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A NTICLASSICISMO E SPERIMENTALIST

Consapevole del fatto che la letteratura del primo Cinquecento si è espressa anche attraverso voci più eccentriche, Giovio include nella sua raccolta umanisti anticlassicisti quali Filippo Beroado il vecchio, Giovan Francesco Pico della Mirandola e Battista Pio.

Lo stile del bolognese Battista Pio (CII), filologo di notevole intelligenza, si era forgiato sull’esperienza delle varie curatele per i testi di Fulgenzio, Sidonio, Plauto, Lucrezio e Valerio Flacco658: egli aveva di fatto inaugurato una competizione sciocca (“inepta”) col suo maestro, l’apuleiano Beroaldo, per attingere al vocabolario universale della latinità. Da questo tirocinio sui testi meno canonici della letteratura latina, Pio trasse secondo Giovio conseguenze nefaste:

Exoleta enim rancidae vetustatis vocabula delectu insano sectabatur, admirante quidem discipulorum inscia turba, quum plane a non insulsissimis rideretur. Siquidem eius sermo stylusque Oscorum et Aboriginum linguam pingui atque aspera novitate referebant, quam nonnulli lascive ludentes discere percuperent, nisi contagiosi vitii periculo terrerentur […]659.

Nonostante la contrarietà alla proposta linguistica del Pio, Giovio intrattenne col bolognese una solida amicizia che viene ricordata anche nel Dialogus: qui l’autore riflette sullo stile del

655 Per una storia del manoscritto cfr. Filippo Volpicella, All’Onorevole Signore Principe di Ottajano Giuseppe

De Medici senatore del Regno, in Marcii Antonii Casanovae Heroica, cit., pp. III-XIII. Abbiamo accennato a

quest’opera nel primo capitolo.

656 Ibidem: “Nemo autem eo simplicitate ac innocentia vitae melior; nemo urbana comitate iucundior existimari potuit”. Trad. it., p. 221: “D’altra parte non ci fu nessuno migliore di lui per semplicità e onestà di vita, nessuno si rivelò più gradito per il proprio modo di fare elegante e simpatico”.

657 Si veda Gianni Ballistreri, Casanova, Marco Antonio, in DBI, vol. XXI, 1978, p. 172. Diverge da Giovio per avvicinarsi alla versione forse autentica dei fatti Pierio Valeriano: cfr. Julia Haig Gasser, Pierio Valeriano on the

Ill Fortune of Learned Men, cit., p. 276. Parla della morte del Casanova anche l’anonimo diarista del Sacco (cfr.

M. H. Omont, Les suites du Sac de Rome, cit., p. 53) indicandone nella miseria la principale causa. 658 Paolo Giovio, Elogia, p. 123.

659 Ibidem; trad. it., p. 297: “Infatti andava in cerca di parole in disuso, caratterizzate da un’antichità stantia, tra l’ammirazione della massa ignorante dei suoi discepoli; il tutto mentre veniva deriso apertamente da tutti quegli uomini che non fossero completamente stolti. Infatti la sua parlata e il suo stile richiamavano certamente la lingua degli Osci e degli Aborigeni per le loro stranezze grossolane e rozze, che alcuni avrebbero desiderato imparare per divertirsi in modo sguaiato, se non fossero stati terrorizzati dal pericolo di essere contagiati da quel difetto”.

169 Pio condannando le sue innovative proposte che si allontanavano dallo statuto del ciceronianismo:

Sed unum id non tacebo cavendum esse, ne dum tritam semitam fastidimus, et per lubricos margines militarium viarum aspretaque, diverticula pergere concupimus, foedo casu aut in sentes, aut in caenosas fossas delabamur, uti Pio doctissimo homini accidit, omnem semper ab optima imitatione laudem, veluti servili opere quaesitam, obstinate repudianti, qui quum obscure et loqui et scribere gloriosum putaret, sicuti solus in tam novo et lutulento genere, ita plerisque delicatis stomachosus et ridiculus evasit. […] monenti mihi aliquando per blande et familiariter, ut imitari aliorum cultum vellet, ut civilius expoliretur, perfacete respondit: «[…] quos tu enim, uti praeclaros laudas Ciceronis imitatores, ego eos agnosco ut simias togatas et centonarios fures […]»660.

Sia il brano del Dialogus sia l’elogio del 1546 riconoscono però con obiettività i valori intellettuali e umani del Pio il quale appare pertanto come uomo coerente e orgoglioso661. La generale ostilità manifestatasi per le teorie del Pio dettero vita anche a una discreta pubblicistica tesa a prendere di mira le stravaganze linguistiche dell’umanista bolognese e dei suoi seguaci. Giovio ricorda nello specifico una commedia: il testo viene presentato come adespoto e anepigrafo poiché si dice semplicemente composto da persone argute (“lepidis ingeniis”). La trama dell’opera è semplice. Ne è protagonista il personaggio di Pio che viene caratterizzato dall’autore attraverso il suo linguaggio arcaizzante: rimproverato dal maestro Prisciano, principe dei grammatici antichi, il filologo viene infine frustato sulle terga nude come un fanciullo indisciplinato662.

660

Id., Dialogus, cit., p. 290; trad. it., p. 291: “Ma non intendo tacere che da un solo pericolo ci si deve guardare, quello di scivolare, con una disonorevole caduta, in rovi o fosse fangose, mentre avvertiamo un infastidito disgusto verso le vie già battute, e desideriamo procedere lungo gli sdrucciolevoli bordi di vie militari, per vie traverse e luoghi accidentati: come accadde a Pio, uomo tra i più dotti, il quale sempre, ostinatamente, ripudiò ogni lode che derivasse da imitazione delle opere migliori, come se fosse stata frutto di un’opera servile. Ritenendo motivo d’onore lo scrivere e il parlare oscuramente, come si trovò isolato in un tipo di scrittura così strano e limaccioso, così risultò irritante per la maggior parte che è di stomaco delicato, e ridicolo. […] quando un giorno con tatto e amichevolmente, lo ammonivo a disporsi ad imitare l’eleganza altrui, per raffinarsi assumendo modo più urbani, mi rispose con una facezia: «[…] quelli che tu lodi come eccelsi imitatori di Cicerone, io li conosco come scimmie togate o ladri fabbricanti di centoni […]»”. Si noti che la metafora del “cadere in mezzo ai rovi” è adoperata anche da Paolo Cortesi per indicare l’incerto procedere, “inter spinas” appunto, di coloro che imitano più modelli: cfr. Lina Bolzoni, La formazione del canone nel Cinquecento.

Criteri di valore e stile personale, cit., p. 56. Devo la segnalazione alla gentilezza della prof. ssa Bolzoni.

661

Id., Elogia, p. 124: “Caeterum Pius quadrato ingenio eos nasutorum rumores contempsit […].” Trad. it., p. 298: “Del resto Pio, con il suo carattere forte, ignorò le dicerie dei suoi detrattori […]”.

662 Ivi, p. 123: “haec enim impressa extat, qua suo habitu suoque idiomata blaterantis Pii persona inducitur, ab obiurgante reprehendenteque Prisciano meritas flagello plagas, puerorum male discentium more, clunibus nudatis excipiens”. Trad. it., p. 297: “La commedia ci rimane nella forma data alle stampe. In essa viene introdotto il personaggio di Pio che blatera nella sua lingua e nel suo modo caratteristico. Come un fanciullo che non ha imparato la lezione, Pio è rimproverato e criticato da Prisciano, che imbottisce il suo sedere nudo di frustate ben meritate”.

170 Il testo anonimo è stato identificato con la giovanile opera di Mariangelo Accursio Osci et

Volsci dialogus ludis Romanis actus, andato in scena nel corso delle feste organizzate a Roma

nel 1513 per celebrare il conferimento della cittadinanza onoraria a Giuliano e Lorenzo de’ Medici. Giovio commette qualche imprecisione nel presentare l’opera poiché confonde il personaggio di Prisciano con quello di Eloquenza e ritiene anonimo un testo del quale in realtà era ben noto l’autore: tuttavia il particolare delle percosse inflitte al Pio, esplicitamente descritte da Accursio e Giovio, accerta la corretta identificazione del testo adespoto663.

Il latino impiegato dal Pio era dunque il risultato di una sedimentazione linguistica che abbracciava nel suo criterio di inclusione tutti gli autori della latinità, da Plauto a Boezio. Nonostante le testimonianze di stima che traspaiono dalle parole del Dialogus e degli Elogia, è evidente quindi che la lezione del Pio, come già quella del Beroaldo, non poteva che risultare indigesta al ciceroniano Giovio.

Le feroci critiche che i classicisti rivolsero a Battista Pio non scalfirono affatto le sue convinzioni: solo negli ultimi anni della sua vita l’umanista bolognese si convertì al culto ciceroniano e fece ammenda dei propri errori commentando varie opere dell’Arpinate664. Merita infine un cenno il curioso aneddoto sulla morte del Pio:

Contigit ei subitae ac inexpectatae mortis levissimum genus, quo divinus Plato felix fuisse iudicatur: pransus enim hilariter, et remota mensae mappa subinde lectitans Galeni librum, in quo de signis propinquae mortis agitur, deprehendit fatales in unguibus maculis, et dixit: Ergo saeva Parca instans, vitae meae filium commordet: nec multo post nullo acri clementis utique mortis impetu concussus, in complexu Probi Privernatis poetae leniter expiravit665.

663 La polemica sullo sperimentalismo linguistico di Pio e della scuola bolognese impegnò vari intellettuali del tempo dando vita a un piccolo nucleo di testi. Oltre al dialogo dell’Accursio si dovrà tener presente anche l’anonimo Dialogus in lingua mariopionea: il neologismo del titolo fa riferimento ai nomi di Pio e di Mario Equicola (cfr. Remigio Sabbadini, Una satira contro Battista Pio, in «Giornale storico della letteratura italiana», XXVII, 1896, pp. 185-186). Contro lo stesso Equicola fu scritta anche l’Epistula in sex linguis che Dionisotti ha ipotizzato fosse opera di Pasquino (Carlo Dionisotti, Gli umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento, Firenze, Le Monnier, 1968, pp. 112-130).

664 Paolo Giovio, Elogia, p. 124: “Sed vel sero ita explosi styli vitium agnovit, ut se totum ad Ciceronem reciperet, et multa in eo elucidando commentaretur”. Trad. it., p. 298: “Ma, per quanto tardi, alla fine riconobbe i difetti di uno stile così criticato; così si dedicò completamente a Cicerone e compose molti commenti nel tentativo di renderlo chiaro”.

665 Ibidem; trad. it., p. 298: “Gli toccò una morte dolcissima, improvvisa e inaspettata, che si ritiene sia toccata al divino Platone. Infatti, dopo aver pranzato in modo allegro, allontanò il tovagliolo dalla tavola, non appena si mise a leggere un libro di Galeno in cui si parla dei segni che annunciano la morte, scoprì macchie inequivocabili sulle unghie e disse: «Così la parca crudele incombe su di me e sta già mordendo il filo della mia vita». Morì poco dopo dolcemente, tra la braccia del poeta Probo Piperno: la morte con lui fu clemente, e non lo colpì con un attacco violento”.

171 La morte serena cui va incontro il Pio rappresenta la degna conclusione della sua esistenza vissuta nel rispetto delle regole civili.

Un altro poeta appartenente alla classe degli sperimentatori fu Battista Spagnoli detto il Carmelita (LXI). Lodato entusiasticamente dai contemporanei e citato a più riprese nei cataloghi dei poemi cinquecenteschi, lo Spagnoli è duramente stigmatizzato da Giovio; eppure si ricorderà che il suo ritratto era stato inseguito con insistenza dall’autore fin dal 1521666.

Il Carmelita, così chiamato in virtù della sua appartenenza all’ordine dei carmelitani, fu un prolifico autore di egloghe: i suoi versi vennero spesso equiparati a quelli di Virgilio. Lo Spagnoli fu spesso esaltato infatti come il miglior epigono moderno del Marone al punto che Erasmo lo definì “Christianus Maro”667. Marco Antonio Bosso lo giudicò superiore a Ovidio, mentre nel 1504 a Firenze i Giunti stamparono le sue egloghe assieme a quelle di Virgilio, Calpurnio Siculo e Nemenziano, includendo così il poeta moderno nel canone dei migliori autori del genere668; lo Stagi gli dedica una citazione nell’Amazonida e Giovanni Filoteo Achillini lo esalta nel Viridario quale “alma e canora / tromba latina, al quale Apollo è balio”669. Accanto a questi riconoscimenti entusiastici si leva la voce di Paolo Giovio il quale, piuttosto che lodare la sua produzione bucolica, preferisce sottolineare l’insuccesso del poema scritto per Consalvo di Cordoba: lo stile rozzo del Carmelita era stato infatti surclassato dalla prova di Pietro Gravina670. La condanna della maniera dello Spagnoli è racchiusa in una

666 Cfr. Paolo Giovio, Lettere, I, cit., p. 92 (a Mario Equicola, Firenze, 28 agosto 1521); p. 98 (a Mario Equicola, Firenze, 2 giugno 1522); II, pp. 64-65 (a Pietro Bertano, Roma, 11 gennaio 1547).

667

Nel finale dell’elogio Giovio dissente apertamente dalla scelta effettuata da Federico Gonzaga di erigere un monumento funebre per lo Spagnoli accanto a quello di Virgilio: “Federicus autem Princeps marmoream effigiem cum laurea posuit, quae in arcu lapideo iuxta Virgilii Maronis simulacrum, pia hercle, si non ridenda comparatione conspicitur” (Elogia, p. 88. Trad. it., pp, 178-179: “Addirittura il principe Federico fece disporre un suo ritratto in marmo con corona d’alloro, visibile nell’arco di pietra vicino a quello di Virgilio: un accostamento davvero devoto, per Ercole, se non ridicolo”).

668 Cfr. Edmondo Coccia, Le edizioni delle opere del Mantovano, Roma, Institutum Carmelitanum, 1960, pp. 5- 6, ma soprattutto la splendida edizione Battista Spagnoli Mantovano, Adolescentia, studio, edizione e traduzione a cura di Andrea Severi, Bologna, BUP, 2010, pp. 39-45.

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Andrea Stagi, Amazonida, Venezia, s.e., 1503, c. LXXXr; Giovanni Filotheo Achillini, Viridario, Bologna, presso Girolamo di Plato Bolognese, 1513, c. CXCIIIv.

670 Paolo Giovio, Elogia, p. 87: “Reperit tamen sibi aemulum incondito furore Consalvi Magni res gestas decantantem, cuius explosione claresceret. Is erat Cantalicius, pro bono poëta ab optimo Duce, mediocris etiam virtutis amantissimo, liberaliter ditatus. Verum et hunc et ipsum quoque Carmelitam, desumpto eodem argumento, Gravina male partae laudis loco strenue deturbavit, quum inchoatum poëma nobile, Pontano atque Actio censoribus, recitasset”. Trad. it., p. 178: “Tuttavia trovò un rivale, che cantava le gesta di Consalvo il Grande con una sorta di scomposta follia, il cui insuccesso lo fece divenire celebre. Si trattava di Cantalicio. Quest’ultimo, in quanto buon poeta, era stato reso ricco dalla generosità di quell’ottimo comandante, amantissimo della virtù ancorché mediocre. Ma recitando un celebre poema che aveva iniziato sotto la supervisione di Pontano e Sannazaro, Gravina spodestò entrambi, Cantalicio e il Carmelita, che avevano abbracciato lo stesso argomento, dal prestigio che avevano ingiustamente meritato”.

172 lapidaria affermazione: “Sed incidit in ea tempora, quibus nullus mediocribus poetis locus erat” 671.

Per lodare invece la produzione bucolica del Carmelita, Giovio ricorre a una perifrasi articolata attorno al luogo di nascita di Virgilio (“Andinos fontes”):

Caeterum Carmelitae satis ad laudem fuit, quod per quindecim secula neglectos a civibus Andinos fontes salubriter ebiberit, scilicet ut fatali monito limpidioris eius aquae siphones Laelio ac Hippolito Capilupis fratribus monstrarentur672.

Lo Spagnoli non raggiunse mai, secondo Giovio, la perfezione stilistica perché il desiderio di ampliare la propria cultura lo aveva distolto dal necessario lavoro di lima: nonostante questo grave limite il poeta possedeva però una naturale inclinazione alla poesia (“naturam ad carmen attulit”). In particolare il Carmelita aveva speso molte energie per apprendere l’ebraico673. In questo giudizio è implicita la nota opinione classicista, già attestata altrove negli Elogia, che individua nel labor limae l’impegno più utile per il raggiungimento della gloria letteraria. Per questo la critica che Giovio rivolge alla poetica del Carmelita scaturisce ancora una volta da ragioni stilistiche: lo Spagnoli infatti adottò un’elocutio avversa al magistero ciceroniano. Non a caso dunque il suo stile guadagnerà l’elogio dell’Equicola, intellettuale di evidenti inclinazioni anticlassiche, il quale in una lettera inviata a Giovan Iacopo Bardellone esprimerà il suo apprezzamento per lo sperimentalismo linguistico del Carmelita674. Convinto che latino e volgare fossero in realtà lingue sincroniche, lo Spagnoli si serviva di un ampio repertorio lessicale: suscitò quindi grande scandalo fra i ciceroniani il suo invito a introdurre nell’idioma latino i neologismi del volgare. Ecco dunque spiegato il motivo per il quale Erasmo lodò lo stile del Carmelita e, sul fronte opposto, la ragione in base alla

671 Ibidem; trad. it., p. 178: “Ma visse in tempi in cui non c’era davvero spazio per poeti mediocri”.

672 Ivi, p. 88; trad. it. p. 178: “Tuttavia fu motivo di lode sufficiente, per il Carmelita, il fatto di avere bevuto l’acqua salubre delle fonti di Andes, che gli abitanti di quel luogo avevano trascurato per quindici secoli, certamente perché gli zampilli di quell’acqua più limpida fossero mostrati, fatale avvertimento, ai fratelli Lelio e Ippolito Capilupi”.

673 Ivi, p. 87: “verum insatiabili Hebraicorum studiorum cupiditate ita occupatam, utcum magnus et admirabilis in omnibus videri contenderet, in excolendis Musis curam ac diligentiam remittere cogeretur quibus unis non dubius ad aeternitatem gradus parabatur […]”. Trad. it., p. 178: “In effetti fu così preso da una voglia insaziabile di studiare l’ebraico che, cercando di sembrare grande e degno di ammirazione in ogni disciplina, fu costretto a trascurare l’impegno e la cura verso le muse (solo grazie a esse si preparava la strada per l’immortalità)”.

674 La missiva fu pubblicata come premessa all’edizione postuma delle opere del Carmelita curata proprio dall’Equicola: Opera Baptistae Mantuani Carmelitae edita a Stephano de Basignana, Lugduni, Bernardus Lescuyer, 1516, c. ciiiv. Affronta il tema anche Riccardo Drusi, La lingua cortigiana romana: note su un aspetto

della questione cinquecentesca della lingua, Venezia, Il Cardo, 1995, pp. 54-55. Lo Spagnoli è ricordato

173 quale Giovio riteneva giustificate le critiche che furono rivolte al poeta negli ultimi anni della sua vita:

Octogenario maior Mantuae decessit, non plane felix, quum in extremo vitae actu defensionem contra criticos scribere cogeretur, qui eius poëmata obeliscis non inanibus misere confodissent675.

La lezione del Carmelita si avvicina dunque a quelle estreme del Beroaldo e del Pio. Il loro lascito attecchì nell’Italia settentrionale e soprattutto nei territori oltramontani dove la polemica sul ciceronianismo si colorò di sfumature religiose676.

Un fortunato filone della versificazione cinquecentesca è rappresentato anche dall’alessandrinismo, una forma di poesia che faceva leva sul preziosismo e sulla ricercatezza. Antonio Telesio (CXXII), zio del più noto Bernardino, fu tra i più apprezzati poeti di questo genere677 e il suo stile innovativo è giudicato positivamente da Giovio. Antonio ha saputo valutare con oggettività il proprio talento: egli ha scelto infatti di dedicarsi a un genere più modesto per evitare l’insuccesso nella letteratura più impegnata. Si legga l’incipit dell’elogio:

Hic varia tenuique materia, et minuto semper lemmate delectatus, non ignobilis poetae nomen tulit, quum in parvis singularis et plane conspicuus esse mallet, quam in grandi charactere, veluti unus de populo in turba tot vatum trita, et centies repetita canentium, mediocris et obscurus678.

L’obiettiva valutazione del proprio ingegno costituisce sempre un indice di saggezza dell’intellettuale che Giovio loda apertamente: già nell’elogio di Ariosto infatti l’autore aveva giudicato con favore lo slittamento del ferrarese dalla poesia latina a quella volgare, più consona alle sue qualità.

Giovio conosce nel dettaglio la produzione del Telesio: non si limita infatti a farvi cenno genericamente ma cita addirittura, parafrasandoli, gli argomenti di tre epigrammi Dono mittit

Joh. Mattheo Gyberto reticulum sericum, Lucernam describit a lampio patricio Mediolanensi

675

Paolo Giovio, Elogia, p. 88; trad. it., p. 178: “Morì a Mantova più che ottantenne, ma non del tutto felice. Infatti, come ultimo gesto compiuto in vita, fu costretto a scrivere un’apologia in cui si difendeva dai critici che avevano attaccato duramente i suoi poemi con argomenti criticamente non irrilevanti”. Giovio allude all’opera del Mantovano Apologeticon.

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Cfr. Andrea Severi, Introduzione, in Battista Spagnoli Mantovano, Adolescentia, cit., pp. 41-42.

677 Si legga al riguardo quanto scrive Antonio Fregoso nel poemetto I tre peregrini (Venezia, Zoppino, 1528, c. 82a): “e qui ’l partenopeo Tilesio prese / d’Euterpe il vago stil candido e ornato”. Il passo è citato in Francesco Flamini, Viaggi fantastici, cit., p. 286.

678

Paolo Giovio, Elogia, p. 132; trad. it., p. 338: “Traeva diletto da una materia varia, sottile e da soggetti sempre di estensione circoscritta. Ebbe fama di poeta non banale, poiché preferiva essere unico, e dunque in vista, nelle piccole cose, piuttosto che mediocre e oscuro nel misurarsi con la letteratura alta, uno tra i tanti nella folla di poeti che cantavano temi triti e ripetuti cento volte”.

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dono missam e Cicindela679. Non manca poi un cenno allo scritto forse più noto del Telesio, la tragedia Imber aureus, un’opera ben composta sul piano tematico e stilistico. Fra gli estimatori della tragedia (“iudicatur”), Lelio Aleandro scriveva nella prefazione alla princeps:

Cum Tragoedia haec Antonii Thylesii […] in manus meas pervenerit, eamque semel iterum atque tertio integram relegerim, sic ipsa sermonis elegantia dicendique puritas, sic passim servata gravitas, sententiarumque splendor ubique sese mihi offerebant […]680.

La somiglianza del giudizio dell’Aleandro con quello dell’elogio (“Reliquit et Tragoediam, in qua Danaem sub aurei imbris nomine, cum multo sententiarum verborumque splendor expressisse iudicatur”)681 suggerisce che Giovio avesse sotto mano proprio quell’edizione. Anche Lancino Curti (LX), poeta milanese che si è impegnato sul duplice fronte della letteratura latina e dialettale, fu un noto sperimentalista. La poetica del Curti, già allievo di Merula, risentì negativamente del suo carattere: la sua indole volubile e poco incline alle