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I L CONTESTO CRITICO E IL DIBATTITO SUL VOLGARE

Sia negli Elogia sia nel Dialogus la storia e la geografia della letteratura primo cinquecentesca si sintetizzano nel cronotopo della Roma di Leone X. Forte infatti di un osservatorio privilegiato quale fu la Curia papale nella prima metà del XVI secolo, Paolo Giovio poté assistere all’evoluzione delle maniere e degli stili letterari, nonché alla massiccia immigrazione di umanisti convenuti in città da ogni angolo d’Europa455. Giovio era ben consapevole che sullo sfondo di queste vicende si stagliava il traumatico avvenimento del Sacco, un evento che ebbe tra le sue terribili conseguenze anche la dispersione di un’intera generazione di intellettuali: laddove la storia interviene violentemente nella vita di quei letterati, l’autore non tralascia infatti mai di narrare le circostanze di tale stravolgimento456. Ma Giovio possiede una visione dei fatti del ’27 che resta comunque estranea a quelle letture pessimistiche che dettero origine a una cospicua letteratura457. L’opera più rilevante di questo genere fu sicuramente il De infelicitate literatorum di Pierio Valeriano458: in confronto a questo, sia gli Elogia sia il precedente Dialogus, scritto proprio all’indomani della fuga da Roma, optano piuttosto per la riflessione, per l’affresco e si mantengono distanti dai toni cupi della tragedia per adottare invece il tocco più lieve della narrazione aneddotica. Questi testi

455 Una rappresentazione plastica di questa eterogeneità culturale giunge dai dati raccolti da Vincenzo De Caprio,

L’area umanistica romana (1513-1527), in «Studi romani», XXIX, 1981, pp. 321-335: tra il 1513 e il 1527 l’85,

5% degli umanisti presenti a Roma non è di origine laziale; i romani corrispondono dunque solo al 10, 8% dell’insieme. Stranamente gli intellettuali fiorentini costituiscono solo il 3% del totale mentre è molto nutrita la presenza di bolognesi. Tanti infine i letterati stranieri come avremo modi di verificare nel capitolo successivo. 456

All’interno dell’ampia bibliografia sul Sacco di Roma si tenga presente almeno il canonico André Chastel, Il

Sacco di Roma: 1527, trad. di Marisa Zini, Torino, Einaudi, 2010. Sulla Roma di Leone X, il cui mecenatismo

contribuì a ricreare secondo Giovio una nuova età dell’oro, si vedano i classici studi di William Roscoe, Vita e

pontificato di Leone X, tradotta da Conte Cav. Luigi Bossi, Milano, Dalla Tipografia Sonzogno e Comp., 1816;

Jacob Burchardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, cit. e ancora Bonner Mitchell, Rome in the high

Renaissance. The age of Leo X, Norman, University of Oklahoma press, 1973. Sempre validi i saggi di

Domenico Gnoli tra i quali cfr. almeno La Roma di Leon X: quadri e studi originali, Milano, U. Hoepli, 1938. 457 Si citeranno a titolo d’esempio il De romanae urbis direptione di Pietro Corsi, la Scechina di Egidio da Viterbo, l’Epistola in qua agitur de incommodis quae in direptione urbana passus est di Lilio Gregorio Giraldi, il poemetto La presa di Roma di Eustachio Celebrino da Udine. Cfr. il volumetto collettaneo Il Sacco di Roma

del 1527 e l’immaginario collettivo, Roma, Istituto Nazionale di Studi romani, 1986; Kenneth Gouwens, Remembering the Renaissance: humanist narratives of the Sack of Rome, Leiden, Brill, 1998; soprattutto si veda

il recente studio di Giulia Ponsiglione, La “ruina” di Roma. Il Sacco del 1527 e la memoria letteraria, prefazione di Alberto Asor Rosa, Roma, Carocci – Sapienza Università di Roma, 2010, nel quale sono passati in rassegna i principali generi letterari e le opere che hanno offerto testimonianza di questo drammatico evento. 458 Per un’analisi dell’opera del Valeriano cfr. Marcello Montalto, “Sii grande et infelice”: litteratorum

infelicitas, miseria humanae condicionis nel pensiero umanistico (1416-1527), in «Memorie. Istituto Veneto di

letteratura, scienze ed arti. Classe di Scienze morali, lettere ed arti», LXXX, 1998, pp. 1-206. Si veda anche Vincenzo De Caprio, Intellettuali e mercato del lavoro nella Roma medicea, in «Studi romani», XXIX, 1981, pp. 29-46.

111 promuovono soprattutto uno sguardo critico sulla letteratura del tempo che era assolutamente estraneo al disegno del Valeriano.

Al termine della ricognizione si noterà come la sostanziale differenza corrente fra la pur cospicua serie dei ritratti degli umanisti del Quattrocento e questo gruppo di elogi sia insita proprio nella ricchezza della rappresentazione. Affiancando le varie tessere delle raccolta si ottiene infatti una panoramica piuttosto completa della letteratura della prima metà del secolo. Se sussiste un sospetto di parzialità, il dubbio è dato esclusivamente dalla limitazione spaziale imposta al progetto: focalizzandosi sul fenomeno della poesia a Roma, Giovio relega purtroppo a margine della raccolta le voci complementari a questo ambiente più polarizzante459. La nuova serie di elogi riveste quindi un particolare interesse storico-letterario generato in primo luogo dal relativo contesto cronologico. Durante la prima metà del XVI secolo si stava preparando infatti un momento di svolta decisivo per la letteratura italiana: essa risentiva ormai da tempo del precario equilibrio di un bilinguismo sempre più sbilanciato in favore del volgare. La complessità delle questioni discusse in quegli anni non poteva restar priva di riscontro in un’opera che si prefiggeva l’intento principale di celebrare i protagonisti del mondo delle lettere. Al di là dunque degli interessanti aneddoti concernenti le stravaganze comportamentali degli intellettuali, per i quali spesso il racconto di Giovio costituisce la prima attestazione, risultano notevolmente acute le considerazioni dell’autore sugli stili e sui generi letterari del suo tempo.

Gli Elogia si affacciano in uno scenario critico dominato dai primi importanti trattati di poetica: testi di tal genere accoglievano spesso al loro interno esaustive rassegne di poeti con le relative, lapidarie valutazioni. Le opinioni espresse da Giovio rivelano un’autonomia di giudizio non sempre scontata. Tuttavia sarà utile confrontare le sue affermazioni con quelle contenute nel dialogo del Giraldi o, ad esempio, nei Poetices libri dello Scaligero ai fini di delineare la fisionomia di un canone letterario che diverge assai spesso dalle odierne acquisizioni460. Gli indizi della fortuna di uno scrittore sono disseminati inoltre anche nei novellieri, nelle raccolte poetiche e soprattutto nei poemi in ottava rima che contengono spesso interessanti cataloghi di poeti. Pur declinati in forme di volta in volta diverse, contestuali alle specifiche esigenze narrative, questi elenchi evidenziano la fama raggiunta da

459 Restano infatti abbastanza estranee alla raccolta le voci della letteratura fiorentina e settentrionale, rappresentate solo in parte dagli umanisti del Quattrocento.

460

Precedentemente all’affermazione di una moderna critica e storia letteraria, la teoria della letteratura era affidata ai trattati di poetica quali gli scritti del Vida, del Daniello, del Robortello, esemplati sul modello della

Poetica aristotelica. Cfr. Ciro Trabalza, La critica letteraria. Dai primordi dell’Umanesimo all’età nostra (secoli XV, XVI, XVII), Milano, Vallardi, 1915, p. 153; Giovanni Getto, Storia delle storie letterarie, cit., pp. 15-21.

112 alcuni scrittori e contribuiscono talora a individuare la predominanza di un codice poetico sugli altri461.

Abbiamo già ricordato in proposito il catalogo dei letterati contenuto nel XLVI canto (ott. X- XIX) del Furioso: è ora doveroso esaminare più attentamente questo noto segmento del capolavoro ariostesco462. Elencare i nomi citati dall’Ariosto è un’operazione forse pedante ma, a nostro avviso, necessaria per fissare un punto d’avvio dell’indagine. L’autore del

Furioso immagina che al suo “arrivo in porto” siano ad attenderlo, assieme alle dame e ai

gentiluomini della corte ferrarese, la compagnia dei letterati protagonisti della vita culturale dei suoi anni. In ordine di apparizione vengono citati quindi Bernardo Accolti detto l’Unico Aretino, suo nipote Benedetto e Lorenzo Campeggi; seguono, in rapida successione, i senesi Lattanzio e Claudio Tolomei, Paolo Pansa, Giangiorgio Trissino (Dresino) con Latino Giovenale, i fratelli Capilupi, Panfilo Sasso e Francesco Maria Molza modenesi con Floriano Montino; Giulio Camillo, notevolissima inserzione della redazione del 1532, con Marco Antonio Flaminio, Giambattista Sanga e Francesco Berni; all’ottava XIII troviamo Tommaso Fedra Inghirami, Bernardino Capella, Camillo Porzio, Filippo Beroaldo, un Volterrano, Fausto Maddaleni, Biagio Pallai, Pierio Valeriano, il cremonese Vida, Giovanni Lascaris, Marco Musuro, il Navagero, Andrea Marone e Severo da Volterra. Avanzano sulla scena poi Alessandro degli Orologi e Alessandro Guarino, Mario Equicola e “il flagello de’ principi, il divin Pietro Aretino”; Girolamo Verità e il Cittadini con i medici Mainardi, Leoniceno e Niccolò Mario Panizzato, Celio Calcagnini con Benedetto Tagliacarne detto Teocreno. L’ottava XVI si apre coi nomi di Niccolò Tiepoli, dell’Amanio, di Antonio Fregoso, di Gianfrancesco Valerio e di Pietro Barignan; seguono poi, in un crescendo che culmina col ponderoso calibro di Iacopo Sannazaro, i nomi di Gianfrancesco Pico della Mirandola e Alberto Pio da Carpi463. Chiudono la rassegna Bonaventura Pistofilo, gli Acciaiuoli, Pietro

461 Fondamentale per queste tematiche il saggio di Rosanna Alhaique Pettinelli, La critica letteraria in ottave:

cataloghi di letterati nei testi romanzeschi in ottava rima prima e dopo il «Furioso», in Filologia e interpretazione. Studi di letteratura italiana in onore di Mario Scotti, a cura di Massimiliano Mancini, Roma,

Bulzoni, 2006, pp. 161-184. Secondo la Pettinelli esistono diverse esigenze per le varie rassegne: alcune si pongono l’obiettivo di illustrare la situazione della letteratura in determinate aree geografiche, altre mirano ad essere esaustive, alcune tentano un approccio critico, altre hanno solo la pretesa di elencare nomi di scrittori funzionali a specifiche necessità narrative. La studiosa individua il punto d’origine di questa moda letteraria: “I cataloghi di letterati […] nascono nel Quattrocento dalla costola del genere delle biografie degli uomini illustri nel momento in cui questi litterati homines vengono acquistando sempre più coscienza di essere una casta con specificità sue proprie e sentono quindi il bisogno di contarsi, di dire “chi siamo”, di rendere manifesta la propria identità e presenza” (p. 161).

462 Questo importante tassello del capolavoro ariostesco è stato indagato con attenzione da Alberto Casadei,

L’esordio del canto XLVI del «Furioso», in «Italianistica», XV, 1986, pp. 53-93 (aggiornato poi in Id., La strategia delle varianti: le correzioni storiche al terzo «Furioso», Lucca, M. Pacini Fazzi, 1988, pp. 105-149).

463 Stando al commento di Caretti (Orlando Furioso, cit., p. 1387n) il Pio citato da Ariosto sarebbe Alberto Pio da Carpi: non è da escludere però che si tratti di Giovan Battista Pio, umanista bolognese, noto allievo di Beroaldo il Vecchio.

113 Martire d’Anghiera, Annibale Malaguzzi con l’Adoardo464. Se integriamo questo quadro con gli altri due elenchi di poeti contenuti rispettivamente ai canti XXXVII (ott. VIII-XII) e XLII (ott. LXXXIII-XCII) e comprendenti figure importanti come Marullo e Pontano, Baldassarre Castiglione, Luigi Almanni, Ercole Bentivoglio, Renato Trivulzio e Francesco Guidetti, Antonio Tebaldeo, Giangiacomo Calandra e il Bardelan, Iacopo Sadoleto, Giovanni Muzzarelli, Camillo Paleotti, Guido Postumo e Marco Cavallo, Niccolò da Correggio e infine Timoteo Bendedei, acquisiamo uno spaccato assai rappresentativo della situazione delle lettere nel primo Cinquecento465.

La concordanza fra il contenuto del catalogo di Ariosto e le tessere della raccolta gioviana è parziale a causa della limitazione imposta dallo storico comasco al suo progetto. La restrizione del campo d’indagine agli intellettuali defunti prima del 1546 ha inevitabilmente escluso dal piano di lavoro la celebrazione di eminenti personalità quali Bembo, Aretino, Alamanni, Vida o Trissino466. Si deve inoltre dire con chiarezza che la menzione dei letterati negli Elogia non era vincolata ai ritratti presenti nel Museo: infatti nella seconda parte della raccolta, dichiaratamente disgiunta dal supporto iconografico, Giovio avrebbe potuto accogliere qualunque scrittore non ricordato in precedenza. L’ipotesi si somma alla constatazione che Giovio possedeva le effigi di alcuni importantissimi scrittori già defunti nel 1546, i cui profili non furono però inclusi nel progetto definitivo degli Elogia467. Dall’evidente discrasia fra il pretesto collezionistico e la scrittura nasce quindi uno spontaneo invito a riflettere sul canone proposto dall’autore. La selezione effettuata all’interno del suo ampio patrimonio artistico mostra con chiarezza che Giovio aveva in mente una sua ideale gerarchia di letterati: fra tutti i protagonisti celebrati nella sua collezione solo alcuni meritavano dunque il beneficio di un’eternità letteraria.

La prima informazione che si ricava scorrendo sommariamente l’indice dell’opera riguarda la classificazione degli scrittori considerati: la quasi totalità di questi letterati appartiene alla classe dei poeti latini. Anche nel momento in cui si accinge a presentare quei poeti bilingui che avevano dato prova di eccelsi risultati pure nel campo della letteratura volgare, Giovio preferisce far scendere un silenzio significativo su alcune opere che già al suo tempo erano

464 Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, cit., vol. II, pp. 1384-1387 (XLVI, ott. X-XIX). 465 Ivi, pp. 1097-1099; 1255-1258.

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Nella Peroratio finale degli Elogia Giovio elenca i nomi dei letterati viventi dei quali possedeva già il ritratto: il progetto iniziale che l’autore aveva enunciato nella premessa sull’ordine dei ritratti, prevedeva infatti una seconda raccolta di elogi dedicati agli scrittori ancora in vita. Resta comunque difficile stabilire in quale circostanza Giovio abbia scelto di rinunciare a questo disegno più ambizioso.

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La fisionomia della quadreria gioviana è stata ricostruita dapprima da Bruno Fasola, Per un nuovo catalogo

della collezione gioviana, in Paolo Giovio. Il Rinascimento e la memoria, cit., pp. 169-180, poi da Linda Klinger

Aleci, The portrait collection of Paolo Giovio, cit. Fra gli scrittori già defunti presenti nella pinacoteca coi loro ritratti, ma esclusi dalla raccolta, si ricordino almeno Burchiello e il Piovano Arlotto.

114 considerate decisive. L’esperienza del classicismo volgare del Bembo sembra dunque restare sullo sfondo del suo affresco, oltrepassata a ritroso per ricollegarsi alla grande stagione della letteratura latina umanistica e ciceroniana. Già Dionisotti aveva rilevato che su un totale di centoquarantasei elogi, solo quattro erano stati dedicati a scrittori che annoveravano nei propri

corpora una produzione esclusivamente volgare: Lorenzo de’ Medici, Bernardino Corio,

Bernardo Bibbiena e Niccolò Machiavelli468. A dispetto del calibro di questi personaggi, la loro sola presenza non è sufficiente a decretare uno spiccato interesse da parte dell’autore per la letteratura in lingua toscana. Giovio appartiene d’altronde a quel manipolo di intellettuali la cui partica letteraria latina e volgare non era riducibile a un principio unitario. Se dalle pagine del Dialogus e da quelle degli Elogia emerge infatti la sua netta preferenza per una prosa e una poesia latina di stampo ciceroniano, nel campo della letteratura volgare Giovio dà prova di un acceso sperimentalismo: questa sostanziale lontananza dal modello stilistico volgare proposto dal Bembo, avrà inevitabili ripercussioni anche su alcuni giudizi affidati agli elogi469. Sull’apparente ritardo col quale Giovio sembra proporsi al cospetto dei suoi contemporanei incide anche il retaggio di un’esperienza personale: egli sembra restare infatti tenacemente fedele alle proposte culturali delle accademie umanistiche romane, soprattutto la Coryciana e gli horti colocciani, al cui interno la letteratura praticata e discussa era esclusivamente latina470. Quando invece si volge a considerare stile e possibilità del volgare, l’autore assume una posizione apertamente “cortigiana”. Nelle prime pagine del Dialogo delle

imprese egli dichiara infatti al Domenichi:

io vi risponderò amorevolmente, purché non mi oblighiate alla severità delle leggi di questo scelto parlar toscano, perché io voglio in tutti i modi esser libero di voler parlare alla cortigiana, senza essere scrupolosamente appuntato dalla vostra Academia, ricordandomi, d’aver anco altre volte scritto il libro

468 Carlo Dionisotti, Machiavelli e il Giovio, in Id., Machiavellerie, cit., p. 422. 469

Ha ragione in questo senso Carlo Caruso, «Bello è dopo il morir vivere ancora», in Paolo Giovio, Ritratti di

uomini illustri, a cura di Carlo Caruso, Palermo, Sellerio, 1999, pp. 20-21, il quale identifica nell’indipendenza

di giudizio di Paolo Giovio la principale caratteristica delle opinioni espresse negli elogi dei letterati. Poiché Giovio fu essenzialmente uno scrittore latino, egli mantenne il necessario spirito critico per guardare alla letteratura volgare: questo atteggiamento lo condusse pertanto a mettere in discussione l’ormai affermato canone bembesco.

470 Sul contesto accademico romano, e in particolare sul circolo poetico del Goritz, al cui interno hanno avuto origine i versi dei Coryciana, si veda Rossana Sodano, Intorno ai Coryciana: conflitti politici e letterari in Roma

dagli anni di Leone X a quelli di Clemente VII, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXVIII, 2001, pp.

420-450. Le divergenze letterarie fra il circolo del Goritz e quello del Colocci si misuravano sulla qualità degli appartenenti e sul programma poetico: i membri degli horti colocciani deridevano infatti la pochezza di molti esponenti dell’accademia coryciana, per lo più oltramontani, giunti in città ai tempi di Leone X. L’anticlassicismo dei coryciani trionfò soprattutto negli anni dell’austero papato di Adriano VI. Dal canto loro gli accademici di Colocci si battevano per una poesia di solido impianto classicista: lo stesso Colocci aveva tra l’altro ereditato la casa sul Quirinale appartenuta a Pomponio Leto e per questo motivo era considerato il restauratore dell’Accademia pomponiana.

115 de’ Signori de’ Turchi di Casa Otomana, il qual libro fu molto ben letto e inteso dal grande imperatore Carlo Quinto471.

Qualche anno prima, nella dedicatoria a Carlo V del Commentario de le cose de’ Turchi, Giovio aveva già annunciato il concetto:

lasciarò da canto gli tediosi proemi e gli ornamenti del parlare Toscano come cose superflue e, per meglio accomodarmi a l’orecchie di quella, usarò semplice lingua comune a tutta Italia, acciocché espeditamente quella possa gustare la vera sustanza de le cose senza perdere tempo circa la vanità de parole472.

Il precipuo interesse di Giovio per il latino è testimoniato invece da un brano dell’Ercolano del Varchi che, al netto dalla velenosità del suo autore, risulta estremamente significativo:

VARCHI: Naffè, messer no. Anzi duro fatica a credere che il Cesano e il Cavalcanti, se pure il dicono, lo credono; che il Giovio, intento solamente alla lingua latina, disprezzò sempre, e non curò di saper la toscana; il che ottimamente gli venne fatto; anzi si rideva e gl’incresceva del Bembo, come a molti altri.

CONTE CESARE: E il Bembo che diceva?

VARCHI: Che si rideva e gl’incresceva altrettanto di lui e di loro; e così venivano a restare patti e pagati473.

Come esempio di questa pratica linguistica mescidata e assolutamente libera, sarà sufficiente poi ricordare il caso dell’epistolario gioviano. Anni fa Folena ha richiamato l’attenzione sulle lettere di Giovio in un contributo che intendeva illustrare l’originalissima fisionomia della loro lingua volgare: la conclusione alla quale lo studioso pervenne, stabilì l’unicità di quella lingua espressionista e fortemente idiomatica la quale, nelle sue manifestazioni, non risultava assimilabile a nessun altra esperienza vernacolare di quegli anni.

Questo Giovio bifronte, che guarda cioè con interesse paritetico allo stile ciceroniano e alla letteratura cortigiana, non rappresenta, come si è detto, un’eccezione nel panorama della cultura contemporanea. Un’analoga posizione è sostenuta infatti dai capofila dell’umanesimo

471 Paolo Giovio, Dialogo dell’imprese militari e amorose, a cura di Maria Luisa Doglio, Roma, Bulzoni, 1978, pp. 34-35 (corsivo mio).

472

Id., Commentario de le cose de’ turchi, a cura di Lara Michelacci, Bologna, CLUEB, 2005, p. 71 (corsivo mio).

473 Benedetto Varchi, L’Ercolano, introduzione di Maurizio Vitale, Milano, Cisalpino-Goliardica, 1979, vol. II, p. 243.

116 curiale quali Angelo Colocci, Paolo Cortesi, Vincenzo Calmeta, Baldassarre Castiglione e Mario Equicola. Nell’ambito della Curia romana tale presunta contraddizione fra codici linguistici e stilistici diversi corrispondeva in realtà a un preciso programma cultural-politico. Sia il ciceronianismo sia la difesa della lingua curiale rappresentavano infatti due validi sostegni per l’idea di romanità. Se il ciceronianismo rievocava il glorioso passato della cultura e della politica antica attraverso l’imitazione del più elegante scrittore della latinità, la lingua cortigiana consentiva di respingere fuori dalle mura vaticane la dittatura dell’idioma fiorentino per esaltare il valore della cultura promossa alla corte dei papi474. Non si comprende dunque il complesso approccio di Giovio alle vicende letterarie del suo tempo se non si mantiene sullo sfondo dell’analisi questo eterogeneo contesto culturale e politico.