiuso in casse nascoste, risultavano a suo parere i migliori (“Caeterum postremi eius historiae libri meo iudicio iucundiores, aeternum dormituri, denegata luce in abditiis scriniis iacent”)186. Il giudizio evidenzia pertanto l’adozione di un metodo d’indagine documentario: l’utilizzo di fonti, reperti e testimonianze, pone in tal senso i più retorici elogia sullo stesso piano della complessa storiografia.

Un altro capolavoro della storiografia umanistica ricordato nella raccolta è indubbiamente l’Historia Vitarum Pontificum del Platina (XIX): se l’utilità di questa impresa è garantita dalla natura del contenuto, la sua affidabilità è assicurata dallo stile ancora una volta elegante (“eloquentia illecebris”)187 perché estraneo alle lusinghe, puro e disadorno (“uti pura et incompta”)188.

L’attenzione riservata da Giovio alle opere storiografiche del nostro Umanesimo è tale da richiedere un maggiore approfondimento: non giova alla corretta disamina della questione ricondurre infatti quell’interesse alla sola professione di storico dell’autore. Nel dialogo di Paolo Cortesi De hominibus doctis, base di collazione attendibile per misurare la portata di alcuni giudizi degli Elogia, leggiamo ad esempio che proprio dalla riscoperta della

183

Id., Elogia, p. 68.

184 Ibidem. Trad. it., p. 113: “dove lettori meno austeri potessero trovare qua e là piccoli divertimenti gustosi”. 185 Cfr. Eric Cochrane, Paolo Giovio e la storiografia del Rinascimento, in Paolo Giovio: il Rinascimento e la

memoria, cit., pp. 19-30.

186

Paolo Giovio, Elogia, p. 68. Trad. it., p. 113: “Tuttavia gli ultimi libri della sua storia, secondo me i più gradevoli, giacciono al buio in casse nascoste, destinati a dormire in eterno […]”.

187 Ivi, p. 53. 188 Ibidem.

45 storiografia antica è sorto l’impulso più significativo per la rinascita delle nostre lettere189. Infatti:

Nam posteaquam maximarum artium studia tam diu in sordibus aegra desertaque iacuerunt, satis constat Grysoloram Byzantium transmarinam illam disciplinam in Italiam advexisse; quo doctore adhibito primum nostri homines totius exercitationis atque artis ignari, cognitis Graecis litteris, vehementer sese ad eloquentiae studia excitaverunt. Et quoniam sublatu usu forensi illa dicendi laude carebant, incredibile eorum studium fuit in scribendis vertendisque ex Graecis in Latinum sermonem historiis. Sed cum historia munus sit unum vel maximum oratorium, attingenda ea erunt, quae in unoquoque potissimum laudanda iudicabimus190.

La storiografia, mediata dal processo versorio, rappresenta dunque nell’ottica cortesiana il volano della rinascita retorica e letteraria in Italia: anche Giovio sembra seguire questo punto di vista dal momento che sceglie di dedicare le sue attenzioni esclusive alle opere storiche e alle traduzioni dei primi umanisti.

Lo spazio riservato alla critica dell’elocutio associa la posizione di Giovio a quella classicista del Bembo che, interessato ad anteporre nelle sue valutazioni e teorie la dignità dello stile a ogni altro parametro dell’opera letteraria, ha indagato il problema in vari scritti191. Allo stesso modo leggiamo infatti nel breve elogio gioviano di Giorgio Valla (CXIII) che solo grazie alla purezza dello stile lo scrittore può raggiungere una fama duratura. Infatti al piacentino:

scribentis, requisitus ille Romanae elocutionis spiritus omnino defuerit, quo uno voluminum vita praeclare alitur, longissimeque producitur192.

189 Per dovere di esattezza dobbiamo ricordare che il De hominibus doctis è rimasto inedito fino al 1729 quando l’editore fiorentino Bernardo Paperini ne approntò la princeps. Tuttavia nonostante fosse noto solo in forma manoscritta sappiamo che il dialogo circolò ampiamente fra gli umanisti delle generazioni successive.

190 Pauli Cortesii, De hominibus doctis dialogus, cit., pp. 111-113. Trad. ed. Graziosi, p. 17: “Infatti, dopo che tanto a lungo lo studio delle più grandi arti giacque negletto e abbandonato tra uomini sordi ad ogni richiamo, è