Quanto detto sopra è fondamentale per comprendere la necessità di indagare e ricercare i nuovi modi di invecchiare in città. Tali modi passano per l’attenzione ai nuovi bisogni ed alle sfide cui oggi ci si trova di fronte.
Non a caso secondo l’OMS, l’invecchiamento della popolazione costituisce al contempo “un trionfo e una sfida” per la società (OMS, 2002): proprio l’aumento dell’aspettativa di vita rappresenta un’importante conquista legata al miglioramento delle condizioni sociali e ai progressi tecnologici, ma “più anni di vita” non sempre corrispondono a una qualità di vita migliore; l’aumento delle patologie cronico-degenerative legate all’invecchiamento determina inoltre una crescita dei costi di cura e assistenza.
Già durante l’Anno Internazionale delle persone anziane, avvenuto nel 1999, ci si rese conto di essere di fronte ad un cambiamento epocale, ad una rivoluzione “paragonabile alle altre grandi rivoluzioni della storia”, secondo un’affermazione del dott. Bernard Starr, professore di Gerontologia al Marymount College.
Cosa significa questo cambiamento epocale, o meglio cosa significa oggi essere anziani nell’attuale contesto sociale? Quale ruolo attribuire a una popolazione sempre più numerosa all’interno della nostra società? Tale domanda è fondamentale al fine della messa in atto di strategie e politiche che si dimostrino appropriate, efficaci ed efficienti.
Va innanzitutto considerato che oggi siamo di fronte al tramonto della “tradizionale” concezione dell’anziano, quale persona che è ormai giunta alla fine della propria vita e si trova in una condizione di svantaggio di fronte alle giovani generazioni. Assistiamo infatti oggi ad una trasformazione dell’invecchiamento per cui quest’ultimo rappresenta innanzitutto non più una semplice fase della vita dell’individuo, ma un fenomeno di rilievo, che lo pone come generazione in sempre maggior crescita.
A differenza delle epoche precedenti dunque, l’invecchiamento, per il semplice fatto di aver subito un incremento così grande, si pone come fascia generazionale non più passiva, ma attiva di fronte alle politiche pubbliche. Come si vedrà più avanti, tale considerazione rientra nelle principali agende politiche, che stanno cercando di incentivare una visione a favore di un invecchiamento sempre più attivo.
Il più volte citato aumento dell’aspettativa di vita, richiede efficaci politiche di sanità pubblica, per permettere a un maggior numero di persone di restare attive e partecipare pienamente alla società.
Dunque un primo elemento è relativo ad uno squilibrio profondo tra generazioni che andrà accentuandosi nel corso degli anni. Non più una scala omogenea di generazioni, ma uno squilibrio profondo in cui gli anziani avranno un ruolo di primo piano.
Un secondo elemento da tenere in considerazione è relativo alla “transizione epidemiologica nella patologia emergente” verificatasi parallelamente all’accresciuta aspettativa di vita. Mentre in passato infatti si registrava una prevalenza delle malattie infettive e carenziali, oggi siamo di fronte ad una preponderanza di quelle cronico degenerative. Si ritiene infatti che, all’interno dei Paesi più ricchi, il maggior carico di malattia, misurato in anni di vita aggiustati per disabilità (DALY, Disability-Adjusted Life Years), è associabile alle patologie cardio e
cerebrovascolari e ai disturbi neuropsichiatrici, tra cui la depressione, la malattia di Alzheimer e le altre forme di demenza. Secondo le previsioni, tanto nei Paesi in via di sviluppo che in quelli a più alto reddito il numero di soggetti con disabilità, derivante principalmente dalle malattie non trasmissibili, aumenterà in modo proporzionale alla crescita della popolazione, con una più alta percentuale, proprio nelle classi di età più avanzata.
È da considerare anche che, a livello di tendenza generale, le donne rappresentano la maggioranza della popolazione anziana. Attualmente infatti per 100 donne sessantenni nel mondo ci sono 84 uomini. Uomini e donne vivono in modo differente la vecchiaia, dal punto di vista relazionale, sociale, lavorativo. Modi differenti che si accompagnano a percezioni differenti: in molte situazioni, le donne anziane sono più vulnerabili nei confronti delle discriminazioni, tra le quali ricordiamo minori opportunità di accesso al lavoro e alle cure mediche, maggiore esposizione a maltrattamenti, al non riconoscimento del diritto alla proprietà e all’eredità, alla mancanza di un reddito vitale minimo e di una copertura sociale. Gli uomini anziani, soprattutto dopo la pensione, possono a loro volta diventare vulnerabili perché hanno reti di sostegno sociale più deboli e possono essere esposti a raggiri, soprattutto sul piano finanziario. Queste differenze vanno prese in considerazione e studiate attentamente, dal momento che possono avere ripercussioni importanti sui programmi e sulle politiche pubbliche.
Tali caratteristiche della fascia di popolazione anziana prese in considerazione sono fondamentali al fine di comprendere che gli anziani non rappresentano un gruppo omogeneo di persone cui applicare soluzioni facili e semplicistiche, ma rappresentano una parte ingente del tessuto sociale, che come tale va riconosciuta non solo in termini quantitativi, bensì qualitativi. Essa va infatti analizzata sempre più come potenziale e necessaria risorsa per la costruzione del capitale sociale dell’epoca presente.
Non a caso, il concetto di invecchiamento è profondamente mutato. Non si tratta di un’etichetta statica, bensì di un concetto che prende atto di tutte le interconnessioni che lo determinano. Tale concetto rende conto in primis di un processo multifattoriale caratterizzato da una progressiva perdita delle capacità funzionali e da una crescente comorbidità, proporzionali all’avanzamento dell’età e che investono l’intero arco della vita. D’altra parte l’attuale accezione
di invecchiamento, in accordo alle indicazioni dell’OMS, rende conto del fatto che lo stato di salute dell’anziano non va più identificato come assenza/ridotta presenza di malattia, ma con il mantenimento del benessere psicofisico e relazionale. Questo non significa considerare la totale assenza di patologie fisiche o psichiche, ma di allargare l’orizzonte ad un concetto di benessere più ampio.
È per questo motivo che l’aspettativa di vita libera da disabilità Disability Free Life Expectancy (DFLE), è uno degli indicatori più frequentemente utilizzati per misurare il benessere e lo stato di salute della popolazione: esso combina informazioni su mortalità e disabilità, estendendo il concetto di aspettativa di vita al di là del semplice numero di anni vissuti, quantificando quanti di questi siano realmente vissuti senza limitazioni nelle attività quotidiane (ADL, Activities
of Daily Living e IADL, Instrumental Activities of Daily Living). La principale caratteristica di
questo nuovo indicatore è il mantenimento dell’autosufficienza, fondamentale nella qualità della vita di un anziano (Galluzzo et al., 2012).
Le nuove generazioni di anziani sono “portatrici di un capitale umano più articolato” (Istat,2016) che in passato, per una serie di ragioni quali: l’aumento dei livelli di istruzione e di benessere economico, l’adozione di stili di vita più salutari, i notevoli progressi in campo medico, l’utilizzo delle nuove tecnologie e di internet. Tale complesso capitale è segnato allo stesso tempo da molteplici bisogni e sfide, molti dei quali riconducibili al contesto culturale postmoderno in cui ci troviamo. Si tratta appunto, come accennato, della necessità di far fronte alla solitudine ed alla carenza di reti di mutuo aiuto, nonché al bisogno di ricostruire reti di supporto e relazionali all’interno dei contesi in cui l’anziano si trova.
Tali bisogni e sfide vanno declinati in nuovi modi di invecchiare nella città, partendo dal presupposto che soluzioni istituzionalizzate segreganti non rispondono alla richiesta di una vita quotidiana di “qualità”.
Tali modi di vivere la città hanno a che fare in primis con un bisogno socio-relazionale degli anziani che molto spesso le soluzioni abitative istituzionalizzate non riescono a soddisfare. Si tratta di favorire modalità di vivere gli spazi e le città basate su reti relazionali robuste, in grado
di favorire l’interazione sociale e fungere da fattore protettivo rispetto alle fragilità, al rischio di isolamento.
Se è vero che vivere la città è sempre più faticoso, soprattutto per gli anziani, è sempre più necessario incentivare nuovi modi per vivere la città che tengano conto in modo responsabile dell’esistenza degli anziani, riconoscendo loro “i diritti di una piena cittadinanza, che li incoraggi e li sostenga nei loro bisogni e aspirazioni in modo da compensare i cambiamenti fisici al fine di un invecchiamento attivo, sociale, culturale ed economico” (Abitare e anziani, 1/2017: 3). In conclusione dell’editoriale della guida dell’OMS “Global Age-friendly Cities” si legge:
“Il vero problema consiste allora nel domandarsi quali siano le caratteristiche che il contesto urbano deve assumere perché l’anziano autosufficiente possa conservare la libertà economica, l’autorità e il rispetto di chi lo circonda, l’autonomia, la dignità e le connessioni sociali necessari, da un lato per il suo benessere e dall’altro per la sua capacità di concorrere alla creazione di ricchezza e benessere individuale e collettivo”.
Claudio Falasca propone alcune interessanti parole d’ordine che dovrebbero essere tenute in considerazione per la progettazione di ambienti urbani a misura di anziano:
“facilitare”, nel senso di favorire politiche, servizi strutture in grado di sostenere gli anziani da più punti di vista, dall’espressione delle proprie capacità, alla risposta ai bisogni, alla protezione delle persone più vulnerabili;
“anticipare”, nel senso di pensare ad ambienti che siano già preparati e predisposti per accogliere “utenti con capacità diverse anziché essere concepiti per una persona (cioè per un giovane maschio) che si trovi nella “media” immaginaria”;
“rispettare”, nel senso di favorire il rispetto e la considerazione degli anziani ovunque, anche negli ambienti e nei servizi delle strutture assistenziali;
“promuovere”, nel senso di creare città favorevoli per gli anziani, che ne promuova l’inserimento e il contributo (Auser, 2016).
A fronte della crisi del welfare sopra descritta e della situazione di impasse causata dal circolo vizioso del ricorso all’istituzionalizzazione, la ricerca di nuovi modi di vivere la città deve andare in direzione dell’adozione di strategie di welfare leggero, ovvero di strategie che facciano leva su quel “mix di programmi di protezione e investimenti sociali a finanziamento non pubblico, forniti da una vasta gamma di attori economici e sociali, collegati in reti con un forte ancoramento territoriale – da qui l’espressione “welfare di comunità” – ma aperte al confronto e alle collaborazioni trans-locali, al limite di raggio europeo” (Ferrera, Maino, 2011: 18).
L’idea è quella di affiancare alle strategie tradizionali di welfare, logiche di sviluppo maggiormente spontanee, in grado di rispondere efficacemente ai bisogni emergenti della popolazione umana. In tal senso, la ricerca di nuovi modi di vivere la città ha a che fare inevitabilmente con la possibilità di mobilitare risorse aggiuntive, che provengano in modo particolare dallo sviluppo del capitale relazionale e sociale.