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G LI ELOGI DI A RIOSTO E M ACHIAVELL

Torniamo adesso all’elogio di Ludovico Ariosto (LXXXIV). La biografia del poeta ferrarese è sintetizzata da Giovio in pochi punti salienti: la gioventù vissuta in povertà, la lite con Ippolito d’Este, l’ingresso alla corte di Alfonso, la morte. Nonostante Giovio potesse vantare una personale conoscenza con Ariosto, le informazioni e gli aneddoti immortalati nell’elogium rivelano uno stretto legame coi versi delle Satire: questi componimenti dal carattere autobiografico sembrano infatti costituire il canovaccio sul quale Giovio imbastisce la trama del suo profilo. Alle Satire come bacino di informazioni circa la vita del poeta guardarono anche i biografi cinquecenteschi530: l’utilizzo di opere del personaggio ai fini della ricostruzione biografica era peraltro un tipico espediente della scuola peripatetica, basato sulla considerazione che la scrittura biografica era inscindibile da quella autobiografica531.

528 Ibidem: “Ad scribendas enim tragoedias ingenium appulit; ereditum hercle, sed aliquanto quam cothurnatum poetam deceret aridius, quod etiam et gracilitas ipsa totius habitus, et angustae vocis exilitas ex viventis fronte promitterent”. Trad. it., p. 378: “Infatti applicò la sua intelligenza alla composizione di tragedie, un’intelligenza piena di cultura, per Ercole, ma molto più arida di quanto non dovrebbe essere per un poeta tragico; ciò che era prefigurato dalle sue apparenze quando era in vita, dato il suo aspetto esile, la debolezza insita nella voce sottile e nei suoi lineamenti”.

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Lo stesso Alessandro aveva previsto un’accoglienza diffidente da parte del pubblico: nella dedicatoria a Clemente VII premessa alla raccolta (BNCF, ms. II, IV) scrive infatti: “Quanto alli versi che ho usato in esse, massime quelli che sono in loco degli antiqui tragici, conosco manifestamente, che offenderanno nella prima giunta il lettore, parendo non solo nuovi e inusitati (come certo sono) ma ancora aspri e forse inetti”. Il Pazzi giustifica in realtà il ricorso al famigerato dodecasillabo, che sarà aspramente criticato anche dal Varchi, con l’intento di creare un verso che sia il più possibile vicino alla prosa senza essere però del tutto congruente con quella che resta una forma poco nobile per il teatro. (Cfr. Angelo Solerti, Introduzione, in Alessandro De’ Pazzi,

Tragedie metriche, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1969, pp. 23-24 [giudizio del Varchi

nell’Ercolano e nelle Lezioni]; 49 [brano citato]).

530 Cfr. Barbara Mori, Le Vite ariostesche del Fornari, Pigna e Garofalo, in «Schifanoia», XVII-XVIII, 1997, pp. 136-137, la quale peraltro dedica solo rapide e incomplete considerazioni all’elogio gioviano.

134 Scrivendo ad esempio dell’indigenza patita da Ariosto durante la gioventù, Giovio sembra avere in mente i vv. 13-24 della satira III:

Elogio LXXXIV Ariosto, Satire, III, vv. 13-24

Ludovicus Ariostus, nobili genere Ferrariae natus, quum paterna haereditas, inter numerosam fratrum sobolem diducta, ipsi partenuis obvenisset, ingenium in literis vigilanter exercuit, ut certo nobilique praesidio familiae nomen tueretur532.

Che s’al mio genitor, tosto che a Reggio Daria mi partorì, facevo il giuoco Che fe’ Saturno al suo ne l’alto seggio, sì che di me sol fosse questo poco ne lo qual dieci fra frati e serocchie è bisognato che tutti abbiam luoco, la pazzia non avrei de le ranocchie fatta già mai, d’ir procacciando a cui scoprirmi il capo e piegar le ginocchie. Ma poi che figliolo unico non fui,

né mai fu troppo a’ miei Mercurio amico, e viver son sforzato a spese altrui533;

Questa condizione di bisogno sortì però delle conseguenze anche sulla poetica del ferrarese:

Sed uti pari prope necessitatis, et gloriae stimulo vehementer excitatus, feliciore certe iudicio inter primos Etruscae linguae poetas celebrari, quam inter Latinos in secundis gradibus consistere maluit: quod eius industriae labor, cum eruditis ac idiotis latissime dispensatus, uberiorem praesentis praemii, et diffusae laudis fructum ostenderet534.

Per ottenere un immediato successo, Ariosto preferì dedicarsi infatti alla letteratura in volgare al fine di distinguersi subito dalla turba dei poeti latini che difficilmente giungevano alla fama. Qualche anno più tardi, Giovan Battista Pigna affronta la medesima questione nei

Romanzi, pubblicati per la prima volta nel 1554. Pigna rievoca con maggiori dettagli una

532 Paolo Giovio, Elogia, p. 107; trad. it., p. 247: “Ludovico Ariosto era nato a Ferrara da una famiglia nobile. Poiché, una volta diviso tra i suoi numerosi fratelli, il patrimonio paterno avuto in eredità si rivelò insignificante, Ludovico si applicò con grande concentrazione allo studio delle lettere in modo da tutelare il nome della famiglia con una sicura e onorevole professione”.

533 Ludovico Ariosto, Satire, edizione critica e commentata a cura di Cesare Segre, Torino, Einaudi, 1987, pp. 22-23.

534 Paolo Giovio, Elogia, p. 107; trad. it., p. 247: “In effetti, dietro la spinta intensa della necessità e, contemporaneamente, della fame di gloria, prese una decisione rivelatasi senza dubbio felice e scelse di essere celebrato tra i migliori poeti in lingua toscana piuttosto che occupare posizioni di retrovia fra quelli che componevano in latino. In effetti la sua operosa alacrità, ripartita largamente tra gli eruditi e un pubblico meno competente, gli garantiva in questo modo un concreto riconoscimento e una diffusa notorietà”.

135 presunta conversazione avvenuta fra Ariosto e Bembo: rispondendo all’invito dell’autore delle Prose a dedicarsi del tutto alla poesia latina, Ariosto avrebbe ribadito di preferire il raggiungimento di una posizione di rilievo fra gli scrittori in volgare piuttosto che un rango inferiore fra i numerosi ma mediocri poeti latini535.

Giovio cela quindi fra le pieghe dell’elogio un nuovo assalto all’attuale primato del volgare. La scelta di Ariosto, vincolata alla necessità di ottenere rapidamente un posto di rilievo a corte, si dimostra nei fatti meramente utilitaristica: la poesia latina rappresenta dunque un esercizio più selettivo che non garantiva l’immediato successo. Con questa lettura allusiva, Giovio pare quindi ridimensionare i risvolti di tutto quel vasto processo di legittimazione della lingua volgare che la generazione di Ariosto aveva avviato in quegli anni.

L’ipotesi è in sintonia con quanto si legge nel Dialogus II:

tamquam excitant admiratione (le composizioni in volgare), ut Etrusca latini iocundiora simul et grandiora nonnullis videantur, et iis praesertim, qui ad recondita optimarum litterarum studia vel occupationibus, vel ingeniorum imbecillitate minime penetrantur536.

L’elogio di Ariosto non concede largo spazio all’aneddoto. Nonostante Giovio conoscesse approfonditamente la biografia dell’Ariosto, egli non ritiene opportuno riportare alcuna notizia curiosa circa i vizi e le virtù del poeta. L’unica nota di colore che emerge dal profilo è un accenno alla sua frugalità (“frugi mensae quotidianos sumptos”)537: il dato contrasta con la testimonianza dei biografi successivi, in primo luogo il figlio Virginio e il Pigna538, ma coincide con noti passi delle sue satire. Leggiamo ad esempio un celebre brano della satira III (vv. 43-47):

In casa mia mi sa meglio una rapa,

ch’io cuoca, e cotta s’ un stecco me inforco, e mondo, e spargo poi di aceto e sapa,

535 Cfr. Giovan Battista Pigna, I romanzi, cit., p. 78: “Da questa impresa volendo il Bembo levarlo con dirgli che egli più atto era allo scrivere in latino che al volgare, e che maggiore in quello che in questo si scoprirebbe, dissegli all’incontro l’Ariosto che più tosto volea essere uno de’ primi tra scrittori toscani che appena il secondo tra latini, soggiungendogli che ben egli sentiva a che più il suo genio il piegasse”.

536 Paolo Giovio, Dialogo, cit., p. 198; trad. it., p. 199: “e destano tanta ammirazione che, a parecchi, le composizioni in toscano sembrano più piacevoli, e anche più grandiose, rispetto a quelle in latino, soprattutto agli occhi di quanti, a causa delle occupazioni cui attendono, o della debolezza di ingegno, sono meno introdotti nelle più astratte e profonde questioni letterarie”.

537 Id., Elogia, p. 108. 538

Cfr. Michele Catalano, Vita di Ludovico Ariosto, cit., p. 632n che riporta la testimonianza del figlio Virginio circa la fame spesso incontrollata del padre: “Mangiava presto e assai e non faceva distinzione di cibi. E tosto che giungeva a casa, se trovava preparato il pane, ne mangiava uno passeggiando […]. Mangiava spesso un pane dopo che aveva intralasciato il mangiare […].

136 che all’altrui mensa tordo, starna o porco

selvaggio; […]539.

Anche il dettaglio della lunga sofferenza per causa di un catarro che tormentava il poeta fin dalla giovane età (“Interit in patria […] quum diu pectoris angustia, ex pituitae stillicidio laborasset”)540 collima con quanto Ariosto scrive nelle satire I (vv. 46-48) e II (vv. 52-54):

Dal vapor che, dal stomaco elevato, fa catarro a la testa e cala al petto, mi rimarrei una notte soffocato541:

Senza molt’acqua i nostri (vini), nati in loco palustre, non assaggio, perché puri,

dal capo tranno in giù che mi fa roco542.

La somma delle esemplificazioni si costituisce in prova: a fronte di una personale conoscenza fra i due scrittori, avvalorata anche dalla celebrazione che Ariosto fa di Giovio nella satira VII543, l’autore degli Elogia conferisce al suo ritratto una curvatura tutta libresca evidenziata dal ricorso alle Satire come fonte accreditata. Anche nel successivo Dialogo dell’imprese Giovio ricorrerà a questa medesima opera per contestualizzare il significato dell’impresa scelta da Ariosto544.

La bibliografia del ferrarese è celebrata nell’elogio attraverso la produzione drammaturgica, le

Satire (“satyras in primis mordaci sale conspersas”)545 e soprattutto l’Orlando Furioso, oggetto di un interessantissimo giudizio:

Sed luculentissimum operum, ob idque forsitan aeternum, id volumen existimatur, quo Orlandi fabulosi herois admiranda bello facinora octonario modulo decantavit. Boiardo hercle ipsoque Pulcio

539 Ludovico Ariosto, Satire, cit. p. 23. 540

Paolo Giovio, Elogia, p. 108; trad. it., p. 248: “Morì nella sua patria […] dopo avere sofferto a lungo di angina per un versamento di catarro”.

541 Ludovico Ariosto, Satire, cit., p. 4. 542 Ivi, p. 14.

543

Ivi, p. 66: “Dimmi che al Bambo, al Sadoleto, al dotto / Giovio, al Cavallo, al Blosio, al Molza, al Vida, / potrò ogni giorno, e al Tibaldeo, far motto”.

544 Nel Dialogo dell’imprese militari e amorose, cit., pp. 138-139 Giovio descrive l’impresa scelta da Ariosto in questi termini: “Fece una bella impresa messer Ludovico Ariosto, facendo il vaso delle pecchie alle quali l’ingrato villano vi fa il fumo e le ammazza per cavare il miele e la cera, col motto di sopra che diceva: Pro bono

malum, volendo forse che s’intendesse com’egli era stato maltrattato da qualche suo padrone, come si cava dalle

sue Satire”.

137 peregregie superatis: quandoquidem et hunc rerum et carminum accurata granditate devicerit; ac illum, surrepto inventionis titulo ac eo quidem variis elegantioris doctrinae luminibus illustrato, penitus extinxerit. Cuncta enim evolvisse volumina videtur, ut sibi undique collecta gratia ex iucundissimis floribus longe pulcherrimam ideoque perennem, qua lepidum caput ornaretur, coronam intexeret546.

Ogni singola parola di questo brano merita un’attenta considerazione: l’analisi di Giovio stimola infatti una riflessione sulla ricezione del Furioso nella prima metà del Cinquecento. Nel momento in cui Giovio scrive l’elogio di Ariosto, il Furioso gode ormai dello status di classico, di poema cioè equiparabile ai modelli classici del genere epico: esso però non è ancora entrato nell’orbita della polemica aristotelica sulla legittimità della sua proposta stilistica. Solo nel biennio 1548-1549 infatti la pubblicazione delle Explicationes del Robortello e la traduzione italiana di Segni della Poetica di Aristotele inaugurarono il dibattito sull’epica nel quale il Furioso fu coinvolto come principale oggetto di discussione547. Ma due anni prima, nel 1546, Giovio può ancora proporre una lettura dell’opera di Ariosto secondo una prosepttiva diversa. L’autore inaugura una lettura comparatista che istituisce un paragone assai esplicito fra i poemi cavallereschi del Quattrocento e l’opera che ha manifestato l’esito più compiuto del genere. Il confronto non vuole in realtà esprimere la totale condanna di quelle esperienze precedenti, bensì mira a riconoscere il grado di perfezione raggiunto da Ariosto nel suo capolavoro. Quando Giovio aveva ricordato il

Morgante di Pulci nella Leonis X Vita, il riferimento assoluto, sciolto cioè da ogni rapporto

con altre opere, gli aveva permesso infatti di esaltare questo poema come un autentico capolavoro della sua età548. Con l’elogio di Ariosto Giovio adempie anche a un personalissimo debito: il profilo del ferrarese gli consente infatti di dedicare alcune rapide considerazioni a Luigi Pulci e a Matteo Maria Boiardo che erano stati sorprendentemente esclusi dal progetto della raccolta.

546

Ibidem; trad. it., p. 248: “Ma quella che è considerata la sua opera più splendida e perciò, forse, destinata all’immortalità, è il famoso volume in cui, in ottave, cantò le meravigliose gesta del leggendario eroe Orlando superando nettamente Boiardo e lo stesso Pulci: il secondo lo superò per la grandiosità degli argomenti e del tono poetico, il primo lo oscurò completamente dopo avergli sottratto il merito dell’ideazione letteraria con la ripresa del titolo, anche se è vero che Ariosto la seppe nobilitare con le luci variopinte di una cultura più raffinata”.

547 Cfr. Daniel Javitch, Ariosto classico. La canonizzazione dell’ «Orlando Furioso», trad. it. di Teresa Praloran, Milano, Bruno Mondadori, 1999, pp. 15-34.

548

Cfr. Paolo Giovio, Le vite di Leon Decimo, et d’Adriano Sesto sommi pontefici, cit., p. 11v: “Ne fu ultima lode di lei (Lucrezia Tornabuoni), che Luigi Pulci nobil Poeta aiutato dall’ingegno, et liberalità di questa matrona, celebrasse con uno verso Thosco, et immortale le sì maravigliose forze di Morgante favoloso campione”. Benedetto Varchi negli Errori del Giovio nelle «Storie», cit., pp. 155-156 riporta una straordinaria testimonianza: pare infatti che Varchi avesse sentito lodare più volte dalla viva voce del Giovio il poema del Pulci: “E nel vero, se niuno s’intendeva poco delle lettere Toscane, egli era quel desso: perché oltra a quello che gli sentii dire io più volte, come dire, che ’l Morgante era sì bello, e forse più dell’Ariosto, e cotali altre sciocchezze, le lettere sue volgarmente scritte delle quali io ho parecchi, lo mostrano”.

138 Il Furioso è considerato il capolavoro di Ariosto e, come tale, è ormai destinato alla fama perenne. Giovio mette in risalto i meriti del poema sottolineando i limiti delle opere precedenti: le ottave di Ariosto superano pertanto le carenze stilistiche del Morgante e mostrano una cultura più raffinata di quella esibita da Boiardo nel suo Innamorato. A metà Cinquecento le opere di Pulci e Boiardo erano ormai state declassate dal novero dei più illustri testi letterari. Se, come ricorda Dionisotti, resta vero che fino ai primi anni Venti il poema di Boiardo aveva goduto di ampia circolazione anche fra i puristi della lingua come Bembo, al tempo stesso bisogna notare che Giovanni Filoteo Achillini e Andrea Stagi avevano estromesso dai cataloghi dei poeti presenti nei loro poemi (rispettivamente il Viridario e l’Amazonida), i nomi di Pulci e di Boiardo. Il Calmeta giunse addirittura a equiparare il

Morgante e l’Innamorato alle frottole di Galeotto del Carretto e alle altre composizioni

poetiche che si eseguivano con la musica: questi poemi apparterrebbero quindi al genere più umile della poesia volgare549. In un poemetto dedicato al re di Francia Francesco I, Lelio Manfredi declassa invece i due autori quattrocenteschi a semplici poeti della plebe550.

Stavolta Giovio non sorprende quindi il suo lettore con un giudizio controcorrente e, mantenendosi su un binario già tracciato da altri in precedenza, relega in secondo piano le opere di Pulci e di Boiardo. Il riconoscimento dei limiti linguistici e stilistici del Morgante e dell’Innamorato attesta quindi il giudizio gioviano su una posizione ortodossa, conforme all’apprezzamento unanime del Furioso ormai canonizzato come un classico della letteratura. Anche l’elogio di Machiavelli (LXXXVII) suggerisce valide riflessioni sulla poetica dello scrittore fiorentino e sulla cultura letteraria della sua età. Consideriamo anzitutto l’incipit:

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Cfr. Carlo Dionisotti, Fortuna e sfortuna del Boiardo nel Cinquecento, in Il Boiardo e la critica

contemporanea: atti del Convegno di studi su Matteo Maria Boiardo, Scandiano-Reggio Emilia, 25-27 aprile

1969, a cura di Giuseppe Anceschi, Firenze, Olschki, 1970, pp. 233-236. Sui cataloghi del Viridario e dell’Amazonida cfr. Rosanna Alhaique Pettinelli, La critica letteraria in ottave, cit. Se l’estromissione che Achillini e Stagi compiono nei confronti di Pulci e Boiardo è poco significativa, perché si aggiunge a quella di molti altri poeti, il brano del Calmeta, composto approssimativamente nel primo decennio del XVI secolo, è invece meritevole di riflessione: “Costoro (coloro che cantano) non volendo più avanti di tale instituto procedere, circa le stanze, barzellette, frottole e altri pedestri stili devono essercitarsi, e non fondarsi sopra arguzie e invenzioni, avendo ben per le mani Morgante, l’Innamoramento d’Orlando, le frottole di Galeotto del Carretto e simili altre composizioni, le quali, quando con la musica s’accompagnano, sono non solo adombrate, ma coperte per modo che non si possono discernere […]. (Cfr. Vincenzo Calmeta, Qual stile tra’ volgari poeti sia da

imitare, in Id., Prose e lettere edite e inedite [con due appendici di altri inediti], a cura di Cecil Grayson,

Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1959, p. 21).

550 “Di sogni pasce la mendace plebe / il Pulci col Matheo Conte Boiardo, / l’altro cieco a Ferrara ornò le glebe”. Il brano è citato in Francesco Flamini, Viaggi fantastici e ‘Trionfi di poeti’, in Nozze Cian – Sappa Flandinet, Bergamo, Istituto italiano d’Arti grafiche, 1894, p. 293. Il poemetto del Manfredi è tramandato, anepigrafo, da due copie manoscritte recanti alcune varianti. Merita di essere segnalata la diversa identità del dedicatario: nella copia conservata alla Biblioteca Trivulziana di Milano (ms. 908) il destinatario è Federico Gonzaga mentre nel codice 1039 della Biblioteca Nazionale di Parigi il poema è indirizzato a Francesco I. Flamini ricorda che anche nel poema dell’Oriolo Monte Parnaso Pulci e Boiardo sono citati in coppia (ibidem, p. 293 n. 16-18).

139 Quis non miretur in hoc Macchiavello tantum valuisse naturam, ut in nulla vel certe mediocri latinarum literarum cognitione ad iustam recte scribendi facultatem pervenire potuerit551?

Nel momento in cui Giovio pubblica i suoi Elogia la figura del Machiavelli era ormai da tempo oggetto di ostracismi e censure: questa sola constatazione basta pertanto a suscitare interesse su questo specifico profilo della raccolta.

In primo luogo, Giovio comunica il suo stupore per il genio di Machiavelli, un talento che ha saputo esprimersi ad alto livello nonostante un’insufficente formazione umanistica: il suo esempio rappresenta infatti l’eccezione a una regola che riteneva impossibile il conseguimento di una chiara fama nel mondo delle lettere senza un’adeguata conoscenza del latino. Il Calmeta risponde ad esempio in modo negativo alla domanda implicita nel titolo della sua seconda prosa S’egli è possibile esser buon poeta volgare senza aver lettere latine:

E, come per molti auttori s’afferma, nessuna vera cognizione di cose può in noi pervenire se non mediante la lingua greca o la latina; e come la latina fu ampliata di vocaboli, colori e precetti mediante la greca, così la lingua toscana, o volgar come vogliamo dire, mediante la latina tuttavia si viene ampliando. E però chi in quella vuol bene essercitarsi, non deve di latine lettere al tutto esser ignaro né negli oratori precetti poco introdotto, essendo tra ’l poeta e l’oratore non poca conformità […]. Che maggior instinto di natura si potria trovare di quel che hanno avuto Luigi Pulci, il Corso e ’l Serafino e molti altri? Ne’ quali, per la inequalità dell’opere loro, massime in composizion lunga, si discerne apertamente, in molti luoghi, dove l’arte, della quale erano ignari, sarebbe stata necessaria loro. Non è così nel Cornazzano, in Lorenzo Medice, in Angelo Poliziano, in Iac. Sannazzaro, in Bernardo Accolti, nel Tebaldeo e in Antognetto Fregoso, i quali ciascuno nel suo stile con gran giudicio la continuazione si sforza di servare, seminando con i colori retorici le comparazioni e le sentenze con tal compartimento nelle composizioni loro che, non altramente che un verde prato di vaghi fioretti adorno, si possono le opere loro con delettazione mirare552.

Giovio consegna quindi ai posteri l’immagine di un Machiavelli come uomo brillante, acuto e ironico il quale, con le sue intrinseche qualità, sopperisce al difetto di una formazione non pienamente umanistica553. Fu Dionisotti a chiarire una volta per tutte il significato della

551 Paolo Giovio, Elogia, p. 111; trad. it., p. 258: “Chi non si meraviglierebbe del fatto che in Machiavelli tanto siano prevalse le doti naturali che, pur non avendo alcuna cognizione di lettere latine o, comunque, avendone una mediocre, riuscì ad acquisire una perfetta competenza come scrittore?”