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Giovio ritiene quindi che l’impiego del volgare rappresenti lo stratagemma adeguato per rendere un testo intellegibile anche a un pubblico meno colto. Lodando la commedia

Calandria nell’elogio del Bibbiena (LXV), Giovio accolla proprio a questa esigenza il ricorso

dell’autore alla prosa e il conseguente impiego del vernacolo:

Giovio arrivò a Ischia, in fuga da una Roma ormai devastata dai saccheggiatori, nel luglio del 1527 e vi si trattenne fino all’8 novembre del 1528: è evidente dunque che all’interno di questo ambiente nel quale il trattato del Castiglione veniva già discusso, Giovio poté formulare le idee proposte poi nel Dialogus e negli Elogia. Sui soggiorni ischitani di Giovio e sulla sua relazione intellettuale con la Colonna, cfr. Carlo Vecce, Paolo Giovio e

Vittoria Colonna, in «Periodico della Società Storica Comense», LIV, 1990, pp. 67-93.

493 Paolo Giovio, Elogia, p. 101. Trad. it., p. 224: “Scrisse anche delle Elegiae in latino e un poema epico intitolato Cleopatra, ma si ritiene che abbia ottenuto la fama di grande poeta con pochi versi toscani, in cui, con un confronto superbo, dice di aver perso la speranza che le sue pene d’amore potessero finire”.

494

Devo la segnalazione alla gentilezza della prof. ssa Lina Bolzoni la quale affronta una disamina di questi noti sonetti in Il cuore di cristallo: ragionamenti d’amore, poesia e ritratto nel Rinascimento, Torino, Einaudi, 2010, pp. 213-214; sulla fortuna del testo cfr. anche Massimo Danzi, Poeti del Cinquecento, a cura di Guglielmo Gorni, Massimo Danzi e Silvia Longhi, Milano-Napoli, Ricciardi, 2001, vol. I Poeti lirici, burleschi, satirici e

didascalici, p. 426.

495 Giulio Cesare Scaligero loderà l’operetta nei suoi Poetices libri (Heidelberg, In Bibliopolio Commeliano, 1617, p. 735) scrivendo che in virtù di questo poema Castiglione fu davvero secondo solo a Virgilio.

496 La scultura, identificata oggi con Arianna, si trova in una nicchia della galleria del Museo Pio-Clementino. Successivamente, ai lati della nicchia furono incisi i poemetti sulla statua scritti da Castiglione, Bernardino Baldi (1553-1617) e Agostino Favoriti (1624-1682): cfr. Brian A. Curran, Love, Triumph, Tragedy: Cleopatra and

Egypt in the High Renassaince Rome, in Cleopatra: a Sphinx revisited, edited by Margaret M. Miles, Berkley

123 Abdicavit in ea numeros primus, ut vernaculos sales dulcius atque liquidius foeminarum auribus infunderet: quo multi risus hilarior voluptas excitaretur. Id enim unum peti, quaerique debere a non insulso poeta disserebat, quod in Terentiana scena verecundi salis prudentiam admirari quidem non satis possint spectatores, ridere certe nequeant, quod nullam vel eruditae fabulae inesse gratiam putaret, nisi ab excitato populo, mistus cachinno plausus redderetur497.

Non afferma il vero Giovio quando scrive che il Bibbiena fu il primo a cimentarsi con la prosa nel genere della commedia: il capolavoro del Dovizi (1513) era stato infatti preceduto sul medesimo sentiero dalle iniziali redazioni prosastiche della Cassaria e dei Suppositi di Ariosto (1507-1510). Desta tuttavia interesse la riflessione sul riso: nell’ideologia del Bibbiena, l’ilarità rappresenta infatti l’unico fine del drammaturgo. Questo risalto ottiene il duplice effetto di giustificare la liceità del ricorso al volgare e di criticare lo stile di quegli autori che, seguendo il modello di Terenzio, conferivano alle proprie commedie toni eccessivamente edificanti.

Il tema riveste un ruolo decisivo nella teorica della drammaturgia cinquecentesca e impegna a più riprese quasi ogni autore: nel prologo della Clizia, successivo di qualche anno alla

Calandria, Machiavelli avrà modo ad esempio di indicare la sua preferenza per un linguaggio

della commedia ameno e distante dalla gravitas:

Volendo dilettare è necessario muovere gli spettatori a riso il che non si può fare mantenendo il parlare grave e severo. Perché le parole che fanno ridere sono o sciocche o iniuriose o amorose. È necessario pertanto rappresentare persone sciocche, malediche o innamorate: e perciò quelle commedie che sono piene di queste tre qualità di parole sono piene di risa: quelle che ne mancano non trovano chi col ridere le accompagni498.

Alcuni anni più tardi invece, Francesco d’Ambra scriverà nel suo prologo in versi dei

Bernardi:

497

Paolo Giovio, Elogia, p. 91; trad. it., p. 191: “In questa commedia rinunciò per primo agli schemi metrici classici per far comprendere più facilmente e più graziosamente le battute in volgare al pubblico femminile: così avrebbe destato maggiore ilarità. Poiché nelle commedie di Terenzio gli spettatori non riuscivano ad ammirare abbastanza il senso dell’umorismo pudico e neppure a ridere, sosteneva che da un commediografo di qualità si doveva esigere una sola cosa: di pensare che in una commedia, persino se l’intreccio è colto ed elaborato, non vi è bellezza se l’applauso con cui è accolta non si mischia a una grassa risata”.

498 Niccolò Machiavelli, Mandragola, Clizia, prefazione di Riccardo Bacchelli, introduzione e cura di Ettore Mazzali, Milano, Feltrinelli, 1995, p. 154. Le commedie che si rappresentavano a Firenze manifestavano evidenti debiti con la tradizione novellistica boccacciana e tendevano per loro natura a un fine moralistico ed edificante. Il Bibbiena innova questo schema, unendo al modello decameroniano l’imitazione dello stile e dei soggetti plautini: si compie così la grande rivoluzione del teatro rinascimentale della quale sarà debitore anche il Machiavelli.

124 A’ dotti abbiamo a dir che e’ non aspettino

Una commedia grave e copiosissima Di sentenze, com’una di Terenzio O d’altro antico, ma tal qual producono I tempi nostri […]499.

Giovio rivendica anche la sua predilezione per la forma prosastica dei testi teatrali. Gli stessi argomenti erano stati d’altronde affrontati dal Bibbiena nel prologo della Calandra:

Voi sarete oggi spettatori d’una nova commedia, intitulata Calandra: in prosa, non in versi; moderna, non antiqua; vulgare, non latina. […] Rappresentandovi la commedia cose familiarmente fatte e dette, non parse allo autore usare il verso, considerato che e’ si parla in prosa, con parole sciolte e non ligate. […] Non è latina: però che, dovendosi recitare ad infiniti, che tutti dotti non sono, lo autore, che di piacervi sommamente cerca, ha voluto farla vulgare; a fine che, da ognuno intesa, parimenti a ciascuno diletti500.

Il giudizio di Giovio sposa quindi l’ideologia che lo stesso Dovizi ha illustrato nel prologo della sua commedia. Tra le varie occasioni di dibattito che il testo ha saputo suscitare, Giovio non poteva eludere anche un riferimento alla legittimità dell’argomento: ad alcuni cardinali il soggetto della rappresentazione era sembrato infatti inopportuno per un uomo di Chiesa; ad altri era parso comunque lecito e dignitoso501. Presentando entrambi i pareri, Giovio tenta di mantenere il giudizio neutrale: il tono sempre entusiastico col quale egli tratta di questa commedia, propende però a far credere che il Nostro accettasse di buon grado anche i temi non propriamente ortodossi della Calandra.

L’elogio gioviano riveste anche un preciso ruolo documentario nel momento in cui rievoca la famosa rappresentazione romana della Calandra avvenuta durante il carnevale del 1515 alla presenza di Isabella Gonzaga. Questo spettacolo replicava in forma identica la recita del

499 Francesco D’Ambra, I Bernardi, In Fiorenza, appresso i Giunti, 1564. Mette in rapporto il testo del Bibbiena coi prologhi di Machiavelli e D’Ambra, Giuseppe Lorenzo Moncallero, Il cardinale Bernardo Dovizi da

Bibbiena umanista e diplomatico (1470-1520): uomini e avvenimenti del Rinascimento alla luce di documenti inediti, Firenze, Olschki, 1953, pp. 586-587, n. 208. Cfr. anche Giorgio Padoan, Il tramonto di Machiavelli, in

«Lettere italiane», XXXIII, 4, 1981, pp. 457-481.

500 Bernardo Dovizi, La Calandra. Commedia elegantissima, testo critico annotato a cura di Giorgio Padoan, Padova, Antenore, 1985, pp. 61-62.

501

Paolo Giovio Elogia, p. 91: “nisi tum caeteris patribus sacra purpura pudorem expressisset: quum tamen a minus severis dignitatem attulisse putaretur”. Trad. it., pp.190-191: “Tutto ciò se la sacra porpora dell’autore non avesse fatto vergognare gli altri cardinali. Tuttavia dei giudici meno severi ritengono che l’abbia composta conservando la propria dignità di uomo di Chiesa”.

125 dicembre 1514, tenutasi sempre a Roma per Isabella e Leone X. Giovio loda l’allestimento di questo spettacolo che verrà celebrato anche da Vasari nella Vita di Baldassarre Peruzzi, scenografo di quella rappresentazione502. Giovio descrive analiticamente la messa in scena ricordando, fra l’altro, che alcuni giovani rampolli della nobiltà romana parteciparono all’evento in qualità di attori: tutti questi dati, che trovano precisi riscontri nei documenti coevi, consentono di identificare in questo spettacolo uno dei momenti più solenni del mecenatismo di Leone X. L’interesse quasi esclusivo manifestato dal pontefice per il teatro del suo tempo ha condizionato sicuramente la cultura di Paolo Giovio che in quella corte ha operato per svariati anni. L’autore si sofferma su questo episodio della vita romana anche nella biografia di Leone X, con riferimento però alla rappresentazione del 1514:

Aggiungevasi anchora l’ingegno del cardinal Bibienna non pure acutissimo nel negotiar cose difficili, ma grandemente accomodato a movere giuochi. Perciochè essendo egli studioso di poesia et della lingua Thoscana, componeva comedie piene di molte argutie et di molte facetie; confortava i giovani nobili a fare l’histrione; et ordinava scene in palazzo in ampissime sale. Per la qual cosa havendo per aventura ordinato di recitare la comedia di Calandro, dilettevole molto per alcune facetie piacevoli et argute da alcuni nobili histrioni per far gratia a Isabella moglie del Marchese di Mantova, ottenne co’ preghi, che ’l papa da un luogo honorato vi fosse a udirla. Era il Bibienna anchora mirabil maestro di far impazzare gli huomini gravi per età o per professione. E ’l papa tanto caldamente si diletava di questa sorte d’huomini, che lodandogli et dando loro a credere cose maravigliose, et donandogli anchora era usato di farne molti di pazzi ch’erano prima pazzissimi et grandemente ridicoli503.

La passione del Bibbiena per il genere della commedia si conciliava perfettamente con la sua indole istrionica. Prima di diffondersi in considerazioni sulla sua opera, Giovio schizza infatti il profilo dell’uomo disegnandone un ritratto che lo raffigura come personaggio ingegnoso e

502 Cfr. Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori ed architettori nelle redazioni del 1550 e 1568, cit., vol. IV, p. 320: “e quando si recitò al detto papa Leone la Calandra, comedia del cardinale di Bibbiena, fece Baldassarre l’apparato e la prospettiva che non fu manco bella, anzi più assai che quella che aveva altra volta fatto, come si è detto di sopra; et in queste sì fatte opere meritò tanto più lode, quanto per un gran pezzo adietro l’uso delle commedie e conseguentemente delle scene e delle prospettive era stato dismesso, facendosi in quella vece feste e rappresentazioni. […] Né si può immaginare come egli in tanta strettezza di sito accomodasse tante strade, tanti palazzi e tante bizzarie di tempii, di logge e d’andare di cornici, così ben fatte che parevano non finte, ma verissime, e la piazza non una cosa dipinta e picciola, ma vera e grandissima”. Ha studiato i vari spettacoli Giuseppe Lorenzo Moncallero, Precisazioni sulle rappresentazioni della «Calandra» nel Cinquecento, in «Convivium», XXI, 6, 1952, pp. 836-842.

503 Si cita dalla traduzione del Domenichi, Paolo Giovio, Le Vite di Leon Decimo, et d’Adriano Sesto sommi

pontefici, et del Cardinal Pompeo Colonna, scritte per mons. Paolo Giovio vescovo di Nocera, e tradotte per m. Lodovico Domenichi, In Fiorenza, Appresso Lorenzo Torrentino, 1549, pp. 294-295.

126 gaudente504. L’immagine del Dovizi così come è ricostruita da Giovio505 coincide con la figura tratteggiata nel Cortegiano: si ricorderà infatti che Castiglione affida al Bibbiena proprio la dissertazione del secondo libro sui motti e sulle facezie506.

Al centro dell’elogio Giovio mette in risalto il dato significativo della partigianeria medicea del Bibbiena: vari documenti provano infatti il precoce ingresso del Dovizi ancora adolescente alla corte di Lorenzo il Magnifico. L’autore dà perciò credito anche alla diceria che identificava in Bernardo l’astuto manovratore che ordì le trame per l’elezione di Leone X507. Ma il Fato, avverte Giovio in limine all’elogio, teneva in agguato per il Bibbiena anche un destino avverso (“Homo valde mirus in utraque Fortuna”)508. Non esiste margine quindi per una descrizione agiografica del personaggio: accanto al Dovizi abile scrittore e fidato diplomatico, si fa strada il prelato ambizioso le cui smanie di gloria ne causarono forse la morte. Sembra infatti che durante una missione in Francia, il re Francesco I gli avesse promesso il suo sostegno in caso di un nuovo conclave: Leone X non tollerò però questo oltraggio e, facendo valere la sua giovane età, neutralizzò l’insidia del più anziano cardinale. Il Dovizi pensò quindi di essere stato avvelenato dallo stesso papa attraverso delle uova fritte: l’indizio di reato fu individuato dalla vittima nella constatazione di essere risultato immune ai tentativi di cura dei vari medici:

504

L’anonimo estensore del codice Vat. lat. 3920 al f. 3 propone un ritratto del Bibbiena che conferma nei dettagli le affermazioni gioviane: “Is enim vir facetus: ingenio haud absurdo erat: risum movere iocunditatem colloquiis commiscere sale atque facetiis oportune respergere: ac propterea cardinalibus quibusdam: voluptati ac venationibus intentis: gratus erat maxime atque acceptus: eorum enim cupiditates moresque intus optime noverat: ac libidinis si qua illis inerat conscius erat. Ad hoc ingeniis quadam facilitate: blandiri obsequi: prout cuiusque cupido ferebat ingenium declinare: Contumelias atque obbrobria inter iocos aequo animo pati: nihil se indignum putare modo se cardinalibus illis gratum dominum vero suum. Probatissimum ac comendatissimum redderet”. La citazione è tratta da Giuseppe Lorenzo Moncallero, Il cardinale Bernardo Dovizi, cit., p. 189; trad. mia: “Egli era infatti un uomo davvero faceto, d’ingegno non sciocco, era capace di suscitare il riso, di unire l’allegria alle conversazioni e spruzzarle opportunamente con arguzie e facezie. Inoltre era ben accetto da alcuni cardinali amanti dei piaceri della caccia: egli infatti conosceva a fondo i loro desideri e i loro comportamenti ed era consapevole della passione se quella entrava nei loro animi. Oltre a ciò, per una certa prontezza d’ingegno, era capace di lusingare, di compiacere, di piegare l’indole così come il desiderio di qualcosa procurava di fare. Era capace di sopportare di buon animo per gioco gli affronti e non si riteneva indegno di niente.

505 Paolo Giovio, Elogia, p. 90: “Convivia enim in quibus erudito luxu certabatur, miris facetiis condire, seria iocis miscere, adulari resque arduas dissimulanter conficere solitus, ingenium nusquam absurdum, aut ineptum, in otio pariter atque negocio feliciter afferebat”. Trad. it., p. 190: “Infatti aveva l’abitudine di condire i banchetti, nei quali si gareggiava in lusso colto e raffinato, con straordinarie battute di spirito, di mescolare momenti seri e momenti scherzosi, di adulare e di fare cose difficili senza che apparissero tali: il suo ingegno, che non risultava mai inadeguato o inopportuno, lo impiegava con successo non solo in politica ma anche nello studio”.

506

Cfr. Baldassarre Castiglione, Il libro del Cortegiano, cit., pp. 144-203.

507 Paolo Giovio, Elogia, p. 90: “magno siquidem adiumento fuisse constabat in comitiis ad promerendas suffragatorum voluntates, quum antea nobilissimis Cardinalium hero conciliatis, ad petendum Pontificatum, expeditam viam, astuta quadam urbanitate munivisset”. Trad. it., p. 190: “In effetti si sapeva che gli era stato di grande aiuto durante il conclave per procurargli i voti degli elettori, poiché anche precedentemente era riuscito a far passare dalla parte del suo padrone i cardinali più illustri e, con una certa astuta eleganza, gli aveva preparato una strada veloce per arrivare al papato”.

127 Periit non plane senex, quum a legatione Gallica in urbem redisset, intempestiva ambitione ad pontificatum aspirans […] quod ei rex Franciscus, ex prolixa pollicitatione suffragaturus crederetur: id multo iunior, habituque vivacior Leo, in imbecillo sene adeo indignanter tulisse fertur, ut ipse Bibienna, tabisco veneno ex frixis ovis de manu in mensa porresti, se petitum suspiciosius, quam decebat, existimaret: inani certe argumento, quod insignum medicorum, veli tarata acquisitaque remedia minime profecissent509.

Il sospetto che il Dovizi fosse stato avvelenato iniziò in verità ad insinuarsi subito dopo la sua morte: già nel Diario di Paride de’ Grassi si dà notizia che in data 9 novembre 1520 l’autopsia del cardinale aveva messo in evidenza tracce di veleno nelle viscere510. Giovio sembra riferire l’opinione per puro scrupolo documentario, camuffando la supposizione dietro l’allusione a più generiche fonti (“fertur”): il fatto stesso di aver insinuato il dubbio nel lettore conferisce tuttavia al finale dell’elogio un tono malizioso che era stato sicuramente ricercato.