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La definizione di salute che dà l’OMS prevede il raggiungimento di uno stato di completo benessere fisico psichico e sociale, quindi relazionale, e non la semplice assenza di malattia. Il benessere in sé rappresenta una realtà complessa e costituita da molti fattori che, a loro volta, si compongono in diverse dimensioni come quella sanitaria, quella psicologica e quella sociale. Questi fattori sono strettamente interconnessi secondo modalità dinamicamente mutevoli in relazione al mutare delle situazioni interne ed esterne al soggetto. Il benessere non è standardizzabile, è comunque una condizione soggettiva, una realtà individuale, per cui la composizione dei fattori deve essere di volta in volta ricercata in forma personalizzata. Ma, pur essendo una realtà del soggetto, il benessere non può essere concepito al di fuori della relazione con gli altri in una dimensione comunitaria. L’obiettivo di un risultato di benessere relativo per l’anziano alla stessa comunità di riferimento può essere perseguito se le forme abitative consentono senso di identità, integrazione, rapporti di vicinato e di prossimità. Questo aspetto può diventare un outcome definito e misurato in termini di incremento di beni relazionali e di capitale sociale attraverso la promozione di regole di reciprocità e la valorizzazione delle risorse della fiducia e della conoscenza, a dimostrazione dell’investimento sociale costituito dall’abitare.

La ricerca sull’abitare non può prescindere da quella sul benessere della persona: abitare bene è collegato alla possibilità concreta di stare bene, non solo da un punto di vista funzionale, ma soprattutto relazionale.

Il benessere infatti è intrinsecamente connesso con la valorizzazione delle reti sociali intese sia a livello micro, sia a livello meso e macro del sistema. La regolazione della rete deve perciò conformarsi a principi in grado di garantire effettivamente questa valorizzazione e per questo l’organizzazione dei sistemi di welfare locale in chiave relazionale dovrebbe assumere la sussidiarietà e la reciprocità come riferimento culturale e operativo.

Più avanti verrà sviluppata l’analisi di questi due principi, con particolare attenzione al ruolo della reciprocità nella regolazione delle connessioni della rete dei servizi e tra organizzazioni diverse. Ora ci si sofferma su una dimensione del benessere individuale e sociale: il lavoro di rete.

La dinamica anche relazionale dei bisogni comporta un approccio metodologico conseguente che può essere ricondotto al lavoro di rete, orientato all’implementazione delle relazioni, migliorando in tal modo la reciproca qualità d’azione della rete. Il lavoro di rete assume una prospettiva in cui i diversi sistemi vengono compresi in una visione integrata. Non vengono artificialmente distinti, isolati e affrontati separatamente, ma in un’ottica sinergica che crea coinvolgimenti, matura responsabilizzazione e sviluppa capacità di cura.

In questa prospettiva le soluzioni abitative dovrebbero basarsi su una logica di welfare, attraverso azioni volte a creare presupposti e condizioni di ordine sia materiale che ideale (culturale, motivazionale, metodologico, ecc.) affinché le persone a vario titolo interessate a una specifica contingenza di benessere possano agire loro stesse in prima istanza, nel senso sociologico fissato da Giddens nel 1991.

Si tratta di concepire l’abitare in un’ottica relazionale, ovvero intesa come servizio di tipo relazionale che favorisca l’azione delle persone, facendo in modo che queste si ritrovino anche naturalmente a rivolgere i propri atti gli uni verso gli altri, cioè a dar vita a relazioni. Le azioni si potenziano nella reciprocità e si rigenerano creativamente nei contatti per tutto il corso del processo (Folgheraiter, 2000).

Sarà utile qui richiamare il concetto di “rete di fronteggiamento” (coping network) intesa come il condensarsi delle azioni reciproche entro una certa trama di connessioni flessibili che continuamente si fa e si disfà dipanandosi lungo l’asse del tempo, in direzione di uno scopo condiviso. Folgheraiter identifica nei servizi relazionali tre specifiche tipologie di fronteggiamento: quella attorno al caso, quella che si manifesta con la realizzazione di gruppi di auto/mutuo aiuto tra soggetti portatori di una identità e di un problema condiviso (alcolismo, genitore di un bambino disabile e così via). Infine viene segnalata una tipologia che

si riferisce ad azioni di portata collettiva in termini di sviluppo di comunità. In tutti i casi le reti di fronteggiamento operano negli ambiti della vita quotidiana e le relazioni che costituiscono tali reti sono, prima di tutto, di ordine naturale (familiari, parentali, di amicizia, vicinato e mutua assistenza). Sempre per Folgheraiter, l’idea fondamentale di questa impostazione è che tutti i soggetti che si osservano impegnati in un “darsi da fare” (nel fronteggiamento appunto) entro una data situazione assistenziale vanno considerati idonei sopra tutti ad agire terapeuticamente in quanto precisamente la situazione che richiede di essere gestita appartiene loro. Questo, naturalmente, non significa che non debbano sussistere aiuti esterni da parte di professionisti, ma che questi, per essere efficaci, devono incorporarsi nell’esperienza di chi li riceve fino a farli diventare co-terapeuti.

Nei servizi concepiti in termini relazionali, l’abitare dunque non va inteso nella forma di servizio erogato, attraverso forme standardizzate, ma va incorporato e attivato all’interno della rete, nell’ottica suesposta per cui il benessere è intrinsecamente connesso con la valorizzazione delle reti sociali intese sia a livello micro, sia a livello meso e macro del sistema. La regolazione della rete deve perciò conformarsi a principi in grado di garantire effettivamente questa valorizzazione e per questo l’organizzazione dei sistemi di welfare locale in chiave relazionale dovrebbe assumere la sussidiarietà e la reciprocità come riferimento culturale e operativo.

La cultura della sussidiarietà

Il concetto di sussidiarietà è oggetto da alcuni anni di un rinnovato interesse sia in ambito politico che nelle scienze sociali. A questo concetto si lega spesso la necessità di rivedere l’apparato istituzionale dello stato e le forme di relazione tra soggetti pubblici e soggetti privati. Non è possibile, né è interesse di questo lavoro, riportare le diverse posizioni teoriche (e spesso ideologiche) che si confrontano nel dibattito aperto da tempo su questi temi. È importante invece mostrare come non sia corretto ridurre la portata di questo principio ad un mero criterio organizzativo delle relazioni tra lo Stato e le sue articolazioni inferiori o gli altri soggetti sociali. Il principio di sussidiarietà esprime prima di tutto una cultura, sulla quale si innestano le ragioni fondanti la visione relazionale dei servizi sociosanitari. Come ogni cultura

organizzativa (Schein, 1990), la cultura della sussidiarietà nei servizi relazionali si compone di un insieme di valori, motivazioni e simboli che, pur sussistendo in una dimensione latente, rappresentano il criterio ordinatore di obiettivi, risorse e regole che danno forma a tutte le dimensioni del servizio, orientandole ad un’etica della responsabilità condivisa nei processi di care. La cultura della sussidiarietà afferma, nei servizi relazionali il valore dell’identità soggettiva (individuale o collettiva) della responsabilità e dell’autonomia personale, della centralità delle relazioni. Ciò vuol dire che ad esempio l’anziano è considerato in grado di affrontare, aiutato e supportato, la sua condizione di bisogno, avendo in sé energie e risorse che, in una prospettiva di empowerment, vanno implementate. I criteri guida delle azioni diventano così il raggiungimento dell’autonomia personale, all’interno di una trama virtuosa di rapporti, e la responsabilità diretta del soggetto.

Questa cultura risulta fondamentale per garantire condizioni abitative di benessere, in quanto diretta a sussidiare/capacitare le potenzialità di ogni attore sociale, ponendosi in aperta antitesi con una cultura assistenzialistica che concepisce il soggetto solo come bisognoso di aiuto e destinatario passivo di interventi concepiti, progettati e realizzati da altri.

Questo approccio culturale porta con sé che le strategie sull’abitare dovranno riflettere la valorizzazione delle relazioni, nel sostegno e nella valorizzazione delle capacità, per quanto residuali, dei soggetti in gioco.

Siffatto approccio permetterebbe anche di uscire da una logica di autoreferenzialità, attraverso una sistematica riaffermazione della cultura della sussidiarietà attuata in termini di riflessività (Archer, 2011).

La cultura della sussidiarietà, infatti, innesca cicli di riflessività che hanno una loro specificità. Per generare sussidiarietà occorre riflettere costantemente sui vecchi habitus operativi, i vecchi schemi di lavoro, per sostituirli con nuovi; sul senso e sul significato del proprio compito; sul proprio modo di operare in relazione con gli altri modi di operare controllando questa riflessività in itinere insieme agli altri attori.

Stante l’idea alla base che la proprietà emergente della sussidiarietà è possibile solo entro un servizio relazionale, cioè un servizio che opera a partire “da”, “con”, “per” e “a favore” delle relazioni, Prandini sintetizza questa dinamica riflessività-sussidiarietà in un interessante schema della logica meta-riflessiva soggiacente. Al centro di questa logica stanno le quattro R: ricapacitare l’altro e le sue competenze; riflettere sul proprio modo di agire in relazione al modo d’agire altrui; riconoscere le potenzialità di ognuno; responsabilizzare ogni soggetto, sia nel senso di renderlo capace di rispondere dei suoi specifici compiti, sia nel senso dell’impegnarsi fedelmente, sia il collaborare per il bene della relazione (Prandini, 2007).

Ri-capacitazione

affrontare un problema o un progetto mettendo ognuno nella possibilità

di fare la sua parte, a modo suo

Ri-conoscimento delle capacità e potenzialità

di ognuno, agendo in modo da valorizzarle al massimo Ri-flessività

come modo di orientarsi all’altro e non solo alla propria performance tenendo conto degli effetti che il proprio

operare ha sull’operare degli altri

Responsabilità Saper rispondere dei propri

doveri-compiti legandosi/alleandosi all’altro: “fare la propria parte mettendo gli altri

nelle condizioni di fare lo stesso”

Figura 5 Schema del servizio relazionale, cioè un servizio che opera a partire “da”, “con”, “per” e “a favore” delle relazioni (Riccardo Prandini, 2007)

Per i motivi sopra esposti, le nuove politiche sull’invecchiamento dovrebbero caratterizzarsi per la loro capacità di adattamento flessibile alle esigenze mutevoli dei bisogni, puntando su fattori generativi di cambiamento.

I principi su cui fondare la metodologia di intervento di un servizio relazionale, dovrebbero essere sostanzialmente riconducibili alla proattività, alla personalizzazione, alla processualità, alla integrazione e alla valutazione.

Per proattività si intende uno stile operativo che abbandona la strategia di attesa, tipica degli approcci burocratici, per agire attivamente una ricerca delle condizioni di bisogno quando non si sono ancora costituite come domanda, o perché il livello di problematicità non è giunto a livelli conclamati, o perché la persona e la famiglia non possiedono le risorse cognitive per articolare la domanda. La ricerca delle condizioni di fragilità latente per una conoscenza anticipata dei bisogni, oltre ad essere una modalità gestionale vantaggiosa dal punto di vista dell’efficacia/efficienza degli interventi, è una straordinaria occasione per realizzare strategie di attivazione dei contesti in termini di rigenerazione del capitale sociale.

Questa prerogativa gestionale, oltre che nella specifica realizzazione degli interventi sugli utenti, visti come protagonisti e co-produttori del servizio, si può declinare anche a livello di relazioni tra i diversi soggetti sociali presenti nella realtà locale e nelle stesse organizzazioni erogatrici, laddove vengono attuati stili di direzione che favoriscono lo sviluppo di legami positivi all’interno della rete territoriale.

Inoltre, il passaggio ai servizi relazionali, che verrà approfondito in seguito, deve far leva sull’acquisizione di un frame cognitivo che assuma la processualità degli interventi come guida per la definizione degli assetti organizzativi e gestionali, in un processo orientato a garantire una dinamica ma ordinata coerenza nella risposta ai bisogni.

La processualità degli interventi deve essere in grado di garantire risposte che tengano conto delle reali dinamiche dei bisogni e delle risorse disponibili e potenziali. La logica conseguenza

di questa impostazione è rappresentata dal lavoro per progetti, che può consentire la realizzazione di interventi, con le persone o sui contesti, dotati della necessaria flessibilità e possibilità di rimodulazione in corso d’opera.

La valutazione, infine, è parte integrante di una metodologia di lavoro che assuma la riflessività nel verificare l’efficacia sociale dei propri interventi e la coerenza con i propri valori il criterio guida del proprio agire. Non si tratta, pertanto, solo di una procedura tecnica di misurazione dei propri risultati operativi, ma di una continua messa in discussione della propria capacità di corrispondere al proprio mandato.